West
L’aeroporto lo annoiava sempre, lo riempiva fino al midollo della sua aria condizionata e della sua umidità finta. I muri fin troppo bianchi, lindi, impersonali, gli ricordavano certe montagne che, all’orizzonte, sembravano sempre guardarlo distanti e silenziose, assolute.
Non sentiva parole quando si trovava in aeroporto: era un luogo silenzioso nel suo torpore, i continui richiami degli altoparlanti, gli annunci, non facevano che confermare il sonno dei presenti e le loro vite chiuse in gusci induriti dal tempo.
Nulla parlava di sé in quel luogo, anche quella volta che partiva per un viaggio di lavoro che lo avrebbe portato all’altro capo del ricco occidente, negli Stati Uniti di cui aveva visto tante immagini nei programmi televisivi che lo bombardavano dalla mattina alla sera.
A lavoro, una fabbrica, una delle ultime rimaste nella sua città, gli avevano detto semplicemente che doveva partire per un corso di aggiornamento. Lui non lavorava direttamente in catena di montaggio, lui era uno dei colletti bianchi, di quelli che negli anni settanta facevano la guerra con gli operai, per intenderci. certo ora alcuni dei suoi migliori amici erano proprio degli operai, ma i tempi erano cambiati. Almeno un tempo c'erano delle certezze: chi era un impiegato non si mescolava con quelli di un rango inferiore, ma ora...
Parti, gli avevano detto, perché qualcuno lo deve pur fare, e tu sei ancora giovane. E così si trovava imboscato su un aereo che avrebbe impiegato non sapeva neanche quante ore di volo per atterrare infine a Chicago. Voglia di partire ne aveva quanta ne hanno i cavalli di essere macellati quando non sono più buoni a correre; ma, del resto, non gli era stata lasciata alternativa, doveva farlo per forza di cose.
Sul Taxi aveva ascoltato le voci della radio che si rincorrevano, richieste di viaggi, il centralino che informava i tassisti perché caricassero chissà dove chissà chi per chissà quale destinazione. Ascoltava, relativamente interessato, mentre il finestrino lasciava scorrere l'immagine di un bambino che, attraversando sulle strisce ad un semaforo, lo fissava. E lo fissava in silenzio, non aveva bisogno di dire nulla.
Accanto a lui, al check-in, una famiglia, moglie bionda tanto bella quanto antipatica, marito grassoccio, una voce roboante proveniente da un corpo che si è lasciato andare, e un bambino, esile, quasi inesistente di fronte al padre. Il bimbo maneggiava un panino, un hamburgher, comprato di fretta al McDonald. La donna teneva fra le mani la scatola delle patatine, l'uomo il bicchierone di coca cola. Tutto ruotava intorno al piccolo, rimproveri compresi della donna, evidentemente inviperita perché il viaggio, secondo quello che sentiva, non stava andando come ci si attendeva. E mentre riprendeva il bimbo rimproverava in realtà il marito, reo di non essere quello che lei si attendeva.
Nella fila accanto una coppia di orientali, in volo per Pechino. Bellissimi nel loro ordine maniacale. Lei perfetta, i capelli castani e lisci che scendevano come uno specchio lungo le spalle, coprivano le scapole rivestite di un vestito firmato di gran classe. Lui in giacca e cravatta, magnifico nella sua camicia grigia e nella sua giacca nera, una cravatta nera e sottile, bardata di strisce blu scure, che scorre come un fiume lungo il petto fino alla cintura. Non un sorriso, non un parola, solo sguardi, e la sensualità nascosta che solo la mente può immaginare e che la lingua può solo rovinare. Non c'era dialogo in quella coppia, forse non ce n'era bisogno, non lo sapeva. Vedeva solamente che ogni comunicazione era muta fra quei due, come mai gli era capitato in ogni relazione che aveva conosciuto, che aveva vissuto: ripassò rapidamente tutte quelle che erano state le compagne della sua vita, in nessun caso gli era capitato di non aver bisogno di discutere, spiegare, esemplificare. Forse non aveva mai vissuto realmente una relazione.
Il bambino del McDonald piangeva, chissà perché: la madre continuava a rimproverarlo, ad inveire contro i suoi capricci, mentre il marito impotente assisteva muto, tentando malamente di mediare fra i due contendenti. La fila si muoveva a rilento, accanto la coppia orientale proseguiva rapidamente verso il check-in. Nulla sembrava se stesso.
Un annuncio dagli speaker ricordava ai viaggiatori di non lasciare i bagagli incustoditi in aeroporto; un bambini di colore gli passava davanti, sopra un carrello per i bagagli spinto da un omone alto come un giocatore di basket, magari lo era pure. Il bambino lo fissava, lo sguardo intorpidito dal freddo e dal sonno mentre il padre sorseggiava un caffè lungo: erano americani, lo capiva dall'accento e dalla pronuncia del loro inglese, biascicato e trascinato. Il bambino continuava a fissarlo mentre spariva tra la folla, e il suo volto sarà forse l'ultimo ricordo che porterà di quell'aeroporto.
La sua fila continuava ad essere la più lenta, anzi per l'esattezza era immobile. Sul display compariva l'annuncio di un ritardo, il volo sarebbe partito un'ora più tardi del previsto. Il disappunto dei presenti, un uomo sulla cinquantina si lasciò andare in ripetute bestemmie, di certo procurando il fastidio di alcune suore che silenziose attendevano il loro turno in coda alla fila. Un cagnolino in un gabbiotto mostrò la sua consonanza di spirito con il bestemmiatore agitando la coda e abbaiando al display.
Il caffè che prese nell'attesa sapeva di rancido e di attesa, la carta del bicchiere usa e getta si masticava fra le sue dita consunte e stanche: voleva solo sedersi e smettere di osservare, annullarsi. Il pianto di un neonato lo destò da quei pensieri, una madre di rinchiusa nei suoi tipici abiti indiani lo cullava ripetutamente per riaddormentarlo, bassa, le guance incavate, le dita delle mani lunghe e appuntite, il sorriso stanco quanto gli occhi di chi la osservava.
L'uomo accanto a lui, un manager raccolto nei suoi auricolari e nella sua tenuta da battaglia, leggeva una rivista di finanza, assorto. Numeri, dati, statistiche e opinioni riempivano i suoi occhi, la notte che sopraggiungeva non lo distraeva: era un tutt'uno con la carta di quel giornale. In quei numeri quell'uomo perdeva la sua identità. Lui come tutti era solo un numero, muto, inerte.
Era strano, ma aveva sempre più la sensazione che gli unici esseri viventi in quel luogo fossero i bambini, gli unici che si trovassero li inconsapevolmente, loro malgrado. Era strano pensare che le uniche creature vive fossero quelle che non erano consapevoli di esserlo, forse per un istinto bestiale che viene prima di ogni cultura, di ogni lingua. L'istinto primordiale dei vagiti, delle urla.
In quell'idea gli sembrò di morire.
Poi il display annunciò che il volo era stato cancellato.
l'ho sempre detto che i "non luoghi" ti danno sempre la giusta ispirazione..bello,complimenti.
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