Una lettera inviata a Il Post su un articolo di Claudio Giunta, che parla di leggi, ma parla male di istruzione
Buonasera,
parto subito con una captatio benevolentiae: apprezzo tantissimo Il Post, a cui sono abbonato, i vostri articoli e i vostri podcast.
Questa introduzione per dire che per una volta non sono del tutto d'accordo con voi. L'ho detto. Mi riferisco all'articolo di Claudio Giunta intitolato "Le oscure leggi sull’istruzione". Sia chiaro, trovo letteralmente perfetta la rappresentazione della babele di norme che si sono accavallate rendendo contorto il percorso di formazione degli insegnanti. Trovo tuttavia sbrigativo un passaggio, che cito:
A mio parere (e a parere di tanti altri) non è una buona legge, tra l’altro perché asseconda una deriva ormai più che decennale, una deriva che – nonostante le buone intenzioni e le dichiarazioni in contrario – scredita le discipline curricolari e accredita, sopravvalutandone l’importanza, le discipline psico-pedagogiche: come qualcuno ha detto, si finisce per moltiplicare le ore di ‘teoria del nuoto’, e si entra pochissimo in acqua, mentre la strada da percorrere sarebbe quella opposta.
Ecco, questo passaggio è un tantino banale, tra l'altro figlio di una visione della scuola tutto sommato miope, la visione di chi la scuola la guarda da fuori ma è convinto di guardarla da dentro, ovvero molti docenti universitari. Perché miope? Perché spesso nel mondo universitario si è convinti che conoscere qualcosa equivalga a saperla insegnare, e del resto, a guardare i profili delle docenze accademiche, si scopre che è proprio lì che si è investito meno sulla didattica. È anche evidente il perché: tendenzialmente uno studente che si è iscritto alla facoltà di lettere è motivato a studiare quelle discipline, io che insegno in quella facoltà non devo lavorare sul profilo motivazionale, forse neanche sul metodo di studi, non avrebbe scelto quel percorso se già non bazzicasse le mie discipline. Ecco che all'università l'idea che l'insegnamento richieda un sapere tecnico, che non è il sapere disciplinare, ma il sapere come veicolare quei contenuti, appare un fatto secondario.
Il problema è che questo sapere è apparso secondario praticamente per tutta la storia della scuola italiana, e non lo era; fate un giro in un istituto professionale e poi vediamo quanto serva o non serva un sapere psico-pedagogico, anche per insegnare lettere o storia; il paradosso è che, da decenni, i risultati migliori la nostra suola li ottiene lì dove questa padronanza della didattica, nelle scuole primarie (le vecchie elementari), è più diffusa; contemporaneamente i risultati scendevano e scendono, fino ad arrivare all'evidente fallimento della quota enorme di dispersione scolastica, lì dove sempre di più sopravvive l'idea che non occorra la pedagogia, non occorra la didattica, basti la conoscenza della disciplina. Infatti Giunta propone i concorsi subito dopo la laurea: chi a scuola ci sta davvero sa che i docenti piombati a scuola senza una formazione didattica vanno a braccio, mendicano dai colleghi più esperti nozioni tecniche, finiscono alla fine per formarsi a loro spese in autonomia dopo essere entrati nel sistema, non prima di aver fatto danni per la loro incompetenza didattica (oppure proseguono per tutta la vita a far danni convinti che l'esperienza sia l'unica formazione possibile, incapaci di riconoscere che, magari, per trent'anni hanno fatto e faranno disastri che nessuno mai sanzionerà).
L'articolo risulta in questo passaggio banale anche per un altro motivo, ovvero perché crea una falsa dicotomia: o formo bene sulle discipline, o formo bene sul sapere psico-pedagogico. E chi lo dice? Lo ha prescritto il medico? La realtà è che il sistema scolastico è estremamente conservatore, vede come lesa maestà ogni minimo slittamento che metta in discussione quanto fatto non dico negli anni recenti, ma addirittura dalla riforma Gentile: si vedano il libro di Maastrocola e Ricolfi o le continue fesserie sparate da Canfora, Crepet o Galimberti sulle competenze per averne un'idea.
Da questo punto di vista le norme vigenti, tra mille resistenze, stanno cercando di spostare l'attenzione dell'insegnamento (e di conseguenza della formazione dei docenti) dalla mera trasmissione di contenuti all'acquisizione di competenze. La critica tipica dell'ala più conservatrice del sistema istruzione è che quello di competenza sia un concetto vuoto, astratto, che discredita i saperi, come dice Giunta. Questo è di per sé un falso: in soldoni possedere una competenza vuol dire sapere adoperare le conoscenze trasmesse dalle discipline in maniera concreta, benché simulata, perché la scuola è sempre e comunque un ambiente simulato e protetto. Le conoscenze disciplinari non sono per niente abolite, anzi, ma non sono più il fine: il fine è lo studente. È chiaro che questo richiede un ripensamento della scuola: la lezione frontale (quella cara al mondo accademico, in maniera comprensibile, lì è ancora lo strumento più adatto per le ragioni espresse prima) non può essere adatta, almeno non può essere l'unica, per permettere il raggiungimento di competenze. Ugualmente non possono bastare i soli voti, ovvero dei numeretti che in maniera più o meno arbitraria catalogano una prestazione senza fornire un feedback su cosa realmente è andato bene o male in quella prova. Per paradosso, lo hanno capito gli studenti, che lo stanno chiedendo a gran voce, ma non lo capiscono gli adulti che parlano di scuola fuori dalla scuola. Tutte cose che fanno orrore e paura nella scuola conservatrice che abbiamo in sorte di avere. Ma sono anche cose che non si conoscono solo da qualche decennio: proprio la ricerca accademica dimostra da ormai un secolo, almeno da Dewey in poi, quanto la scuola funzioni meglio se fa queste cose.
Era Rousseau che diceva che
«Per insegnare il latino a Giovannino non basta conoscere il latino, bisogna soprattutto conoscere Giovannino»
e mica lo diceva nel 2022.
Dopo questo papello, che spero verrà perdonato, porgo i miei saluti e ringraziamenti
Sebastiano Cuffari
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