Joseph Heller, Comma 22, la cantina

Un capitolo di Comma 22, uno dei più belli, e i suoi paradossi
Ca­pi­to­lo 36.
LA CAN­TI­NA.


La morte di Na­te­ly fu un colpo mor­ta­le per il cap­pel­la­no. Il cap­pel­la­no Shi­p­man era se­du­to nella sua tenda, leg­gen­do certe sue carte, con gli oc­chia­li sul naso, quan­do suonò il te­le­fo­no e gli fu data la no­ti­zia dal­l'ae­ro­por­to della col­li­sio­ne fra i due aerei. Le bu­del­la gli di­ven­ta­ro­no in un at­ti­mo di ar­gil­la secca. La mano con cui posò la cor­net­ta del te­le­fo­no tre­ma­va. Anche l'al­tra mano co­min­ciò a tre­mar­gli. Il di­sa­stro era trop­po im­men­so per con­si­de­rar­lo con calma. Do­di­ci uo­mi­ni morti... una cosa spa­ven­to­sa, or­ren­da, sem­pli­ce­men­te or­ren­da! Sentì cre­sce­re in sé un sen­ti­men­to di ter­ro­re. Istin­ti­va­men­te pregò che Yos­sa­rian, Na­te­ly, Hun­gry Joe e gli altri suoi amici non si tro­vas­se­ro nella lista delle vit­ti­me, poi si rim­pro­ve­rò pen­ti­to, per­ché pre­ga­re per la loro sal­vez­za equi­va­le­va a pre­ga­re per la morte di altri gio­va­ni, che non co­no­sce­va nem­me­no. Era trop­po tardi per pre­ga­re; ep­pu­re non c'era altro ch'e­gli sa­pes­se fare. Il cuore gli pic­chia­va con un tonfo che sem­bra­va rim­bom­bas­se da qual­che luogo fuori dal suo corpo, ed egli si rese conto che non si sa­reb­be mai più se­du­to nella pol­tro­na di un den­ti­sta, non avreb­be mai più guar­da­to un col­tel­lo di chi­rur­go, mai più as­si­sti­to a un in­ci­den­te au­to­mo­bi­li­sti­co o udito una voce gri­da­re nella notte, senza sen­ti­re di nuovo quel tonfo vio­len­to nel petto, senza pro­va­re lo stes­so ti­mo­re della morte vi­ci­na. Non avreb­be mai più os­ser­va­to una bat­ta­glia a pugni senza te­me­re di per­de­re i sensi e di spac­car­si il cra­nio nel ca­de­re sul sel­cia­to, o sof­fri­re un fa­ta­le at­tac­co di cuore o una emor­ra­gia ce­re­bra­le. Si chie­se se avreb­be mai più visto sua mo­glie o i suoi tre fi­glio­let­ti. Si chie­se se avreb­be mai "do­vu­to" ri­ve­de­re sua mo­glie ora che il ca­pi­ta­no Black aveva ra­di­ca­to nella sua mente forti dubbi sulla fe­del­tà e la forza di ca­rat­te­re delle donne. C'e­ra­no così tanti altri uo­mi­ni, pensò, che po­te­va­no sod­di­sfa­re molto più pie­na­men­te sua mo­glie, dal punto di vista ses­sua­le. Ora, quan­do pen­sa­va alla morte, pen­sa­va sem­pre a sua mo­glie, e quan­do pen­sa­va a sua mo­glie pen­sa­va sem­pre che l'a­vreb­be persa.
Dopo un mi­nu­to o due il cap­pel­la­no si sentì ab­ba­stan­za in forze per al­zar­si e re­car­si, con cupa ri­lut­tan­za, nella tenda vi­ci­na a chia­ma­re il ser­gen­te Whit­comb. Il cap­pel­la­no chiu­se le mani a pugno per evi­ta­re che tre­mas­se­ro, men­tre le te­ne­va ap­pog­gia­te in grem­bo. Strin­se i denti e cercò di non ascol­ta­re i com­men­ti sod­di­sfat­ti ed esul­tan­ti del ser­gen­te Whit­comb sul tra­gi­co in­ci­den­te. Do­di­ci morti si­gni­fi­ca­va­no do­di­ci let­te­re di con­do­glian­ze in più, da spe­di­re con la firma del co­lon­nel­lo Ca­th­cart, tutte in­sie­me, ai pa­ren­ti più pros­si­mi dei de­ce­du­ti. Il ser­gen­te Whit­comb po­te­va spe­ra­re di far usci­re un ar­ti­co­lo sul co­lon­nel­lo Ca­th­cart nella "Sa­tur­day Eve­ning Post" prima di Pa­squa.
Al­l'ae­ro­por­to c'era un pe­san­te si­len­zio, che sof­fo­ca­va ogni mo­vi­men­to, come se un in­can­te­si­mo cru­de­le e in­sen­sa­to si fosse im­pos­ses­sa­to dei soli es­se­ri che avreb­be­ro po­tu­to in­ter­rom­per­lo. Il cap­pel­la­no era in preda a un ti­mo­re re­ve­ren­zia­le. Non aveva mai con­tem­pla­to prima una im­mo­bi­li­tà così gran­de, così spa­ven­to­sa. Quasi due­cen­to uo­mi­ni stan­chi, spa­ru­ti, ab­bat­tu­ti erano af­fol­la­ti al­l'en­tra­ta della sala istru­zio­ni, con in mano il ro­to­lo del pa­ra­ca­du­te, tetri, im­mo­bi­li, con i visi gi­ra­ti vuo­ta­men­te, se­con­do an­go­li di­ver­si di at­to­ni­to stu­po­re. Sem­bra­va non aves­se­ro la vo­lon­tà di al­lon­ta­nar­si, che fos­se­ro in­ca­pa­ci di muo­ver­si. Men­tre si av­vi­ci­na­va, il cap­pel­la­no era acu­ta­men­te con­scio del ru­mo­re che fa­ce­va­no i suoi passi. Con gli occhi cercò ve­lo­ce­men­te, fre­ne­ti­ca­men­te, in mezzo alla massa con­fu­sa delle fi­gu­re pie­ga­te. Fi­nal­men­te scor­se Yos­sa­rian e provò un sen­ti­men­to di gioia im­men­sa, ma poi la bocca gli si aprì len­ta­men­te in una smor­fia di or­ro­re in­sop­por­ta­bi­le quan­do os­ser­vò il viso di Yos­sa­rian, vi­vi­da­men­te, tor­men­to­sa­men­te se­gna­to da una di­spe­ra­zio­ne pro­fon­da e stu­pe­fat­ta. Capì su­bi­to, in­die­treg­gian­do per il do­lo­re e scuo­ten­do il capo con un gesto as­sur­do di pro­te­sta e im­plo­ra­zio­ne, che Na­te­ly era morto. E ogni spe­ran­za di es­ser­si sba­glia­to fu an­nul­la­ta quan­do udì il suono del nome di Na­te­ly che emer­ge­va con ri­pe­tu­ta chia­rez­za al di sopra del bal­bet­tio con­fu­so delle voci, del mor­mo­rio di cui prima non si era per nien­te ac­cor­to. La con­sa­pe­vo­lez­za lo la­sciò pa­ra­liz­za­to per il ter­ro­re. Non riu­scì a re­pri­me­re un sin­ghioz­zo. Na­te­ly era morto. Il san­gue cessò di cir­co­lar­gli nelle gambe, e te­met­te di ca­de­re. Na­te­ly era morto: il ra­gaz­zo era stato uc­ci­so. Un ge­mi­to con­fu­so si formò nella gola del cap­pel­la­no, co­min­cia­ro­no a tre­mar­gli le ma­scel­le. Gli occhi gli si riem­pi­ro­no di la­cri­me, stava pian­gen­do. Co­min­ciò a di­ri­ger­si verso Yos­sa­rian, in punta di piedi, per pian­ge­re al suo fian­co e par­te­ci­pa­re al suo muto do­lo­re. In quel mo­men­to una mano l'af­fer­rò ru­vi­da­men­te at­tor­no a un brac­cio e una voce bru­sca gli do­man­dò:
«Il cap­pel­la­no Shi­p­man?»
