Io a quindici anni

È la prima volta che parlo o scrivo di questa cosa, ma chissà perché, oggi sento di doverne parlare.

Io a quindici anni mi tagliavo i polsi. Oggi si direbbe che ero un autolesionista, io all'epoca avrei detto che volevo ammazzarmi ma non ne avevo il coraggio, e così mi tagliavo ma non portavo a conclusione la faccenda.
Questa storia è durata qualche mese, ero in quinta ginnasio (se i ricordi non ingannano, o forse quarta ginnasio). Io non lo so oggi perché all'epoca facessi questa cosa: oggi sono una persona diversa dall'adolescente che ero, e domani sarò diverso dall'uomo di oggi; ma ricordo che stavo male, che mi sentivo solo, che mi sembrava di essere diverso da tutti, e che non sapevo come relazionarmi con gli altri. Con l'altro sesso, poi, non ne parliamo, tanto che a volte mi sarei augurato di essere omosessuale, peccato non lo fossi. Una roba sessista e stupida, ma così era a quei tempi.
Nella mia classe del liceo ci stavo male: non è che i miei compagni facessero qualcosa in particolare per farmi stare male, non ero bullizzato, ma semplicemente io non avevo nulla da dire e spartire con loro: loro sembravano già pronti alla vita, io non sapevo neanche da dove partire per capire qualcosa di me.
Leggevo e giocavo ai videogiochi. Basta. I miei mi dicevano di uscire, e a volte lo facevo pure: un giro per le strade, e nulla, a me degli altri interessava nulla, fondamentalmente perché mi sembrava che agli altri non interessasse nulla di me. Oh, tutte queste cose sono quelle che ricordo di quasi trent'anni fa, o che forse voglio ricordare: non sono uno psicologo e non voglio fare psicanalisi da quattro soldi.

Così ho cominciato a tagliarmi. Succedeva quando i miei uscivano di casa, ma finiva lì, mai il coraggio di andare oltre. 
I miei compagni lo sapevano, a qualcuno avevo fatto vedere i tagli, a qualcuno dicevo che sarebbe stato meglio morire, che bella la morte, cose del genere.
Poi una volta ci fu un'assemblea di classe, e allora successe il patatrac: una compagna sollevò la questione, dicendo che dovevo smettere di tagliarmi perché i miei tagli le facevano "impressione". Io ricordo solo che da quel momento non ho sentito più niente di quella discussione, come un fischio che era più un boato nelle mie orecchie. Violavo una norma sociale, e insomma, dio buono, davo fastidio, dovevo smetterla. Ricordo che fecero entrare la professoressa (o era già lì? Era tutto preparato? Un agguato?) che, diceva, non ne sapeva niente. A questo punto come pubblico ufficiale doveva intervenire. Mi portò fuori, mi parlò. Io non sentivo nulla, ancora quel boato tra le orecchie e una sensazione sempre più pesante del mondo che scivola via sotto i tuoi piedi. Chiamò la mia famiglia.

Tornato a casa accadde quello che doveva accadere: i miei cercarono di parlarmi, mai apertamente, ma cercarono di dire che se avevo bisogno, se stavo male, loro volevano aiutarmi, proposero lo psicologo; non ci andai mai. Poi seguirono settimane, mesi penosissimi: ogni scusa era buona per controllarmi polsi e braccia. Non gliene faccio una colpa: reagirono come poteva reagire una coppia che aveva dato alla luce un figlio negli anni ottanta nell'Italia di provincia. Non vivevo nella New York di Woody Allen, stavo a sette chilometri da Catania.
Se già non avevo voglia di vedere gli altri, ora la vergogna mi faceva sprofondare. E quella sensazione di essere lo scarto dalla norma che non andava via.

Mi ci volle tanta lettura per crescere: leggevo filosofia greca, filosofia moderna e contemporanea. Non è che la filosofia abbia fatto passare i miei traumi, o non è che la filosofia sostituisca lo psicologo da cui sarei dovuto andare e non sono andato. Ha fatto bene a me (forse, neanche ci giurerei), ma chissà agli altri.
In più, tra i miei genitori e le mie letture, ho interiorizzato quella contraddizione che sentivo sulla mia pelle: ero lo scarto della norma (una piccola norma sociale stupida e importante forse per poche persone, ma tant'è) e la norma era importante, le leggi sono dentro e fuori di noi, stoicismo da quattro soldi e Kant frainteso buttati lì, a secchiate. Poi per fortuna c'erano Socrate e Nietzsche che si guardavano male l'uno con l'altro e che però mi dicevano che non avevo certezze su nulla, e che tutto sommato andava bene così. E niente, uno condannato a morte, l'altro morto pazzo. Forse avevano ragione quelli della norma e della normalità.

La mia vita è cominciata finito il liceo, quando all'università ho incontrato sensibilità più vicine alla mia. Lì ho scoperto di non essere uno scarto, di esserci anche io. Poi avevo un carattere di merda comunque, ma quella è un'altra storia.

Il punto è che oggi quando vedo un adolescente nelle mie classi mi chiedo come si senta, se nasconda quello che nascondevo io, se sta come stavo io. Poi arriva lo stoico che è in me, le leggi morali superiori, il dovere, quello che mi fa incazzare se non lavoro bene io e se non lavora bene lui. Ma il quindicenne che è in me ogni tanto si fa sentire, e se lo ricorda quanto si sta di merda da adolescenti, e due sberle gliele tira allo stoico, che male non gli fanno. Penso al casino che succederà a casa mia quando mio figlio diventerà adolescente, povera stella.

Capite che io ho un casino in testa non da poco, e questo è il motivo per cui anche da adulto mica sto bene bene.

Commenti

Post popolari in questo blog

La sessualità nell'antichità

Alessandro Baricco, Castelli di rabbia

Saggio breve: D'Annunzio, una vita per la bellezza