Mr. Gwyn, Alessandro Baricco

Mr. Gwyn è uno scrittore, uno bravo; ecco, questo scrittore ad un certo punto non ha più nulla da dire, così, con ma trovata ad effetto, pubblica sul Guardian un elenco delle cose che non ha più intenzione di fare. Tra queste, appunto, c'è lo scrivere.
Queste le premesse di questo romanzo, e della ricerca di Mr. Gwyn di un nuovo senso per il suo vivere artistico e per il suo bisogno di adoperare la parola come uno strumento, come un pennello.
Un romanzo autobiografico, almeno in apparenza, e metanarrativo, almeno in apparenza, in cui Baricco sembra parlare di sé, della sua conclamata crisi autoriale e di un bisogno di reinventarsi.
Peccato che il tutto sia condito dalla inossidabile presunzione di Baricco, sempre più abituato a considerarsi vate dei nostri tempi. Il romanzo che ne esce fuori è inutilmente verboso, condito di riflessioni banali e sviluppate a malapena, narrativamente debole; la prima metà del romanzo si trascina stancamente senza alcun perché, con un espediente narrativo, quello della donna con il foulard, indispensabile per condurre la trama ad un porto sicuro, visto che la trama stessa si è dispersa in rigagnoli mai sbocciati davvero. Un prendere in giro il lettore, da parte dell'autore, francamente insopportabile.
Il tutto poi è reso ancora più fastidioso, come dicevo, dalla presunzione di Baricco, dal suo ergersi a guida morale e intellettuale verso verità nascoste ai più. Così Baricco condisce il romanzo di corsivi inutili, fuorvianti e privi di un perché, si autocita, lanciando quel contenitore di racconti brevi, tutto sommato mediocri, che è Tre volte l'alba, già incensato nel mezzo della narrazione come bella prova di Mr. Gwynn.
Baricco, in linea con le posizioni ideologiche e politiche espresse negli ultimi anni, ha semplicemente smesso di essere un romanziere, un narratore, per essere altro. Un vate, forse, alla D'Annunzio, con tutti i limiti, sociali, psicologici e politici di questo tipo di figura.

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