Si volse sor­pre­so e si trovò di fron­te un co­lon­nel­lo ro­bu­sto e pu­gna­ce con la testa larga, dei gran baffi e una pelle li­scia e flo­ri­da. Non aveva mai visto quel­l'uo­mo prima di al­lo­ra. «Sì. Cosa c'è?» Le dita che gli strin­ge­va­no il brac­cio gli fa­ce­va­no male, ed egli cercò in­va­no di li­be­rar­se­ne con uno strat­to­ne.
«Venga con noi.»
Il cap­pel­la­no in­die­treg­giò con­fu­so e spa­ven­ta­to. «Dove? Per­ché? E lei chi è, di gra­zia?»
«E' me­glio che ci segua, Padre,» sul­l'al­tro fian­co gli com­par­ve un mag­gio­re magro, dal naso aqui­li­no, che in­to­nò con re­ve­ren­te do­lo­re: «Siamo in­via­ti del go­ver­no. Vo­glia­mo farle delle do­man­de»
«Che spe­cie di do­man­de? Cosa è suc­ces­so?»
«Lei non è il cap­pel­la­no Shi­p­man?» do­man­dò l'o­be­so co­lon­nel­lo. «Sì, è lui,» ri­spo­se il ser­gen­te Whit­comb.
«Vada con loro,» gli gridò il ca­pi­ta­no Black con un sog­ghi­gno osti­le e sprez­zan­te. «Salga sul­l'au­to­mo­bi­le se non vuoi fi­ni­re male.»
Delle mani sta­va­no tra­sci­nan­do via ir­re­si­sti­bil­men­te il cap­pel­la­no. Egli avreb­be vo­lu­to in­vo­ca­re a gran voce l'a­iu­to di Yos­sa­rian, ma que­sti sem­bra­va trop­po lon­ta­no per­ché lo po­tes­se sen­ti­re. Al­cu­ni degli uo­mi­ni ch'e­ra­no lì vi­ci­no già co­min­cia­va­no guar­da­re verso di lui con cre­scen­te cu­rio­si­tà. Il cap­pel­la­no chinò il capo, rosso per la ver­go­gna, e si la­sciò spin­ge­re sul se­di­le di die­tro di una mac­chi­na del co­man­do, se­du­to in mezzo al co­lon­nel­lo gras­so con la fac­cia larga e rosea e il mag­gio­re spa­ru­to, un­tuo­so, ma­lin­co­ni­co. Au­to­ma­ti­ca­men­te of­fer­se un polso a cia­scu­no per un mo­men­to, nel caso vo­les­se­ro met­ter­gli le ma­net­te. Un altro uf­fi­cia­le si era già si­ste­ma­to sul se­di­le da­van­ti. Un alto agen­te della M.P., con un fi­schiet­to e un el­met­to bian­co, si mise al vo­lan­te. Il cap­pel­la­no non osò al­za­re gli occhi fin­ché l'au­to­mo­bi­le chiu­sa non si fu al­lon­ta­na­ta ve­lo­ce­men­te dal­l'ae­ro­por­to, e le ruote co­min­cia­ro­no a fi­schia­re sulla stra­da ri­co­per­ta di ca­tra­me e piena di buche.
«Dove mi state con­du­cen­do?» chie­se con una voce resa som­mes­sa dalla ti­mi­dez­za e dal senso di colpa, gli occhi tut­to­ra ab­bas­sa­ti. Gli passò per il cer­vel­lo l'i­dea che lo ri­te­nes­se­ro col­pe­vo­le del­l'in­ci­den­te aereo e della morte di Na­te­ly. «Cosa ho fatto?»
«Per­ché non tieni la bo­to­la chiu­sa e le do­man­de le lasci fare a noi?» disse il co­lon­nel­lo.
«Non par­lar­gli in quel tono,» disse il mag­gio­re. «Non è ne­ces­sa­rio trat­tar­lo con ir­ri­ve­ren­za.»
«E al­lo­ra digli di te­ne­re la bo­to­la chiu­sa e le do­man­de la­sciar­le fare a noi.»
«Padre, per fa­vo­re tenga la bo­to­la chiu­sa e le do­man­de le lasci fare a noi,» gli rac­co­man­dò il mag­gio­re con molta com­pren­sio­ne. «Sarà me­glio per lei.»
«Non c'è bi­so­gno di chia­mar­mi Padre,» disse il cap­pel­la­no. «Non sono cat­to­li­co.»
«Nep­pu­re io lo sono, Padre,» disse il mag­gio­re. «E' che io sono una per­so­na molto de­vo­ta, e mi piace chia­ma­re 'Pa­dre' tutti gli uo­mi­ni di Dio.»
«Non crede nem­me­no che ci siano degli atei in trin­cea,» scher­zò il co­lon­nel­lo, con una go­mi­ta­ta fa­mi­lia­re nelle co­sto­le del cap­pel­la­no. «Su, cap­pel­la­no, di­glie­lo. Ci sono degli atei in trin­cea?»
«Non lo so, si­gno­re,» ri­spo­se il cap­pel­la­no. «Non sono mai stato in trin­cea.»
L'uf­fi­cia­le se­du­to da­van­ti girò il capo di colpo con un'e­spres­sio­ne pro­vo­ca­to­ria. «Tu non sei mai stato nep­pu­re in cielo, non è vero? Ma lo sai che c'è il Pa­ra­di­so, non è vero?»
