Israele, Gaza, giustizia e utilità
Dopo l'attentato del 7 ottobre ad Israele, attentato che ha lasciato sgomenti a causa della ferocia e della barbarie con cui è stato portato a termine, tutto il mondo a caldo ha immaginato un'immediata rappresaglia da parte dello stato ebraico. Tuttavia, a causa della diplomazia internazionale all'opera per evitare una lunga carneficina, nonché per la necessità di preparare la strategia militare, l'invasione di Gaza rallenta, lasciando il tempo per una riflessione a mente più lucida sull'opportunità e la necessità di un simile atto bellico da parte del governo di Tel Aviv.
Con questo post provo a ragionare sulle ragioni di una rappresaglia israeliana, su quali criteri lo giustifichino e ne mostrino la necessità; se tali criteri reggano, e in che modo. Una premessa è d'obbligo: è molto semplice e comodo discutere delle ragioni israeliane e palestinesi seduti comodamente alla scrivania di uno stato lontano, che non vive i problemi e le tensioni costanti che vivono e subiscono israeliani e palestinesi. La pretesa di razionalità nelle decisioni dai governanti e d'obbligo; non così però per la gente comune, per chi quelle emozioni e quelle paure le vive costantemente e sulla propria pelle, persone dalle quali è lecito aspettarsi reazioni emotive, cariche di rabbia, di odio, di paura.
Data quindi la tesi per cui è giusto e utile che Israele compia la propria rappresaglia dopo l’attentato di giorno 7 ottobre, quali sono gli argomenti che sostengono l'impianto logico di una simile decisione? Sostanzialmente le argomentazioni si possono dividere secondo due criteri, quello di giustizia e quello di utilità.
Secondo il primo criterio, una delle prime argomentazioni che abbiamo visto emergere è quella per cui Israele è una democrazia e le democrazie vanno difese, infatti di fronte all’emergere delle democrature e di stati autoritari gli stati democratici hanno bisogno di risultare coesi contro ogni possibile attacco. Questa argomentazione quindi, non solo prevede il diritto di rappresaglia di Israele, ma anche l'obbligo di solidarietà da parte delle democrazie occidentali. Tuttavia, i recenti sviluppi del regime israeliano pongono profondi dubbi sulla deriva autoritaria di Tel Aviv, infatti, per definire una democrazia non basta votare, occorrono sistemi di contrappesi tra i poteri che il governo israeliano ha tentato di smantellare. Inoltre anche le democrazie possono commettere ingiustizie, a causa di errori di valutazione o di politiche sbagliate. Le loro azioni non possono essere giustificate dal semplice fatto di essere democrazie
Rimanendo nell'ambito criteriale della giustizia, una seconda argomentazione emersa è quella per cui è giusto che Israele faccia giustizia dell’ingiustizia che ha subito. È subito evidente però che i militanti di Hamas potrebbero obiettare che la loro azione terroristica ha a sua volta fatto giustizia delle ingiustizie subite in passato dal popolo palestinese, come i rastrellamenti nella Striscia di Gaza o la colonizzazione della West Bank. D'altro canto gli Israeliani potrebbero obiettare che i rastrellamenti e la colonizzazione nascono dalla condizione di insicurezza costante in cui vive Israele; a loro volta i palestinesi potrebbero obiettare che quella condizione di insicurezza in cui vive lo stato di Israele deriva dalla stessa modalità della nascita unilaterale e violenta dello stato di Israele nel 1948, non da una scelta dei Palestinesi; ma ancora, dalla sponda israeliana si potrebbe ribattere che la nascita violenta di Israele fu causata dalla mancanza di un accordo in sede ONU sulla spartizione della Palestina in due stati; nondimeno i palestinesi potrebbero obiettare che la mancanza d’accordo ebbe origine nell’imposizione della presenza dello stato di Israele in un territorio già abitato, sulla base di una declinazione del nazionalismo occidentale al mondo ebraico, il Sionismo. Come si può intendere, questa argomentazione non fornisce in fin dei conti una giustificazione forte ad una massiccia rappresaglia, dato che entrambe le parti in causa possono, da questo punto di vista, rivendicare ragioni radicate nel tempo (senza neanche andare a scomodare i testi sacri degli uni e degli altri). Tornando alla teoria dei due stati per due popoli, sempre in merito a questa argomentazione, dalla sponda palestinese si potrebbe osservare come questa soluzione eviterebbe il costante conflitto e la costante insicurezza in cui vive Israele; tuttavia, come si nota da parte israeliana, Hamas nega la volontà di coesistere con Israele e propugna il genocidio di ogni ebreo, impedendo un simile compromesso, infatti i militanti di Hamas colpiscono non a seguito di uno specifico atto di Israele, ma in quanto il loro statuto prevede in maniera specifica l’annientamento di ogni israeliano in Palestina. Questa controargomentazione però viene almeno in parte indebolita da un dato di fatto, ovvero la colonizzazione della Cisgiordania, dove Hamas è minoranza e non governa, che dimostra che anche per Israele il problema reale non è Hamas, bensì la presenza di palestinesi in genere.
In maniera forse più significativa si dovrebbe ragionare sul fatto che stiamo discutendo di giustizia in condizioni del tutto straordinarie. Questo dovrebbe fare riflettere sul fatto che in simili condizioni forse il criterio di giustizia non può corrispondere al medesimo criterio applicabile in condizioni ordinarie. Tuttavia, a causa delle modalità con cui è nata, Israele vive normalmente una condizione di straordinarietà, e ogni suo atto viene giustificato da questa condizione, finendo per risultare poco credibile. Del resto poi, chi vive nella striscia di Gaza vive in una condizione di straordinarietà e precarietà incredibilmente superiore alla condizione quotidiana di Israele, per cui, anche per gli atti di guerra e di terrorismo di Hamas si potrebbe rivendicare la stessa straordinaria giustezza.
