In stazione, Sebastiano Valentino Cuffari

Il treno ha fischito, troppo presto, perché arrivo in stazione quando sento i suoi vagoni sferragliare un lontananza. Cazzo. È già sera quando  sono seduto in stazione.
È sera, dicevo, e siamo in quattro, attendiamo il treno che ci porterà a casa dopo una giornata di lavoro o di studio o fate un po' voi, insomma, credo che il concetto sia chiaro. Fuori il buio della notte ha già coperto le montagne in lontananza e un leggero venticello raffredda la serata, annuncia una nottata di pioggia: non un temporale, ma una pioggia fitta che a breve, si spera, accompagnerà il nostro viaggio.
Noi quattro sospiriamo, il treno viene annunciato in ritardo: la voce metallica agli altoparlanti si scusa dell'attesa mentre la signora di fronte a me scioglie una sciarpa troppo stretta, viola come il collo che libera. Si scusa con chi? Non si sa bene, così dobbiamo ascoltarla indifesi mentre scandisce le sillabe di un rosario laico uguale, sempre, in ogni stazione di questo dannato paese. La signora si toglie il cappotto bianco con bottoni in legno, lo ripiega con cura sul braccio destro. Dopo di che afferra un telefono cellulare ed inizia a parlare con una sua amica, stancamente. Nel racconto della sua giornata di lavoro la sua voce si fa sommessa, un lamento diffuso nella sala d'attesa.
Una ragazzina aspetta di tornare a casa da scuola, avrà quanto? Tredici anni? Sembra che aspetti lì da una vita. Tiene in braccio un libro mentre siede in maniera scomposta sulla sua sedia. Il suo volto ha i lineamenti giovani, deve essere nel pieno della pubertà; gli zigomi sono spigolosi, ancora devono prendere le forme morbide di una bellezza che per ora si può solo immaginare. Sotto gli occhiali spessi di osso, neri come la notte di fuori che si fa sempre più fitta, degli occhi grandi, vispi, rincorrono le luci della sala, seguendo le mani che nervosamente massacrano le unghie e i polpastrelli. La ragazzina decide di mettersi in piedi e passeggiare, quello stare ferma la fa stare male, percorre a passi veloci decine di volte la diagonale della sala, scansando i sedili liberi;il suo passo è goffo, sembra un anatroccolo, dondola con le spalle mentre le scarpette basse, blu e rosse, suonano pesanti sul pavimento della sala, delle mattonelle avana con delle striature rosate che vogliono imitare il marmo, senza averne la fortezza.
Osservo analiticamente chi mi sta intorno, è il mio lavoro, faccio il giornalista o il filosofo, non me lo ricordo più. Per ogni movimento cerco di spiare un qualche segno nascosto, un'espressione sbucata fuori dal nulla, una qualche parola sfuggita a mezzabocca che possa lasciare spazio alla vera essenza delle persone, quella che tutti noi cerchiamo di nascondere, io per primo. Nel mio dirvi del resto che sono un filosofo o un giornalista, mento sapendo di mentire, perché forse non sono né l'uno né l'altro, forse sono solamente un disonesto rigattiere, un viaggiatore, un facchino, un diplomatico o un muratore. Forse quello che sono si mescola con quello che vorrei essere e che sarei stato se il tempo fosse stato dalla mia parte. Forse non è il tempo a non essermi stato alleato, forse sono io a non essere in grado di vivere e neanhe di osservare. Forse questo è solo uno sproloquio dovuto al fatto che poco prima di entrare in stazione ho deciso di bere qualche bicchiere di prosecco al bar, tanto per lasciarmi indietro una giornata da dimenticare. O forse, infine, questo paroliere naif è la maschera che indosso per nascondere un bluff di cui, io soltanto? Sono ben consapevole.
