Lettera aperta sulla mobilità nella scuola e sul precariato storico
Gentilissima redazione di Orizzonte scuola, vi scrivo in merito all'annosa questione della mobilità nelle graduatorie ad esaurimento. Da quando insegno ogni tre anni sento ripetere sempre le stesse storie: precari storici che lamentano il fatto che qualcuno spostandosi di provincia possa superarli. Ogni volta vengono citati gli enormi sacrifici, la necessità di lavorare, l'età e la distanza temporale dall'ingresso in graduatoria. Come se l'essere giovane oppure avere sviluppato nel frattempo la necessità di spostarsi di provincia per mille motivi fossero delle colpe. Così il mero dato anagrafico diventa un merito, cosa che già di per sé è quanto mai criticabile: mi viene da pensare a tutti quegli insegnanti entrati da tanto tempo in ruolo e che hanno smesso di aggiornarsi! Stanchi e usurati dal mestiere, ma che pur svolgendo il loro compito peggio di molti precari ricevono stipendi più alti "perché più anziani". Io credo che una scuola che funzioni non debba premiare l'insegnante perché più anziano ma perché più bravo.
Parliamo poi degli strali contro la mobilità da una provincia all'altra: ma vi rendete conto di cosa dite delle persone che vi scavalcano in graduatoria? Parlate di sacrifici e di esperienza? Pensate forse che questi altri insegnanti abbiano raccolto i loro punti e gli anni di servizio sopra gli alberi? O il diritto di insegnare spetta soltanto a voi? Non vi viene da pensare che se hanno più punti di voi forse è perché hanno più esperienza e più gavetta alle spalle di voi? O i loro sacrifici valgono meno dei vostri?
Sono veramente stanco di questa guerra tra poveri. Se mi si concede un inciso vorrei anche aggiungere che a me ormai del posto indeterminato non me ne frega nulla; preferirei piuttosto che venisse adeguato il mio stipendio agli standard europei e che venisse realmente riconosciuta la dignità del mio lavoro, comprese le ore che svolgiamo lontani dai nostri alunni, nell'aggiornamento o nella preparazione delle nostre lezioni, e che nessuno ci riconosce.
Sebastiano Cuffari.
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