«Op­pu­re non lo sai?» disse il co­lon­nel­lo.
«E' una colpa molto grave quel­la che ha com­mes­so, Padre,» disse il mag­gio­re.
«Quale colpa?»
«Non lo sap­pia­mo an­co­ra,» disse il co­lon­nel­lo. «Ma lo sco­pri­re­mo pre­sto. E non c'è dub­bio che sia molto grave.»
L'au­to­mo­bi­le prese una stra­da la­te­ra­le che con­du­ce­va al Quar­tier Ge­ne­ra­le di grup­po, con uno stri­do­re di ruote in curva, di­mi­nuen­do l'an­da­tu­ra solo di poco, poi ol­tre­pas­sò il par­cheg­gio e si fermò sul retro del­l'e­di­fi­cio. I tre uf­fi­cia­li e il cap­pel­la­no sce­se­ro dal­l'au­to­mo­bi­le. In fila in­dia­na, fe­ce­ro scen­de­re il cap­pel­la­no per una rampa don­do­lan­te di sca­li­ni di legno e lo fe­ce­ro en­tra­re in una stan­za umida e tetra dello scan­ti­na­to, con un sof­fit­to di ce­men­to e dei muri di pie­tra nuda. In ogni an­go­lo c'e­ra­no delle ra­gna­te­le. Un enor­me cen­to­pie­di at­tra­ver­sò di corsa la stan­za e andò a ri­fu­giar­si die­tro un tubo del­l'ac­qua. Fe­ce­ro se­de­re il cap­pel­la­no su una sedia dura, dallo schie­na­le ri­gi­do, che stava ac­can­to a un pic­co­lo ta­vo­lo di legno ru­vi­do.
«Prego, ac­co­mo­da­ti, cap­pel­la­no,» gli disse il co­lon­nel­lo con un in­vi­to cor­dia­le, e ac­ce­se una lam­pa­da ac­ce­can­te di­ri­gen­do­ne il rag­gio drit­to negli occhi del cap­pel­la­no. Posò sul ta­vo­lo un paio di pugni di ferro e una sca­to­la di fiam­mi­fe­ri di legno. «Vo­glia­mo che ti senta a tuo agio.»
Il cap­pel­la­no spa­lan­cò gli occhi, in­cre­du­lo. I denti gli bat­te­va­no e gli sem­bra­va che le sue mem­bra si fos­se­ro com­ple­ta­men­te svuo­ta­te di ogni ener­gia. Non aveva più forza. Avreb­be­ro po­tu­to far­gli qual­sia­si cosa, pensò; que­sti uo­mi­ni bru­ta­li avreb­be­ro po­tu­to pic­chiar­lo a morte lì in quel­la can­ti­na, e nes­su­no sa­reb­be in­ter­ve­nu­to a sal­var­lo, nes­su­no forse, a ec­ce­zio­ne del mag­gio­re de­vo­to e com­pren­si­vo dal viso af­fi­la­to, che aper­se un ru­bi­net­to e lo fece sgoc­cio­la­re con un suono mo­no­to­no e forte den­tro il la­van­di­no, e poi tornò verso il ta­vo­lo, su cui posò, ac­can­to ai pugni di ferro, dei pe­san­ti ma­ni­cot­ti di gomma.
«Andrà tutto bene, cap­pel­la­no,» disse il mag­gio­re fa­cen­do­gli co­rag­gio. «Non c'è nulla che lei debba te­me­re se non è col­pe­vo­le. Per­ché ha tanta paura? Non sarà per caso col­pe­vo­le, eh?»
«Certo che è col­pe­vo­le,» disse il co­lon­nel­lo. «Si­cu­ro come esi­ste l'in­fer­no.»
«Col­pe­vo­le di che cosa?» im­plo­rò il cap­pel­la­no, che si sen­ti­va sem­pre più con­fu­so e non sa­pe­va a quale dei tre uo­mi­ni ri­vol­ger­si per im­plo­ra­re pietà. Il terzo uf­fi­cia­le non por­ta­va alcun grado e stava da un lato, in ag­gua­to. «Cosa ho fatto?»
«E' pro­prio quel­lo che vo­glia­mo sa­pe­re,» ri­spo­se il co­lon­nel­lo, e spin­se un notes e una ma­ti­ta at­tra­ver­so il ta­vo­lo fin da­van­ti al cap­pel­la­no. «Scri­vi il tuo nome su lì, per fa­vo­re. Con la tua cal­li­gra­fia.»
«La mia cal­li­gra­fia?»
«Pro­prio così. Su que­sta pa­gi­na, dove pre­fe­ri­sci.» Quan­do il cap­pel­la­no ebbe fi­ni­to, il co­lon­nel­lo prese il notes e lo os­ser­vò, met­ten­do­lo ac­can­to a un fo­glio di carta che estras­se da una car­tel­la. «Visto?» disse al mag­gio­re, che gli si era messo al fian­co e stava guar­dan­do gra­ve­men­te il notes da die­tro le sue spal­le.
«Non è la stes­sa cal­li­gra­fia, non è vero?» az­zar­dò il mag­gio­re.
«Te l'a­ve­vo detto che era stato lui.»
«A far che cosa?» chie­se il cap­pel­la­no.
«Cap­pel­la­no, que­sta è una brut­ta sor­pre­sa per me,» lo rim­pro­ve­rò il mag­gio­re con un'a­ria di pro­fon­do do­lo­re.
«Che cosa?»
«Non posso dirle quan­to io sia de­lu­so.»
«Per che cosa?» in­si­stet­te il cap­pel­la­no an­co­ra più agi­ta­to. «Cosa ho fatto?»
«Ecco,» ri­spo­se il mag­gio­re e, con un'e­spres­sio­ne di de­lu­sio­ne e di di­sgu­sto, fece ca­de­re sul ta­vo­lo il notes su cui il cap­pel­la­no aveva scrit­to il suo nome. «Que­sta non è la sua cal­li­gra­fia.»
Il cap­pel­la­no sbat­té gli occhi più volte per lo sba­lor­di­men­to. «Ma certo che è la mia cal­li­gra­fia.»
«No, che non lo è, cap­pel­la­no. Lei sta men­ten­do di nuovo.»
«Ma se l'ho ap­pe­na scrit­to io stes­so!» gridò il cap­pel­la­no esa­spe­ra­to. «M'a­ve­te visto tutti men­tre l'ho scrit­to.»
«Ap­pun­to,» ri­spo­se il mag­gio­re ama­reg­gia­to. «Ho visto io stes­so men­tre lo scri­ve­va. Non può ne­ga­re di aver­lo scrit­to. Una per­so­na che è di­spo­sta a men­ti­re quan­do si trat­ta della sua cal­li­gra­fia è di­spo­sta a men­ti­re in qual­sia­si cir­co­stan­za.»