Che cosa hai fatto oggi, chiede la prima signora al telefono alla sua interlocutrice, senza attendere risposta, e nel frattempo scarta una caramella all'arancia da una confezione rossastra. La signora si schiarisce la voce grattandosi ls gola e inizia a parlare, sovrastando con la sua voce quella della persona dall'altro lato della cornetta, racconta di una lunga giornata al tribunale, dei soliti problemi che le ha già menzionato un'infinità di volte, tanto da non avere ancora voglia di parlarne; la persona all'altro capo del telefono sembra capire, tanto da cercare di cambiare discorso, non senza intercalare con una qualche battuta incomprensibile che fa sorridere la donna dentro la sala. Ti ho detto dell'ultima novità, tu potevi immaginare che quei due potessero stare insieme? Ci provano ancora una volta, ormai cos'è? Il quarto tentativo? Io direi che certe persone sanno solamente farsi del male. Che poi, se avessero voluto fare sul serio, avrebbero dovuto farlo molto tempo fa, quando ancora sia lui che lei erano in età per avere dei figli. Ora a che serve? A farsi compagnia l'uno con l'altra?
La ragazzina passeggia mentre la voce all'altoparlante, con aria assente, annuncia che il ritardo è cresciuto ancora, d'ora in avanti dovremo fare attenzione perché il nostro viaggio potrebbe essere cancellato. La ragazzina accoglie la notizia con uno sbuffo, pesta un piede e inizia a ticchettare con le mani contro il pomello della porta che dà sui binari, e già fuori non si vedono stelle, la pioggerelina scende fitta ed il vento scuote i rami degli alberi.
Per terra, rannicchiato accanto ad un muro, un uomo. Il suo odore di dolore riempie la stanza, ci inonda, ci dice che il nulla che sappiamo della sua storia è tutta la sua vita. Evitiamo di guardarlo, ma non so dire se sia pudore o paura.
Accanto a me c'è un mio amico uno di quelli con cui diciamo che ci conosciamo da anni, ma è la prima volta che mi capita di fare con lui questo viaggio. Io percorro spesso questa tratta, sono un pendolare, mi sposto ogni giorno per andare a lavorare e poi tornare a casa, qualunque sia il mio lavoro. Quando arrivo è già sera: spesso ho a stento il tempo per una doccia, preparo qualcosa di precotto da mangiare e poi a letto, perché dopo poche ore ci sarà di nuovo da prendere un treno. A volte mi capita che le cassiere dei supermercati mi prendano in giro per la roba che acquisto: effettivamente immagino che le mie scorte di scatolette, insaccati e pasta precotta possano sembrare eccessive, ma non sono mai stato uno dal palato sopraffino e, per quanto riguarda il cibo, più che a vivere per esso tendo a sopravvivere.
Che poi in realtà a me piace viaggiare, mi dà la possibilità di vedere paesaggi che imparo a conoscere e ad amare, mi dà il tempo di riflettere. Non quei viaggi lunghi, quelli he solo a pensarci ti sale lo stress, no, quelli non mi interesano: a me interessano i viaggi abitudinari, quelli che fai ogni giorno, qurlli talmente alienanti che, se solo ne hai voglia, ti danno il tempo di impazzire o imparare a cconoscerti, non senza che le due cose possano avvenire contemporaneamente. Se guidassi un'auto non riuscirei allo stesso modo, dovrei fare attenzione alla strada, agli altri autisti, alle altre macchine; avrei la sensazione del tempo che sfugge tra le mie dita inutile, come se quel viaggio fosse il vero padrone della mia vita. Così invece le ore trascorse seduto a guardare dal finestrino o a osservare gli altri viaggiatori nei loro scampoli di vita sono mie.
Un cane ci guarda dall'ingresso della stazione. La stazione è piccola, sonnacchiosa mentre ormai la luna si fa alta. Dalla cittadina di provincia le voci si fanno sempre più smorzate, sembra che tutto debba sparire. Anche le auto sembrano non volersi avvicinare alle nostre facce, la mia, quella del mio amico accanto a me, quella della ragazzina, quella della donna con il cappotto e quella dell'uomo rannicchiato per terra. Sembra morto. No, respira, lentamente ma respira. Il cane piscia contro la porta e se ne va.
