Sebastiano Valentino Cuffari, Sette secondi


Sette secondi



Negli ultimi anni il lavoro era andato a gonfie vele, con un fatturato annuo in continua crescita. Lui, Giacomo Altigiorni, aveva portato una piccola azienda a conduzione familiare fino ad invadere il mastodontico mercato dell'estremo oriente. Invasione compiuta con un successo imbarazzante, da fare invidia ai migliori generali delle forze alleate; del resto, le esportazioni andavano a meraviglia: vendere in Cina quelle innovative bacchette in policarbonato era stato il suo lampo di genio.
Le cose andavano talmente bene che, a volte, si stupiva di se stesso e della sua fortuna. Si chiedeva se tutto quel successo fosse meritato, se fosse tutto farina del suo sacco, se non fosse una mera casualità. In fondo non era stata una sua scelta l'ereditare l'azienda familiare, non era stata una sua scelta vivere nei pressi di un grosso complesso di industrie da cui apprendere alcuni segreti del mestiere.
Il sole batteva a picco sulla macchina infuocata, l'aria condizionata sputava il suo gelo sulle braccia sudate, ricoperte da una camicia costata centinaia di euro. Gli ormai sparuti capelli grigi barcollavano al soffio delle correnti; ondeggiava il baffo brizzolato, pettinato ciclicamente da profonde e lisce mani. Giacomo si mordeva, di tanto in tanto, il labbro inferiore con i denti, unica concessione al nervosismo; era solito tenersi tutto dentro, nell'abisso di un inconscio placidamente ordinato dalle ferree regole del mercato e da un'educazione salda e di sani principi.
Ripensava a quando, ormai maturo, gli era stato annunciato dal padre il passaggio di consegne nell'azienda. Sarebbe stato lui a prendere le decisioni, lui a farsi carico della gestione della casa. Lui, tipico uomo della borghesia bene di una piccola città di provincia. Lui e la sua mente moderatamente illuminata nella gestione dei dipendenti, con una visione paternalistica del rapporto con i suoi sottoposti. Lui, lui che si prendeva a cuore i diritti della sua manovalanza (forse per impedire che ne chiedessero di nuovi? Il dubbio lo sfiorò solo per un attimo).
Andava a quel convegno della metropoli, invitato per esporre i suoi successi. Lui, lui che il paese additava come esempio per le future generazioni, il cardine della nuova economia basata sull'antico rigore, la morale contadina coniugata al genio indigeno.
Imboccava la statale fiero di essere se stesso, incurante del mondo che lo vedeva sfrecciare con sguardo sorridente e contemplativo.

Claudia Niscè aveva caricato la valigia, il cane e la bambina, chiuso il cofano, allacciate le cinture per tutti, sistemati gli specchietti. Aveva controllato l'olio, la benzina e l'acqua, provato la pressione delle gomme, regolato l'inclinazione delle spalliere. Finalmente aveva deciso che sì, poteva partire per le vacanze.
Era un'impiegata delle poste; una vita qualunque da madre single. Il lavoro a tempo indeterminato, raggiunto con fatica e ostinata determinazione nella precedente primavera, le aveva finalmente dato un briciolo di sicurezza economica. Le alte zeppe ai piedi la infastidivano di tanto in tanto nella gestione dei pedali, e pur tuttavia nulla la poteva fermare nella sua ostinata ricerca delle vette che confacevano ai suoi sforzi. Bella non lo era, almeno non per l'uomo medio: il viso smilzo, due occhietti indagatori di un verde cristallino, i capelli biondi che facevano già comparire i segni di una ricrescita corvina; certo ne soffriva, nella sua condizione di donna ormai di mezza età e single. Un matrimonio fallito alle spalle, un uomo fallito da sopportare di tanto in tanto; un tentativo fallito per ottenere qualcosa di più della sola casa di quell'uomo, ma sì, anche il tribunale aveva riconosciuto che era un uomo fallito, quindi c'era ben poco d'altro da togliergli.
Quando ripensava ai giorni in cui si era innamorata di lui, un velo di malinconia si stendeva sui suoi occhi; era stata anche lei giovane, un tempo, attraente. Quell'uomo era comparso nella sua vita ed entrambi inconsciamente avevano giocato le loro carte nella lotta per la seduzione: entrambi avevano promesso ciò che non avrebbero mai potuto mantenere e avevano voluto credere ai reciproci inganni. Poi, rapida e dolorosa, era sopraggiunta la realtà, che aveva dileguato ogni miraggio.
La bambina, ogni tanto, chiedeva di andare in bagno, ma la richiesta veniva inderogabilmente rinviata a data da destinarsi: la meta era lontana ancora qualche ora di viaggio. Prima bisognava imbroccare la via più breve per non perdersi nel gorgogliare di macchine in fuga dalla città. L'unica richiesta della pargola cui la madre decise di adempiere fu il famelico bisogno di una merendina: una mano allo sterzo, con l’altra scartabellò rapidamente nella borsetta in cerca dello spuntino per la creaturina ululante alle sue spalle; fu così che imboccò, non esattamente per la via maestra, la statale.

L'asfalto vivo d'un fuoco perenne, le sterpaglie incolte ed arse ai lati dei guard rail, mute ed immobili come vinte dal torpore della calura, assenti ed asettiche: stabili visioni in attesa di un evento che stupisca il loro tedio. Le note del mare lontano risuonavano forse per i villeggianti ed i navigatori, ma lì solamente si intuivano, nel silenzio della terra assopita e nello scrocchiare dei rami rinsecchiti.
Silenziosa, una nube in fuga guardava attonita le macchine sfrecciare sulla strada.

