La parola ai giurati, William Friedkin

La parola ai giurati, diretto da William Friedkin, è un remake dell'omonimo film del 1957 diretto da Sidney Lumet.


Il film riprende praticamente alla lettera l'opera originale del 1957, la quale, a sua volta, era il riadattamento di una pièce teatrale del 1954 scritta da Reginald Rose.

Si tratta quindi di un dramma giudiziario che si svolge di fatto in una sola stanza, la stanza in cui una giuria, composta da 12 uomini (da cui il titolo originale dell'opera, 12 angry men) deve stabilire la sentenza su di un presunto caso di omicidio. Se alla prima votazione (11 giurati per la colpevolezza, uno per l'innocenza) appare quasi certa la sorte dell'imputato, un ragazzo latinoamericano accusato di aver ucciso il padre accoltellandolo dopo una lite, a poco a poco le certezze granitiche vengono messe in discussione. 
Gradualmente il giurato innocentista riesce a seminare dubbio tra i colleghi. All'analisi delle prove si evidenzia quindi come il valore e la credibilità di queste fosse in realtà rafforzato o fondato esclusivamente sui bias, sugli stereotipi a cui ciascuno dei giurati era soggetto. La ricostruzione logica dei fatti pone così in dubbio le testimonianze, fino a ribaltare la situazione iniziale, con 11 giurati convinti dell'innocenza dell'imputato e uno per la colpevolezza. Nelle scene finali quindi emerge come anche quest'ultimo giurato sia costretto a prendere atto di voler condannare l'imputato per il proprio rancore nei confronti del figlio anziché per la forza e la ragionevolezza delle prove.

Il dramma è sì un dramma giuridico, ma prima ancora, anzi, forse ancora di più, è un dramma filosofico. Il giurato da cui parte il movimento della vicenda non afferma mai di sapere l'innocenza dell'imputato, semmai ragiona sul suo non saperne la colpevolezza. L'opera propone una visione relativista della realtà: le testimonianze potrebbero e non potrebbero essere vere, l'imputato potrebbe o non potrebbe essere un omicida, ma la giuria, nel momento in cui deve decidere della vita o della morte di un ragazzo, sceglie di non poter condannare qualcuno alla luce dei tanti ragionevoli dubbi emersi. Alla fine della vicenda, tutti i giurati (con la sola potente e xenofoba eccezione di uno) escono dall'aula sapendo di non sapere. Quello che abbiamo di fronte quindi pare quasi un dialogo socratico ambientato nel XX secolo. 
Una visione consigliata, in qualsiasi forma la si possa recuperare.

Commenti

Post popolari in questo blog

La sessualità nell'antichità

Alessandro Baricco, Castelli di rabbia

Saggio breve: D'Annunzio, una vita per la bellezza