Persone violente
Non credo di averne mai parlato in pubblico, fino ad ora è stato qualcosa che ho conservato dentro di me perché fin troppo intimo. Ma in questi giorni in cui stanno accadendo delle cose spiacevoli nella mia vita, sento il bisogno di parlarne. Di parlare della violenza, quella pura, quella senza un perché. Parlare di persone violente.
Sarò garantista, non farò nomi e, nel descrivere l'episodio di cui sotto, dico subito che si tratta di una ricostruzione, di qualcosa che non ho visto perché lontano, una delle rare vacanze che mi sono permesso negli ultimi anni.
Parlo di qualcosa avvenuta più o meno cinque anni fa. Mi trovavo a Roma, in vacanza, come dicevo. S'era appena concluso l'anno scolastico, il mio contratto, il primo da insegnante, era scaduto. Per l'esattezza quindi ero disoccupato. Dopo aver presenziato al matrimonio di un'amica in Puglia, m'ero recato nell'Urbe per godermi qualche giorno di riposo con alcuni amici, festeggiando con loro la prima esperienza lavorativa in comune.
In viaggio giunge la telefonata: una persona a me cara era al pronto soccorso. Si susseguono le chiamate, il quadro peggiora. La persona a me cara è priva di coscienza, poi si riprende; alla fine si tratterà di fratture multiple, tra cui, la più grave, quella al bacino.
Quella sera non faccio in tempo a trovare posti né in treno né in aereo, riparto da Roma la mattina seguente. Quando però giungo a casa, le cose si complicano. Un parente mi prende a parte e mi confida ciò che non avrei immaginato. La persona a me cara non è semplicemente caduta: da quel che si ricostruisce sarebbe stata aggredita, malmenata e per questo si sarebbe rotta il bacino. L'aggressore avrebbe poi colpito un'altra persona a me cara, anche in questo caso ci sarebbero state delle lesioni, ma per fortuna, se così si può dire, almeno lì nulla di grave. Se non all'orgoglio. Almeno così pensavamo in quel momento.
Da questo momento inizia il nostro calvario: il lento recupero, i mesi a letto, la riabilitazione, la paura a mettere piede fuori di casa, le paranoie; il bisogno costante di cure, lo stress accumulato diventa tale che chi si prende cura diventa anch'esso ammalato, ictus, ci si dirà.
E su tutto l'omertà, chi ha visto che di fronte all'evidenza conferma, ne risulta un verbale steso sul luogo, ma poi è reticente a presentarsi a processo. Un processo che dura anni, accordi ricercati per mettere fine ad un capitolo doloroso mai raggiunti. La sensazione che al danno seguirà la beffa; le manovre degli avvocati per evitare le eventuali pene. Un calvario ancora non concluso.
Ripeto, vale la presunzione d'innocenza: finché non ci sarà una sentenza definitiva, la persona accusata di queste violenze è un innocente. Ma il dolore procurato, le sofferenze, le paure, le malattie anche gravi e gli anni di vita persi, questi non li potrà restituire nessuno. E di fronte a questo dolore vedere persone che si nascondono dietro scuse, raptus mi si dice, ma si vocifera che questi raptus siano poi frequenti. Non so, mi interessa anche poco. Vedere che, come sempre, ci si nasconde dietro la superstizione, il caso, la religione.
No, chi sa e non parla è complice, chi sa e nasconde e giustifica è complice altrettanto, complice e colpevole anch'egli, e senza augurare di dover provare lo stesso dolore, chi si nasconde si auguri che non esista il Dio in cui dice di credere, perché se esiste davvero, quella finta pace che cerca sarà la sua condanna eterna.
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