«Ma chi ha men­ti­to ri­guar­do alla mia cal­li­gra­fia?» do­man­dò il cap­pel­la­no, di­men­ti­can­do il suo ti­mo­re nel­l'on­da­ta di rab­bia e in­di­gna­zio­ne che salì im­prov­vi­sa­men­te den­tro di lui. «Siete matti o che cosa? Di cosa state par­lan­do voi due?»
«Le ab­bia­mo chie­sto di scri­ve­re il suo nome colla sua cal­li­gra­fia. E lei non l'ha fatto.»
«Ma certo che l'ho fatto. E di chi sa­reb­be quel­la cal­li­gra­fia se non è la mia?»
«Di qual­cun altro.»
«Ma chi?»
«Que­sto lo sta­bi­li­re­mo im­me­dia­ta­men­te,» mi­nac­ciò il co­lon­nel­lo.
«Parli, cap­pel­la­no.»
Il cap­pel­la­no guar­da­va ora l'uno ora l'al­tro uf­fi­cia­le con cre­scen­te dub­bio e ir­ri­ta­zio­ne. «Que­sta cal­li­gra­fia è la mia,» so­sten­ne con pas­sio­ne. «E dove mai sa­reb­be la mia cal­li­gra­fia, se non è que­sta?»
«Qui,» ri­spo­se il co­lon­nel­lo. E con un'a­ria di gran­de su­pe­rio­ri­tà, buttò sul ta­vo­lo una copia fo­to­sta­ti­ca di un pezzo di carta da let­te­ra mi­li­ta­re sulla quale era stato can­cel­la­to tutto ec­cet­to l'i­ni­zio «Cara Maria», e sulla quale l'uf­fi­cia­le ad­det­to alla cen­su­ra aveva scrit­to: «Ti bramo tra­gi­ca­men­te. R. O. Shi­p­man, cap­pel­la­no, eser­ci­to degli Stati Uniti». Il co­lon­nel­lo fece un sor­ri­so di scher­no quan­do vide che il cap­pel­la­no ar­ros­si­va nel leg­ger­la. «Bene, cap­pel­la­no? Sai chi ha scrit­to que­sta let­te­ra?»
Il cap­pel­la­no in­du­giò a lungo prima di ri­spon­de­re; aveva ri­co­no­sciu­to la cal­li­gra­fia di Yos­sa­rian. «No.»
«Ma puoi leg­ge­re, non è vero?» in­si­stet­te il co­lon­nel­lo sar­ca­sti­ca­men­te. «L'au­to­re ha ap­po­sto la pro­pria firma.»
«C'è il mio nome in calce.»
«E al­lo­ra l'hai scrit­ta tu. C.V.D.»
«Ma non l'ho scrit­ta io. E que­sta non è la mia cal­li­gra­fia.»
«Quin­di anche al­lo­ra hai fir­ma­to il tuo nome colla cal­li­gra­fia di qual­cun altro,» ri­bat­té il co­lon­nel­lo con un'al­za­ta di spal­le. «Ecco tutto.»
«Oh, ma que­sto è ri­di­co­lo!» gridò il cap­pel­la­no, per­den­do im­prov­vi­sa­men­te la pa­zien­za. Saltò in piedi con una vam­pa­ta di furia, i pugni chiu­si. «Non ho nes­su­na in­ten­zio­ne di sop­por­ta­re que­sta com­me­dia più a lungo! Avete ca­pi­to? Do­di­ci uo­mi­ni sono ap­pe­na stati uc­ci­si, e io non ho tempo per que­ste stu­pi­de do­man­de. Non avete alcun I di­rit­to di te­ner­mi qui, e non lo sop­por­te­rò più a lungo.»
Senza dire una pa­ro­la, il co­lon­nel­lo diede uno spin­to­ne nel petto al cap­pel­la­no e lo fece ca­de­re di nuovo sulla sedia. D'im­prov­vi­so il cap­pel­la­no si sentì di nuovo de­bo­le, di nuovo molto im­pau­ri­to. Il mag­gio­re prese in mano il lungo ma­ni­cot­to di gomma e co­min­ciò a bat­ter­lo mi­nac­cio­sa­men­te sulla palma aper­ta di una mano. Il co­lon­nel­lo rac­col­se la sca­to­la di fiam­mi­fe­ri, ne prese uno e lo ap­pog­giò con­tro il pez­zet­to di carta ve­tra­ta, in at­te­sa del primo segno di sfida che ve­nis­se dal cap­pel­la­no. Que­sti era pal­li­do e quasi pa­ra­liz­za­to, in­ca­pa­ce di muo­ver­si. Dopo un po' fu in­ca­pa­ce di so­ste­ne­re più a lungo la luce ab­ba­glian­te della lam­pa­di­na e si volse da una parte; il ru­bi­net­to d'ac­qua sgoc­cio­lan­te era sem­pre più forte, e lo ir­ri­ta­va in modo quasi in­tol­le­ra­bi­le. De­si­de­rò che gli di­ces­se­ro al­me­no cosa vo­le­va­no ch'e­gli con­fes­sas­se. Ri­ma­se teso nel­l'at­te­sa men­tre il terzo uf­fi­cia­le, ob­be­den­do a un se­gna­le del co­lon­nel­lo, si av­vi­ci­nò len­ta­men­te e si se­det­te sul ta­vo­lo a pochi cen­ti­me­tri di di­stan­za dal cap­pel­la­no. Il suo viso non aveva espres­sio­ne, i suoi occhi erano fred­di e pe­ne­tran­ti.
«Spe­gni la luce,» disse con un cenno del capo al­l'in­die­tro, con una voce bassa e calma. «Dà molto fa­sti­dio.»
Il cap­pel­la­no gli of­fer­se un leg­ge­ro sor­ri­so di gra­ti­tu­di­ne. «Gra­zie, si­gno­re. E anche il ru­bi­net­to, per fa­vo­re.»
«La­scia stare il ru­bi­net­to,» disse l'uf­fi­cia­le. «Quel­lo non mi dà fa­sti­dio.» Tirò su un poco i pan­ta­lo­ni, per pre­ser­var­ne la piega im­pec­ca­bi­le. «Cap­pel­la­no,» chie­se ca­sual­men­te, «lei a che fede re­li­gio­sa ap­par­tie­ne?»
«Sono ana­bat­ti­sta, si­gno­re.»
«E' una re­li­gio­ne molto so­spet­ta, non è vero?»
«So­spet­ta?» chie­se il cap­pel­la­no con una spe­cie di in­no­cen­te stu­po­re. «Per­ché mai, si­gno­re?»
«Be', io non ne so nien­te degli ana­bat­ti­sti. Que­sto dovrà am­met­ter­lo. E non le sem­bra una cosa molto so­spet­ta?»
