Della scuola di Messina, degli esami, delle vittime e dei carnefici, e dei deficit nella valutazione
Rispetto al caso della scuola di Messina di cui si è parlato in questi giorni, vorrei proporre due osservazioni. La prima che mi ha molto colpito: osservando come il caso è stato coperto sui giornali e negli altri media, mi è parso di poter notare come quella che comunque a tutti gli effetti sarebbe la vittima, cioè la ragazza che in qualche modo è stata penalizzata all'esame di luglio, sia invece passata come la carnefice per avere costretto tutti gli altri, con il suo ricorso, a ripetere l'esame di stato. Tanto per essere chiari, l'esame non sarebbe mai stato ripetuto se non ci fossero state delle irregolarità commesse dalla docente che aveva passato le domande alla classe, e dai ragazzi, che non possono essere immaginati come puri e innocenti e non conniventi con la docente, anche solo per non avere denunciato loro stessi l'irregolarità. A riprova di questa inversione di ruoli i giornali che hanno raccontato la ripetizione dell'esame hanno tenuto a precisare come la ragazza venisse quasi tenuta a distanza e guardata a vista dai compagni, evidentemente indispettiti, e dalla commissione d'esame costretta a ripetere quanto già aveva fatto a luglio. Il fatto che i voti siano poi stati confermati è soltanto l'ultimo tassello di questo fallimento pedagogico, ancor più punitivo dal momento che, guarda un po', anche alla ragazza è stato confermato lo stesso voto di luglio, come a voler significare che l'aiuto della docente rea dell'irregolarità non avesse realmente influito sugli esiti degli esami.
Tutto ciò porta alla seconda considerazione, ovvero la mancanza di formazione di molta classe docente italiana sulla valutazione, concepita non come un momento della didattica ma come un semplice adempimento burocratico o, nella peggiore delle ipotesi, come uno strumento di potere. Un altro caso di cronaca di questi giorni fa luce su questo tema, ovvero la chiusura della sezione del liceo Morgagni a Roma impropriamente detta senza voti. In realtà in quella sezione veniva praticata una valutazione descrittiva come da diffusa letteratura pedagogica, letteratura che ormai da decenni dimostra, dati alla mano, come una valutazione di tipo descrittivo contribuisca meglio alla comprensione dell'errore e alla valorizzazione di ciò che viene fatto bene dagli studenti, a differenza di un semplice voto numerico che ha una funzione meramente classificatoria. Ciò che non è stato raccontato adeguatamente dai giornali è che utilizzare una valutazione descrittiva è molto più difficile e molto più impegnativo per i docenti, cosa che avrebbe spiegato bene perché nelle altre sezioni ci sia stata una rivolta contro la sezione sperimentale con tale valutazione, che stava accrescendo il numero di iscritti. È ipotizzabile che gli altri docenti abbiano avuto paura di doversi trovare ad applicare una metodologia per cui, nella migliore delle ipotesi non si sentivano formati. Tra le altre cose emerge come la sezione con valutazione descrittiva fosse preferita da alunni con bisogni educativi speciali o disturbi dell'apprendimento perché, con buona probabilità, quel tipo di valutazione li aiuta negli apprendimenti, non nel senso che venga regalata la sufficienza, ma perché chiarisce a uno studente in difficoltà in maniera molto più evidente ciò che sta andando bene e ciò che sta andando male nelle sue prestazioni. Leggere, come si è letto su alcuni giornali, che per qualche docente quella sezione stava attirando troppi alunni con bisogno educativi speciali riporta indietro la storia della scuola al periodo delle classi differenziali, quando si formavano classi ghetto per evitare ai cosiddetti normodotati di doversi confrontare con l'altro e il diverso. Pochi quotidiani hanno spiegato con dati, numeri e fatti ciò di cui stiamo parlando, forse solamente Domani con gli articoli di Cristian Raimo.
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