Il mio amico è uno scrittore. Uno di quelli bravi, intendo, non come me che butto giù qualche riga ogni tanto più per sfogo che per arte. Lui è uno di quelli che le parole sa metterle di fila, sa come arrivare al dunque, uno di quelli affermati, di quelli che può anche permettersi il lusso di dire agli altri come scrivere e come pensare. Non è come me che quando scrivo mi perdo fra mille rivoli, mi lascio trascinare dalla corrente, lascio che le immagini si facciano suoni, che piombino sulla carta con tutta la loro pesantezza, senza ritegno né pudore, come un adolescente che ancora non ha imparato che il mondo non ruota intorno a lui. No, lui sa come farsi leggere.
Ma è sempre così in ritardo questo treno, mi chiede il mio amico. È stanco, ha trascorso la giornata in ospedale a fare visita a suo fratello, gli è nato un nipote, tornerò domani, magari sul tardi, è uno spettacolo, la cosa più bella che ci potesse capitare. Annuisco, sorridendo stancamente, avrei solo voglia di essere sdraiato sul mio letto, non faccio neanche lo sforzo di tentare di immedesimarmi, anche se dovrebbe venirmi naturale. Un parto tranquillo, quattro chili di bambino, sprizza salute da quelle sue belle guance rosse rosse, esclama, tutto contento, sembra un coglione patentato, mica un intellettuale.
L'uomo rannicchiato respira ancora, sembra farlo malgrado il fastidio che dovrebbero procurargli tanti estranei a quell'ora in quella che in fondo è casa sua. Veste una felpa scura, il cappuccio copre parte del suo capo, mentre dei vecchi jeans si stendono a coprire le sue gambe. Non porta calze, solo delle vecchissime scarpe da tennis bianche. Sentiamo tutti il forte odore di urina, e tutti ci convinciamo che sia stato il cane.
Con il mio amico ci mettiamo a discutere. Ci siamo conosciuti all'università, studiavamo insieme lettere. Amavamo entrambi gli antichi, cimentarci nelle traduzioni di quei testi. Quei testi scritti in lingue che ormai nessuno più parla e che hanno così tanto da dire, almeno stando al mio amico. Io non lo so, ho smesso di pormi il problema. Ora il mio amico lavora all'università, insegna letteratura, mentre io sono finito a fare tutt'altro, impiegato alla motorizzazione, dico, ma forse sono un giornalista, o un filosofo, o mi sembra di suonare il piffero nella banda del quartiere. Meglio di niente, visti i tempi che corrono. Del resto di letteratura sono in pochi a vivere.
Scherziamo mentre l'allegra litania dell'altoparlante ci ricorda che il treno si sta lentamente avvicinando, eccolo, forse fra poco si vedrà, comparirà rannicchiandosi sul binario, quasi cappottandosi nella curva che precede la stazione e poi sarà qui. È notte, fa freddo e di intellettuali che mi parlano di bambini che non conosco e di lingue che non servono non ne posso già più. La signora è ancora al telefono, discute animatamente di cucina thailandese, sbuffa, gesticola, le sue mani lisciano la sua giscca, quasi a tenerla a bada.
Credo che la ragazzina abbia scavato una retta, la diagonale esatta della sala, con cura certosina, non c'è che dire, ha fretta, forse ha paura, forse le hanno instillato il terrore degli adulti che potrebbero approfittarsi di lei, magari ha anche un po' strizza del buio, ma figuriamoci se ne parla con le amiche quando si vanta di avventure con questo o quel ragazzo. Forse non ha mai neanche sfiorato le labbra di un ragazzino, o forse ha già conosciuto persino il sesso, io non lo escludo. Tutto sommato non sono affari miei, e comunque ha tutto il tempo per conoscere quella che sarà la sua futura tragedia.
Sono sempre più sicuro che l'odore di urina non sia colpa del cane.
È arrivato il treno, finalmente posso sparire, dileguarmi, i miei compagni di viaggio si nascondono fra i vagoni, il mio amico scende alla prima stazione, per fortuna.
Io non so se quell'uomo respirasse ancora mentre mi allontanavo dalla stazione.

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