«Non so, si­gno­re,» ri­spo­se di­plo­ma­ti­ca­men­te il cap­pel­la­no, bal­bet­tan­do per la con­fu­sio­ne. La man­can­za di gradi sul col­let­to di quel­l'uf­fi­cia­le lo met­te­va a di­sa­gio. Non sa­pe­va se do­ve­va ve­ra­men­te dar­gli del «si­gno­re». Chi era co­stui in fondo? E che au­to­ri­tà aveva per in­ter­ro­gar­lo?
«Cap­pel­la­no, ai miei tempi io ho stu­dia­to la­ti­no. Credo che sia giu­sto che io lo av­ver­ta di ciò prima di porle la mia pros­si­ma do­man­da. La pa­ro­la ana­bat­ti­sta non si­gni­fi­ca sem­pli­ce­men­te che lei non è un bat­ti­sta?»
«Oh, no, si­gno­re. La cosa è molto più com­ples­sa.»
«Lei è un bat­ti­sta?»
«No, si­gno­re.»
«E al­lo­ra non è un bat­ti­sta, non è così?»
«Si­gno­re?»
«Non ca­pi­sco per­ché vuoi di­spu­ta­re con me su que­sto punto. Lo ha già am­mes­so anche lei. Ora, cap­pel­la­no, il dire che lei non è un bat­ti­sta non ci ri­ve­la nulla su quel­lo che lei è ve­ra­men­te, o mi sba­glio? Lei po­treb­be es­se­re una cosa o una per­so­na qual­sia­si.» Si chinò in avan­ti un poco e as­sun­se un'a­ria astu­ta e co­no­sci­tri­ce. «Lei po­treb­be per­fi­no es­se­re,» ag­giun­se, «Wa­shing­ton Ir­ving, non le pare?»
«Wa­shing­ton Ir­ving?» ri­pe­té sor­pre­so il cap­pel­la­no.
«An­dia­mo, Wa­shing­ton,» in­ter­ven­ne molto ir­ri­ta­to il co­lon­nel­lo. «Per­ché non ci spiat­tel­li tutto? Lo sap­pia­mo che sei stato tu a ru­ba­re quel po­mo­do­ro.»
Dopo un mo­men­to di shock, il cap­pel­la­no fece un sor­ri­so ner­vo­so di sol­lie­vo. «Ah, è tutto qui!» escla­mò. «Ora co­min­cio a ca­pi­re. Non ho ru­ba­to quel po­mo­do­ro, si­gno­re. Me lo ha dato il co­lon­nel­lo Ca­th­cart. Po­te­te chie­der­lo a lui, se non mi cre­de­te.»
Dal­l'al­tro lato della stan­za si aper­se una porta e il co­lon­nel­lo Ca­th­cart entrò, come se uscis­se da un ar­ma­dio a muro.
«Salve, co­lon­nel­lo. Co­lon­nel­lo, il cap­pel­la­no qui so­stie­ne che glie­lo ha dato lei il po­mo­do­ro. E' vero?»
«E per­ché mai do­vrei dar­gli un po­mo­do­ro?» ri­spo­se il co­lon­nel­lo Ca­th­cart.
«Gra­zie, co­lon­nel­lo. Que­sto è tutto.»
«Ma s'im­ma­gi­ni, co­lon­nel­lo,» ri­spo­se il co­lon­nel­lo Ca­th­cart, e uscì dalla can­ti­na, chiu­den­do la porta die­tro di sé.
«Bene, cap­pel­la­no. E ora co­s'hai da dirci?»
«Me lo ha dato lui!» disse il cap­pel­la­no, con un sus­sur­ro ch'e­ra al tempo stes­so fiero e fre­men­te. «Me lo ha dato lui!»
«Non vorrà ac­cu­sa­re un uf­fi­cia­le su­pe­rio­re d'es­se­re un bu­giar­do, ora, cap­pel­la­no?»
«Per­ché un uf­fi­cia­le su­pe­rio­re do­vreb­be darle un po­mo­do­ro, cap­pel­la­no?»
«E' per que­sto che hai cer­ca­to di li­be­rar­te­ne e darlo al ser­gen­te Whit­comb, cap­pel­la­no? Per­ché era un po­mo­do­ro ru­ba­to?»
«No, no, no,» pro­te­stò il cap­pel­la­no, chie­den­do­si den­tro di sé di­spe­ra­ta­men­te per­ché non erano ca­pa­ci di ca­pi­re. «L'ho of­fer­to al ser­gen­te Whit­comb per­ché non sa­pe­vo cosa far­me­ne.»
«Per­ché l'hai ru­ba­to al co­lon­nel­lo Ca­th­cart se non sa­pe­vi cosa far­te­ne?»
«Non l'ho ru­ba­to al co­lon­nel­lo Ca­th­cart!»
«E al­lo­ra per­ché sei così col­pe­vo­le, se non l'hai ru­ba­to?»
«Non sono col­pe­vo­le!»
«E al­lo­ra per­ché sa­rem­mo qui a in­ter­ro­gar­ti se non sei col­pe­vo­le?»
«Oh, non so,» ge­met­te il cap­pel­la­no, in­trec­cian­do­si le dita in grem­bo e crol­lan­do il capo chino e an­go­scia­to. «Non so.»
«Crede che noi ab­bia­mo tempo da per­de­re,» disse il mag­gio­re spa­zien­ti­to.
«Cap­pel­la­no,» ri­pre­se l'uf­fi­cia­le senza gradi con un ritmo più tran­quil­lo, estraen­do un fo­glio dat­ti­lo­scrit­to dalla car­tel­la aper­ta. «Qui c'è una di­chia­ra­zio­ne fir­ma­ta del co­lon­nel­lo Ca­th­cart in cui lei è ac­cu­sa­to di aver­gli ru­ba­to un po­mo­do­ro.» Posò il fo­glio a fac­cia in giù sul­l'al­tro lato della car­tel­la e prese un se­con­do fo­glio. «E qui c'è un "af­fi­da­vit" au­ten­ti­ca­to del ser­gen­te Whit­comb in cui egli as­se­ri­sce di aver ca­pi­to che il po­mo­do­ro era ru­ba­to dal modo con cui lei ha cer­ca­to di di­sfar­se­ne, re­ga­lan­do­glie­lo.»
«Giuro sul nome di Dio che non l'ho ru­ba­to, si­gno­re,» pro­te­stò il cap­pel­la­no an­go­scia­to, quasi sul punto di pian­ge­re. «Le do la mia sacra pa­ro­la che non era un po­mo­do­ro ru­ba­to.»
«Cap­pel­la­no, lei crede in Dio?»
«Si­gnor­sì. Certo che ci credo.»
