Perché non è corretto addossare alle vittime la responsabilità degli stupri

 Riflettendo su alcuni recenti casi di cronaca, e su come i media ne stanno discutendo (Giambruno è la controfigura di polemisti come Shapiro) ho deciso di provare a condurre un ragionamento che spieghi il fenomeno della vittimizzazione secondaria.


Sostanzialmente in questi giorni da più parti si è sentito dire che chi rischia di essere vittima di un reato legato alla violenza di genere, parliamo soprattutto degli stupri, dovrebbe adottare comportamenti responsabili: il non detto (neanche troppo taciuto) sarebbe che chi subisce reati legati alla violenza di genere è stato con i suoi comportamente parzialmente responsabile di quanto accaduto, perché, adottando comportamenti non responsabili la vittima si è messa in pericolo. 

Possiamo osservare qui un primo problema, al contempo terminologico e concettuale: secondo questo ragionamento rischio e pericolo sono la stessa cosa. Si fa evidentemente confusione: il pericolo è per definizione totalmente indipendente dalle azioni della vittima, ad esempio pensiamo al crollo improvviso di un ponte mentre lo si attraversa in auto, alla diffusione di una nube tossica, etc.. Insomma, la vittima non può essere colpevole dell'essere in pericolo.

Evidentemente quindi qui secondo il ragionamento condotto sui media non parliamo di "pericoli", ma di condizione di rischio: il rischio è infatti dipendente dalle azioni umane, come ad esempio quando decidiamo di camminare o correre  su un pavimento bagnato opportunamente segnalato o assumiamo farmaci scaduti o non seguendo le prescrizioni. Chi subisse un danno in una condizione di rischio siffatta andrebbe considerato responsabile di essersi messo in questa situazione. 

Osserviamo però che potenzialmente ogni azione umana implica una condizione di rischio: se la mattina non ci alzassimo dal letto non rischieremmo di cadere; se non uscissimo di casa non rischieremmo di essere investiti; se non acquistassimo un'automobile non rischieremmo di vedercela rubare. Possiamo quindi dedurre che non è ragionevole colpevolizzare ogni azione che compiamo, visto che ogni azione implica una certa dose di rischio.

E quindi, in che situazioni si può parlare di responsabilità della vittima nell'essersi messa in condizioni di rischio?
Solo alcune condizioni di rischio possono indurre ad addossare alla vittima la responsabilità di quanto subito, allorché l'effettivo realizzarsi di ciò di cui si paventava il rischio costituisce un danno per il singolo e per la comunità, tanto che risulta più conveniente che il singolo e la comunità non realizzino quelle condizioni. In questi casi infatti osserviamo l'intervento dello Stato o della comunità per impedire le condizioni di rischio; se queste non sono eliminabili quando meno esse vengono opportunamente segnalate, come con la varia segnaletica a cui siamo abituati nelle nostre strade. Si evince quindi che possiamo parlare di responsabilità della vittima a partire da un rapporto di costi/benefici per il singolo e per la comunità che se ne fa carico.

E qui viene il nodo: la comunità si fa carico della violenza di genere e degli stupri?

In realtà osserviamo che nei luoghi di ritrovo, di intrattenimento e socialità non sono vietati o realmente impediti vendita e uso degli alcolici che possono indurre le vittime della violenza alla perdita dei sensi e del controllo della situazione, infatti vendita e uso degli alcolici sono propagandati e incentivati dallo Stato stesso, pèur con formule generiche come "bevi responsabilmente"; ugualmente nei luoghi di ritrovo, di intrattenimento e socialità non sono vietati o realmente impediti vendita e uso degli allucinogeni, per i quali occorrerebbe o una militarizzazione delle nostre strade che la nostra società non accetta, o la loro legalizzazione e la vendita controllata da parte dello Stato, cosa ugualmente non accettata; osserviamo che non esiste in Italia un'adeguata educazione all'affettività e alla sessualità che limiti l'impatto degli stereotipi di genere tramandati da secoli, educazione anzi demandata alla famiglia con tutti i suoi limiti. 

È evidente insomma che nelle supposte condizioni di rischio legate alla violenza di genere non si realizza nessuna delle azioni di contenimento da parte della comunità. Anzi, osserviamo come in questo ragionamento si assuma come normale l'idea che l'uomo sia "cacciatore" e che abbia l'esigenza di sfogare i propri appetiti sessuali, tanto che in molti casi la prima reazione è quella di marchiare la vittima come poco di buono, sostenere che in fondo "alla donna piace" quanto le accade, realizzando insomma un ragionamento circolare: la vittima è tale pperché le piace, e le piace perché è normale che sia vittima.

Secondo questa visione quindi tutto sommato lo stupro è qualcosa di normale nella società, ma basta aver seguito il ragionamento e le confutazioni per accorgersi dell'abominio di questa tesi.

Questo è un ragionamento contraddittorio, che finisce per ritenere normale o fatalisticamente inevitabile che la violenza di genere e gli stupri esistano, addossando alla vittima la responsabilità di qualcosa che si vuole lasciare nell'ambito del privato (l'educazione alla sessualità all'interno della famiglia) o del sommerso. 

In conclusione, quella di cui si sta realmente discutendo è una condizione di pericolo, non di rischio: una condizione in cui la  vittima, anche lì dove abbia adottato comportamenti moralmente diiscutibili, non ha responsabilità rispetto all'agire di chi la aggredisce; quell'agire è infatti fatalisticamente tollerato (se non approvato) e comunque nessuna reale arma di prevenzione viene adottata per impedirlo, nel momento in cui la circolazione di sostanze psicotrope non è realmente contrastata o gestita dallo Stato, il consumo degli alcolici è sponsorizzato dallo Stato stesso e non esiste traccia di educazione all'aaffettività e alla sessualità. Per tutto ciò chi fa comunicazione, informazione, divulgazione su questi argomenti dovrebbe in ogni modo evitare di fare anche solo lontanamente pensare che nella violenza di genere, negli stupri ci possa essere un concorso di responsabilità.


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