Era finito a fare l'operatore di call center, attività di teleselling: sì, in pratica rompeva le palle alla gente tentando di propinare improponibili proposte commerciali. Un mestiere come un altro, si diceva, quando voleva darsi un tono. Intanto, non appena tornava a casa la sera dopo il suo turno, Simone Pacifico si fermava ad osservare la laurea in fisica appesa ad un muro e non poteva non pensare che qualcosa di sbagliato doveva esserci.
Quel giorno, però, aveva deciso di darci un taglio: troppe cose non andavano in quel periodo. Solo nelle prime due ore di lavoro tre amorevoli donnine l'avevano, nell'ordine, minacciato di denuncia, garbatamente apostrofato, scambiato per un figlio degenere scomparso da settimane in cerca di se stesso (in qualche nota località turistica). Con rasserenata ostinazione, egli aveva dedicato eleganti epiteti a tante generazioni di avoli di ciascuna di quelle affabili interlocutrici. Ad ogni telefonata, il senso di assoluta casualità che lo incarcerava si faceva sempre più opprimente: era il caso che lo faceva entrare per sette secondi nella vita di un emerito sconosciuto; era il caso, non lui, a convincere l'interlocutore; sempre il caso ad intersecare i fili invisibili della rete che lo stringeva ogni istante di più.
Aveva bisogno di una pausa di riflessione: doveva parlare con la sua fidanzata.
La sera prima, dopo averla lasciata a casa, un furgone bianco gli aveva tagliato la strada; un omino uscito dalle peggiori barzellette da bar era balzato fuori dal portellone, tentando con sguardi melliflui, gesti inequivocabili e parole sensuali, di convincerlo a dedicarsi a nuove ed improbabili esperienze.
Era fuggito a gambe levate.
Le mani, ora, gli tremavano per il nervosismo mentre sterzava sulla statale; le lenti degli occhialini si appannavano per il sudore; i capelli castani e la panciotta della vita sedentaria erano bagnati dal gran caldo: tutto il suo fisico gridava vendetta contro lo stress e le delusioni. Sul sedile accanto, qualche lattina di birra, svuotata.
Due giorni prima, era uscito con lei, l'amore della sua vita: una serata felice, ogni tanto. Dopo averla riaccompagnata, rincasando, si era accorto di come un uomo lo seguisse a piedi per strada. Giunto in piazza, nel vuoto della città deserta di notte, Pacifico aveva deciso di affrontare il suo aggressore, o di evitare, quanto meno, di essere preso alle spalle. Voltatosi d'improvviso, aveva colto di sorpresa l'uomo, che, immediatamente arrestatosi, dopo un attimo di esitazione, era schizzato all'indietro, perdendosi fra i vicoli.
Un pensiero, ogni tanto, balenava: ma perché gli eventi più improbabili dovevano capitargli sempre dopo aver riaccompagnato la sua fidanzata e mai con lei accanto?
Che fosse lei la mandante di quegli agguati? Che fosse lei l'ordine dietro il disordine?

Dopo tutti quei mesi a studiare all'estero, finalmente Luisa tornava a casa. Non vedeva l'ora di stringere a sé i cari, di rivedere i volti tanto amati e così attesi nello scandire i giorni per il ritorno. Desiderava ardentemente riabbracciare i paesaggi della sua infanzia. Sul suo viso aggraziato, incorniciato dai sottili e lunghi capelli color oro, già la bocca si dischiudeva in un sorriso al ricordo del suo ultimo ritorno: la festa organizzata dagli amici, le lacrime della madre ormai anziana, i salti di gioia del cane Argo.
In confronto a quella splendida memoria, il viso goffo e volgare della sua compagna di viaggio era solo un errore: conosciuta in quel paese lontano e accolta immediatamente come coinquilina, era finita per essere la sua palla al piede, l'orpello sgraziato da portare sempre con sé, pena interminabili liti casalinghe e squallide ripicche. Persino ora, con la scusa del darsi il cambio nella guida in quel lungo viaggio, l'inimitato donnino si era infilato all'interno della macchina, conciliatasi immediatamente con un profondissimo sonno.
E comunque, quante cose da raccontare! La laurea! Lei, Luisa Arrighetti, finalmente aveva raggiunto l'obiettivo, aveva concluso quel ciclo di studi con il massimo dei voti, addirittura con il bacio accademico e la promessa di un dottorato! Tutti sarebbero stati fieri di lei, ne era certa.
Per un attimo, le venne in mente che i giorni da dedicare al riposo sarebbero stati troppo pochi: presto sarebbe ripartita, alla ricerca, ancora, del suo futuro. Ed il tempo passava, passava così rapido, trascinava con sé i ricordi, le persone...
La meta era ormai vicina: pochi chilometri da percorrere, malgrado il sonno opprimente, su quella statale.

Una mosca, facendo frusciare delicatamente le sue ali, si posò su una merda da qualche parte, presso le rive del Gange. Un atterraggio sobrio, a suo modo elegante.

Nell'impatto, ci furono sei morti ed un ferito, un cane; quattro autovetture distrutte o gravemente danneggiate.
Quali che fossero state le cause della tragedia – l’alcol, l’eccessiva velocità, la distrazione, le ali di una mosca posata su una merda presso le rive del Gange, le leggi del caos - esse non furono mai discoperte.  In quei sette secondi, sette lunghissimi secondi, si era conclusa la tessitura di una tela di ragno disordinata ed incomprensibile, autoreferenziale, estranea ad ogni capacità umana di intendere. L'opera sfrontata di un autore banalmente geniale.
Ovviamente, non il tragico fantoccio che narra questa storia.

Ciascuno, passando davanti a quell'incidente, non poté non rallentare per guardare, per sentirsi per un po' più umano.

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