«Que­sto è molto stra­no, cap­pel­la­no,» disse l'uf­fi­cia­le, estraen­do dalla car­tel­la un altro fo­glio gial­lo dat­ti­lo­scrit­to, «per­ché ho qui in mano un'al­tra di­chia­ra­zio­ne del co­lon­nel­lo Ca­th­cart in cui giura che lei ha ri­fiu­ta­to di coo­pe­ra­re con lui in un pro­get­to di far re­ci­ta­re delle pre­ghie­re agli uo­mi­ni prima di ogni mis­sio­ne.»
Dopo uno sguar­do vuoto in avan­ti, il cap­pel­la­no annuì più volte, ri­cor­dan­do­si di cosa si trat­ta­va. «Oh, ma que­sto non è vero, si­gno­re,» spie­gò ap­pas­sio­na­ta­men­te. «E' stato il co­lon­nel­lo Ca­th­cart in per­so­na a ri­nun­cia­re al­l'i­dea, dopo es­ser­si reso conto che i sol­da­ti sem­pli­ci pre­ga­no lo stes­so Dio degli uf­fi­cia­li.»
«Dopo es­ser­si reso conto "di che cosa"?» escla­mò l'uf­fi­cia­le, senza cre­der­ci.
«Che stu­pi­dag­gi­ni!» di­chia­rò il co­lon­nel­lo dal viso rosso, e si al­lon­ta­nò dal cap­pel­la­no, mo­stran­do­si of­fe­so e ir­ri­ta­to.
«Non si aspet­te­rà che noi si creda a cose del ge­ne­re?» gridò il mag­gio­re, con­fer­man­do la pro­pria sfi­du­cia.
L'uf­fi­cia­le senza gradi fece un sog­ghi­gno aci­du­lo. «Cap­pel­la­no, non sta esa­ge­ran­do un poco?» gli do­man­dò, e gli sor­ri­se in modo che era al tempo stes­so com­pren­si­vo e osti­le.
«Ma si­gno­re, que­sta è la ve­ri­tà, si­gno­re! Giuro che è la ve­ri­tà.»
«Non vedo che im­por­tan­za abbia se sia vero o no,» l'uf­fi­cia­le ri­spo­se con non­cu­ran­za e si girò su se stes­so per pren­de­re un altro fo­glio dalla car­tel­la aper­ta e piena di carte. «Cap­pel­la­no, ha detto che lei crede in Dio, quan­do glie­l'ho chie­sto? Non ri­cor­do bene.»
«Si­gnor­sì. Ho detto così. Io credo in Dio.»
«E al­lo­ra è molto stra­no, cap­pel­la­no, per­ché qui c'è un altro "af­fi­da­vit" del co­lon­nel­lo Ca­th­cart in cui si di­chia­ra che lei una volta ha detto che l'a­tei­smo non è con­tro la legge. Si ri­cor­da di aver mai detto una cosa del ge­ne­re a qual­cu­no?»
Il cap­pel­la­no annuì senza esi­ta­zio­ne, sen­ten­do­si su un ter­re­no molto so­li­do. «Si­gnor­sì, io ho fatto quel­la di­chia­ra­zio­ne. L'ho fatta per­ché è vero. L'a­tei­smo non è con­tro la legge.»
«Ma que­sta non è una buona ra­gio­ne per dirlo, cap­pel­la­no, non le pare?» lo rim­pro­ve­rò aspra­men­te l'uf­fi­cia­le, ag­grot­tan­do la fron­te, e prese un altro fo­glio dat­ti­lo­scrit­to e au­ten­ti­ca­to dalla car­tel­la. «E qui c'è un'al­tra di­chia­ra­zio­ne giu­ra­ta del ser­gen­te Whit­comb che dice che lei si è op­po­sto al suo pro­get­to di man­da­re let­te­re di con­do­glian­ze fir­ma­te dal co­lon­nel­lo Ca­th­cart ai pa­ren­ti più pros­si­mi degli uo­mi­ni uc­ci­si o fe­ri­ti in com­bat­ti­men­to. E' vero, que­sto?»
«Si­gnor­sì, mi sono op­po­sto,» ri­spo­se il cap­pel­la­no. «E sono fiero di aver­lo fatto. Quel­le let­te­re non sono né one­ste né sin­ce­re. Il loro solo scopo è di dare pre­sti­gio al co­lon­nel­lo Ca­th­cart.»
«Ma que­sto che dif­fe­ren­za fa?» ri­spo­se l'uf­fi­cia­le. «Esse por­ta­no ugual­men­te sol­lie­vo e con­for­to alle fa­mi­glie che le ri­ce­vo­no, non le pare? Cap­pel­la­no, io non posso pro­prio ca­pi­re il suo modo di pen­sa­re.»
Il cap­pel­la­no ri­ma­se im­ba­raz­za­to e del tutto in­ca­pa­ce di ri­spon­de­re. Chinò il capo, sen­ten­do­si in­ge­nuo e muto.
Il gros­so co­lon­nel­lo dal viso rosso gli si av­vi­ci­nò svel­ta­men­te, preso da un'i­dea im­prov­vi­sa. «Per­ché non gli spac­chia­mo quel­la testa ma­le­det­ta?» sug­ge­rì agli altri con vi­go­ro­so en­tu­sia­smo.
«Sì, po­trem­mo anche spac­car­gli quel­la testa ma­le­det­ta,» il mag­gio­re dal naso aqui­li­no fu d'ac­cor­do. «In fondo è sol­tan­to un ana­bat­ti­sta.»
«No, prima dob­bia­mo de­ci­de­re se è col­pe­vo­le,» av­ver­tì l'uf­fi­cia­le senza gradi con un lan­gui­do gesto per trat­te­ner­li. Si la­sciò sci­vo­la­re leg­ger­men­te dal ta­vo­lo e gli girò in­tor­no, met­ten­do­si di fron­te al cap­pel­la­no con tut­t'e due le mani ap­pog­gia­te sul piano di legno, a palme in giù. La sua espres­sio­ne era cupa e molto se­ve­ra, di­ret­ta e mi­nac­cio­sa. «Cap­pel­la­no,» an­nun­ciò con la ri­gi­di­tà di un ma­gi­stra­to, «l'ac­cu­sia­mo for­mal­men­te di es­se­re Wa­shing­ton Ir­ving e di es­ser­si preso li­ber­tà ca­pric­cio­se e non au­to­riz­za­te nello svol­ge­re l'in­ca­ri­co di cen­su­ra­re le let­te­re degli uf­fi­cia­li e dei sol­da­ti sem­pli­ci. E' col­pe­vo­le o in­no­cen­te?»
«In­no­cen­te, si­gno­re.» Il cap­pel­la­no si passò la lin­gua secca sulle lab­bra sec­che e si piegò in avan­ti, se­den­do sul­l'or­lo della sedia.