Spostandoci sempre di più da criteri astratti ad una politica rivolta al concreto, si potrebbe ipotizzare che sia giusto che Israele risponda ad una violazione della propria sovranità territoriale. Infatti l’incursione partita da Gaza ha violato un confine definito da Israele, configurandosi come un vero e proprio atto terroristico e di guerra a cui Israele dovrebbe rispondere per la sicurezza nazionale; tuttavia la condizione giuridica della striscia di Gaza configura dei problemi anche di ordine giuridico: il confine della striscia di Gaza è un confine definito unilateralmente da Israele, con l’abbandono del territorio nel 2005, lasciato alla gestione autonoma di una comunità che non è stato per la stessa volontà di Israele; le condizioni di quel territorio sono definite unilateralmente da Israele, che definisce ingressi e uscite dalla striscia di Gaza; la vita stessa a Gaza si svolge nelle modalità definite dalle sovvenzioni, dai fondi e dai vettovagliamenti che Israele fornisce agli abitanti della striscia; se ne può dedurre che, se esiste una sovranità palestinese, questa viene costantemente violata a Gaza e anche in Cisgiordania, lì dove nella West Bank lo stato ebraico favorisce l’invasione coatta dei coloni israeliani, proteggendone l’azione con l’esercito.
Viste le ragioni elencate, risulta difficile giustificare l'attuale azione israeliana a Gaza secondo il criterio di giustizia (sempre data la premessa esposta nell'introduzione su quanto sia comodo discutere di giustizia da lontano).
Rimane il criterio dell'utilità.
Secondo questo criterio è utile che Hamas venga annientata, perché annientare Hamas vorrebbe dire eliminare la principale fonte di pericolo di Israele. Tuttavia annientare Hamas a costo di gravi perdite fra i civili palestinesi accrescerebbe probabilmente il consenso per ogni forma di resistenza armata palestinese ad Israele, anziché ridurre il pericolo che lo stato ebraico corre quotidianamente (a meno che non si pensi ad un genocidio palestinese o ad una nuova e più violenta Nakba). Inoltre annientare Hamas colpendo i civili palestinesi alienerebbe ulteriormente il consenso all’esistenza dello stato di Israele nel mondo arabo, alimentando pericoli esterni potenzialmente più gravi di quelli già in essere. Per entrambe le obiezioni esiste un problema: potrebbe in tutti e due i casi realizzarsi un errore logico, la fallacia del piano inclinato: data una condizione, non scegliere la soluzione o la conseguenza più naturale in nome di una conseguenza lontana e solo ipotizzabile, ovvero, data l'esistenza di Hamas, non scegliere di eliminare Hamas che già esiste e che è un problema dimostrabile e misurabile, in nome di una paura, quella dell'intervento di altri paesi arabi o della nascita di un movimento islamista ancor più feroce di Hamas, sì ipotizzabile ma non dimostrabile o quantificabile.
Stando al criterio di utilità però si potrebbe porre una condizione paradossale per Israele: annientato Hamas, il governo israeliano non avrebbe più scuse per non procedere nell’applicare il principio dei due stati per due popoli; se non lo facesse, ad esempio non sgomberando i coloni della West Bank, dimostrerebbe che la condizione di pericolo vissuta da Israele è in realtà indotta e voluta da Israele stesso per legittimare i propri comportamenti. Secondo questa prospettiva la presenza di Hamas fra i palestinesi legittima le politiche autoritarie e discriminatorie di Israele. Certo, si potrebbe obiettare che questa sia dietrologia e che l’accusare Israele di comportamenti discriminatori e provocatori nasconda una forma di antisemitismo strisciante e che le politiche di Israele siano in assoluto giustificate dal comportamento di Hamas. Però anche l’accusare chiunque critichi Israele di antisemitismo è una forma di attacco ad personam che serve per non entrare nel merito delle critiche mosse ai governi israeliani, del resto, giustificando le azioni di Israele con la presenza di Hamas si finisce per tornare a cercare la giustificazione degli atti degli uni e degli altri nel criterio della giustizia: a tal riguardo entrambe le parti possono portare buone ragioni a sostegno della propria posizione, risultando quindi questo criterio non dirimente.
In conclusione: Israele dovrebbe intervenire (o continuare e con più forza a intervenire) nella striscia di Gaza? Trovare una giustificazione nel criterio di giustizia per un simile atto è molto più complicato di quanto possa apparire in prima istanza, anzi, dalla disamina fatta si scopre che tutte e due la parti in causa possono accampare tante e tali ragioni da non permettere che questo criterio sia dirimente. Israele dovrebbe e potrebbe intervenire militarmente a Gaza perché le è utile, ma solo se poi lo stesso stato fosse disponibile a porre realmente in essere la nascita di un confinante e autonomo stato palestinese. Altrimenti, potrebbe incorrere in rischi ancora maggiori rispetto a quello presente, sebbene questi siano solo ipotizzabili (anche in base alla storia del Medio Oriente negli ultimi settant'anni). Se invece l'invasione della striscia di Gaza e una nuova Nakba non portassero alla nascita di una Palestina autonoma, ciò dimostrerebbe come l'esistenza di Hamas sia stata negli ultimi anni funzionale ad una politica repressiva e autoritaria, sempre più manifesta da parte del governo israeliano.
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