Un buon posto in cui fermarsi, Matteo Bussola
Un buon posto in cui fermarsi, di Matteo Bussola, è un libro deludente perché tradisce le premesse da cui nasce.
Il romanzo si pone come la raccolta di più voci, diversi volti della mascolinità, da forme piu pure e dolci alle forme più virili, passando attraverso quelle che alla sensibilità moderna appaiono come forme tossiche dell'essere maschi. I diversi racconti, che attraverso singoli dettagli si intrecciano tra di loro, dovrebbero quindi dare spazio a moltitudini di esperienze umane. Il problema del romanzo è che, volendo trattare una questione sociale e culturale da un punto di vista morale, pur adottando una visione assolutamente condivisibile, finisce per essere didascalico. Le diverse visioni del mondo non compaiono, quasi mai le vediamo agite e coerenti alle azioni dei personaggi; semmai sono i narratori, sempre interni, a dichiararle, ma dato che la narrazione è sempre in prima persona non possiamo non finire per pensare che, di fatto, il punto di vista che analizza il mondo sia sempre lo stesso, anche perché i protagonisti parlano, pensano e si esprimono con la medesima voce. Insomma, i personaggi non li conosciamo perche agiscono, ma li conosciamo perché vengono detti e pensati da decine di narratori che però hanno una voce unica. La polifonia quindi, premessa del romanzo, viene tradita in favore di una sola espressione etica e morale. Alcuni singoli passaggi del racconto sono meglio riusciti di altri, ma è il complesso che finisce per essere deludente.
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