«Col­pe­vo­le,» disse il co­lon­nel­lo.
«Col­pe­vo­le,» disse il mag­gio­re.
«E al­lo­ra è col­pe­vo­le,» os­ser­vò l'uf­fi­cia­le senza gradi, e scris­se una pa­ro­la su una pa­gi­na che era nella car­tel­la. «Cap­pel­la­no,» con­ti­nuò, guar­dan­do­lo negli occhi, «l'ac­cu­sia­mo inol­tre di avere com­mes­so reati e in­fra­zio­ni di cui non siamo an­co­ra a co­no­scen­za. Col­pe­vo­le o in­no­cen­te?»
«Non so, si­gno­re. Come posso dirlo, se lei non mi spie­ga di che reati si trat­ta?»
«Come pos­sia­mo spie­gar­glie­lo se non lo sap­pia­mo an­co­ra?»
«Col­pe­vo­le,» de­ci­se il co­lon­nel­lo.
«Certo che è col­pe­vo­le,» fu d'ac­cor­do il mag­gio­re. «Se sono i suoi reati e le sue in­fra­zio­ni, deve es­se­re stato lui a com­met­ter­li.»
«E al­lo­ra col­pe­vo­le,» pro­cla­mò l'uf­fi­cia­le senza gradi, e si ri­ti­rò in un an­go­lo della stan­za. «Ades­so è tutto per lei, co­lon­nel­lo.»
«Gra­zie,» lo en­co­miò il co­lon­nel­lo. «Ha fatto un la­vo­ro ma­gni­fi­co.» Si ri­vol­se al cap­pel­la­no. «Okay, cap­pel­la­no, siamo allo scot­to. Va' a fare un gi­ret­to.»
Il cap­pel­la­no non capì. «Cosa vo­le­te che fac­cia?»
«Via, bat­ti­te­la, t'ho detto!» ruggì il co­lon­nel­lo, agi­tan­do il pol­li­ce die­tro le spal­le, molto ir­ri­ta­to. «Fuori di qui, al dia­vo­lo!»
Il cap­pel­la­no ri­ma­se sba­lor­di­to per quel­le pa­ro­le e quel tono bel­li­co­so, e, con sua sor­pre­sa e per­ples­si­tà, si sentì pro­fon­da­men­te con­tra­ria­to per­ché lo la­scia­va­no an­da­re. «Non avete in­ten­zio­ne di pu­nir­mi?» do­man­dò in un tono di que­ru­la sor­pre­sa.
«Non aver dub­bio, mio caro, che ti pu­ni­re­mo. Ma non ti la­sce­re­mo stare qui in giro men­tre de­ci­dia­mo come e quan­do farlo. Per­ciò vat­te­ne. Gambe in spal­la.»
Il cap­pel­la­no si alzò in­cer­to e fece qual­che passo. «Sono li­be­ro di an­da­re?»
«Per ades­so sì. Ma non cer­ca­re di la­scia­re l'i­so­la. Ab­bia­mo il tuo nu­me­ro, cap­pel­la­no. E ri­cor­da­ti che ti te­nia­mo d'oc­chio ven­ti­quat­tro ore su ven­ti­quat­tro.»
Non era con­ce­pi­bi­le che lo la­scias­se­ro an­da­re. Il cap­pel­la­no si di­res­se guar­din­go verso la porta, aspet­tan­do­si a ogni istan­te che lo ri­chia­mas­se­ro con un or­di­ne pe­ren­to­rio o lo bloc­cas­se­ro con un colpo pe­san­te sulle spal­le o sul capo. Non fe­ce­ro nulla per fer­mar­lo. At­tra­ver­sò i cor­ri­doi fo­schi, umidi, fra­di­ci e riu­scì a tro­va­re la rampa di scale. Era an­si­man­te e bar­col­la­va quan­do uscì fi­nal­men­te al­l'a­ria fre­sca. Non ap­pe­na uscì da quel­l'in­cu­bo, un sen­ti­men­to in­vin­ci­bi­le di di­gni­tà of­fe­sa gli riem­pì l'a­ni­mo. Era in­fu­ria­to, in­fu­ria­to per le atro­ci­tà com­mes­se con­tro di lui, in­fu­ria­to come non lo era mai stato in vita sua. At­tra­ver­sò a passi ra­pi­di l'a­trio spa­zio­so e pieno di echi del­l'e­di­fi­cio del Quar­tier Ge­ne­ra­le di grup­po, in preda a un ri­sen­ti­men­to bru­cian­te e a un forte de­si­de­rio di ven­det­ta. Non avreb­be tol­le­ra­to oltre una cosa del ge­ne­re, disse a se stes­so, non lo avreb­be più tol­le­ra­to. Ecco tutto. Quan­do rag­giun­se l'en­tra­ta, scor­se, e fu fe­li­ce della com­bi­na­zio­ne, il co­lon­nel­lo Korn che sa­li­va trot­te­rel­lan­do, da solo l'am­pia sca­li­na­ta. Ar­ma­to­si di co­rag­gio ed emet­ten­do un lungo so­spi­ro, il cap­pel­la­no si avan­zò in­tre­pi­da­men­te per in­con­trar­lo.
«Co­lon­nel­lo, non ho nes­su­na in­ten­zio­ne di tol­le­rar­lo ul­te­rior­men­te,» di­chia­rò con vee­men­te de­ter­mi­na­zio­ne, e ri­ma­se co­ster­na­to a guar­da­re il co­lon­nel­lo Korn che con­ti­nua­va a sa­li­re le scale senza aver­lo nep­pu­re no­ta­to. «Co­lon­nel­lo Korn!»
La fi­gu­ra ro­ton­da e al­lof­fia­ta del suo uf­fi­cia­le su­pe­rio­re si fermò, si girò in­die­tro e tornò giù trot­te­rel­lan­do. «Cosa c'è, cap­pel­la­no?»
«Co­lon­nel­lo Korn, de­si­de­ro par­lar­le a pro­po­si­to del­l'in­ci­den­te di sta­ma­ne. E' stata una cosa ter­ri­bi­le, ve­ra­men­te ter­ri­bi­le!»
Il co­lon­nel­lo Korn ri­ma­se si­len­zio­so per un mo­men­to, os­ser­van­do il cap­pel­la­no con un breve lampo di ci­ni­co di­ver­ti­men­to. «Sì, cap­pel­la­no, è stato cer­ta­men­te ter­ri­bi­le,» disse fi­nal­men­te. «Non so come pos­sia­mo farne rap­por­to al co­man­do senza farci una brut­ta fi­gu­ra.»
«Non è que­sto che vo­glio dire,» rim­pro­ve­rò il cap­pel­la­no fer­ma­men­te, senza una trac­cia di paura. «Al­cu­ni di quei do­di­ci ra­gaz­zi ave­va­no già fi­ni­to le loro set­tan­ta mis­sio­ni.»
Il co­lon­nel­lo Korn rise. «Sa­reb­be stato meno ter­ri­bi­le se fos­se­ro stati dei ra­gaz­zi ap­pe­na ar­ri­va­ti?» do­man­dò ma­li­zio­sa­men­te.
Una volta an­co­ra il cap­pel­la­no si sentì im­ba­raz­za­to. Una lo­gi­ca im­mo­ra­le sem­bra­va stes­se lì pron­ta per con­fon­der­gli le idee a ogni oc­ca­sio­ne. Quan­do ri­pre­se a par­la­re, era già meno si­cu­ro di sé, e la voce gli tre­ma­va. «Si­gno­re, non è af­fat­to giu­sto co­strin­ge­re gli uo­mi­ni di que­sto grup­po a com­pie­re ot­tan­ta mis­sio­ni di volo quan­do quel­li degli altri grup­pi ven­go­no man­da­ti a casa dopo aver­ne fatte cin­quan­ta o cin­quan­ta­cin­que. «
«Pren­de­re­mo la sua os­ser­va­zio­ne in con­si­de­ra­zio­ne,» disse il co­lon­nel­lo Korn con an­no­ia­to di­sin­te­res­se, e co­min­ciò a sa­li­re di nuovo. «"Adios, Padre".»
«Que­sto cosa si­gni­fi­ca, si­gno­re?» in­si­stet­te il cap­pel­la­no con una voce che si fa­ce­va sem­pre più acuta.
Il co­lon­nel­lo Korn si fermò con un'e­spres­sio­ne di­spia­ciu­ta e tornò giù d'uno sca­li­no. «Si­gni­fi­ca che ci pen­se­re­mo su, "Padre",» ri­spo­se con sar­ca­smo e di­sprez­zo. «Non vorrà che pren­dia­mo delle ini­zia­ti­ve senza pen­sar­ci su, non le pare?»
«No, si­gno­re, credo di no. Ma lei ci ha pen­sa­to su ve­ra­men­te, non è vero?»
«Sì, "Padre", ci ab­bia­mo pen­sa­to. Ma per farla fe­li­ce, ci pen­se­re­mo su an­co­ra un po', e lei sarà la prima per­so­na che in­for­me­re­mo quan­do pren­de­re­mo una de­ci­sio­ne. E ora, "adios".» Il co­lon­nel­lo Korn si girò nuo­va­men­te sui tac­chi e si avviò di corsa per le scale.
«Co­lon­nel­lo Korn!» Il grido del cap­pel­la­no fermò di nuovo il co­lon­nel­lo Korn. Il suo capo si girò len­ta­men­te verso il cap­pel­la­no con un'e­spres­sio­ne di cupa im­pa­zien­za. Le pa­ro­le sgor­ga­ro­no dalla bocca del cap­pel­la­no come un ner­vo­so tor­ren­te. «Si­gno­re, vor­rei che lei mi per­met­tes­se di par­la­re della fac­cen­da con il ge­ne­ra­le Dreed­le. De­si­de­ro pre­sen­ta­re le mie ri­mo­stran­ze al Quar­tier Ge­ne­ra­le della com­pa­gnia.»
Le guan­ce spes­se e scure del co­lon­nel­lo Korn si gon­fia­ro­no ina­spet­ta­ta­men­te, sop­pri­men­do uno sbuf­fo, e tardò un mo­men­to a ri­spon­de­re. «Fac­cia pure, "Padre",» ri­spo­se con al­le­gria ma­li­zio­sa, sfor­zan­do­si di mo­strar­si im­pas­si­bi­le in viso. «Ha il mio per­mes­so di par­la­re col ge­ne­ra­le Dreed­le.»
«Gra­zie, si­gno­re. Credo sia bene che le ri­cor­di che ho qual­che in­fluen­za sul ge­ne­ra­le Dreed­le.»
«Ha fatto bene ad av­ver­tir­mi, "Padre". E credo sia bene che la av­ver­ta a mia volta che non tro­ve­rà il ge­ne­ra­le Dreed­le al Quar­tier Ge­ne­ra­le della com­pa­gnia.» Il co­lon­nel­lo Korn sog­ghi­gnò ma­li­gna­men­te e poi scop­piò a ri­de­re trion­fan­te. «Il ge­ne­ra­le Dreed­le è stato estro­mes­so, "Padre". E il ge­ne­ra­le Pec­kem in­tro­mes­so. Ab­bia­mo un nuovo co­man­dan­te di com­pa­gnia.»
Il cap­pel­la­no era sba­lor­di­to. «Il ge­ne­ra­le Pec­kem!»
«Pro­prio così, cap­pel­la­no. Ha qual­che in­fluen­za su di lui?»
«Per­din­ci, non co­no­sco nem­me­no il ge­ne­ra­le Pec­kem,» pro­te­stò il cap­pel­la­no di­spe­ra­to.
Il co­lon­nel­lo Korn rise di nuovo. «E' pro­prio un pec­ca­to, cap­pel­la­no, per­ché il co­lon­nel­lo Ca­th­cart lo co­no­sce molto bene.» Il co­lon­nel­lo Korn ri­dac­chiò a lungo as­sa­po­ran­do il de­li­zio­so trion­fo, poi si fermò di colpo. «Tra l'al­tro, "Padre",» lo mi­nac­ciò fred­da­men­te, pun­tan­do un dito con­tro il petto del cap­pel­la­no, «sap­pia­mo tutti del truc­co com­bi­na­to da lei e dal dot­tor Stubbs. Lo sap­pia­mo fin trop­po bene che è stato lui a man­dar­la qui a pro­te­sta­re.»
«Il dot­tor Stubbs?» il cap­pel­la­no scos­se il capo in al­li­bi­ta pro­te­sta. «Io non ho visto il dot­tor Stubbs, co­lon­nel­lo. Sono stato por­ta­to qui da tre stra­ni uf­fi­cia­li che m'han­no tra­sci­na­to giù in can­ti­na senza nes­su­na au­to­riz­za­zio­ne e mi hanno in­sul­ta­to.»
Il co­lon­nel­lo puntò di nuovo un dito nel petto del cap­pel­la­no. «Lei sa fin trop­po bene che il dot­tor Stubbs ha messo in giro la voce fra gli uo­mi­ni della squa­dri­glia che non sono te­nu­ti a com­pie­re più di set­tan­ta mis­sio­ni di volo.» Rise aspra­men­te. «Eb­be­ne, "Padre", essi do­vran­no com­pie­re più di set­tan­ta mis­sio­ni di volo, poi­ché stia­mo tra­sfe­ren­do il dot­tor Stubbs nel Pa­ci­fi­co. Così "adios, Padre. Adios".»

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