Parlare allegorico, parlare simbolico: Dante, Leopardi, Ungaretti e Montale



Nel percorso ininterrotto dalle sue origini ad oggi, la poesia italiana si è, tra le altre cose, sviluppata in un uso quasi contrapposto tra due forme metaforiche del linguaggio, l'uso del simbolo e l'uso dell'allegoria. Il parlare allegorico e il parlare simbolico si realizzano come due visioni antitetiche del linguaggio: l'allegoria è nella sua realizzazione un parlare di universali a partire dal particolare, il simbolismo invece un parlare di particolari, spesso nascosti e di difficile comprensione se non per chi ne possieda la chiave di lettura; ancora di più, potremmo dire che il parlare allegorico è un parlare di noi a partire dal sé, intendendo con noi una comunità oggettivamente conoscibile di individui che condividono idee, sentimenti, fino alla stessa esistenza in quanto esseri umani; chi parla in chiave allegoria parla dal proprio vissuto per dichiarare la condizione dell'intera umanità; invece il parlare simbolico è un palare di sé, magari a partire da esperienze che possono anche essere condivise, ma che vengono sempre interpretate a partire poi dalla soggettività del singolo individuo o al massimo di una singola comunità caratterizzata da esperienze e senstire in comune; chi parla in chiave simbolica discute a volte a partire da referenti apparentemente condivisi, ma in realtà analizza se stesso, la propria esperienza, la scandaglia, fino a pretendere di giungere ad una rivelazione accessibile solamente al proprio io poetico o al massimo a pochi iniziati che ne condividano l'essenza o lo status. Le differenze nell'uso di questi due dispositivi letterari possono essere analizzate in quattro autori di spicco della nostra letteratura: Dante Alighieri, Giacomo Leopardi, Giuseppe Ungaretti ed Eugenio Montale.

Nella sua opera "La Divina Commedia", Dante utilizza sia il simbolo che l'allegoria per descrivere l'inferno, il purgatorio e il paradiso. Il suo parlare simbolico è evidente nelle figure come la selva oscura, simbolo delle tenebre in cui sente avvolto il suo animo, o il monte del purgatorio, che rappresenta la purificazione spirituale a cui Dante aspira. D'altra parte, l'allegoria è utilizzata per rappresentare personaggi storici o mitologici, come Ulisse o Beatrice, che sono contemporaneamente referenti oggettivi, dati quindi come realmente vissuti, e incarnazione di idee più ampie o valori morali condivisi dall'intera umanità a cui Dante fa riferimento; Dante infatti, anche quando ricorre a simboli che oggi a noi possono apparire fantastici, dà per scontata la loro oggettività, in un mondo, quello dell'Italia medievale, che non può non definirsi cristiano.

Leopardi, iniziatore della poesia moderna italiana, utilizza il simbolo per esprimere il suo pessimismo nei confronti dell'esistenza umana. Ad esempio, L'Infinito esprime una rilevazione, quasi un'epifania, che il poeta vive nell'inevitabile confronto tra l'infinito della natura e la finitezza dell'essere umano. Nella poesia, Leopardi utilizza l'immagine del panorama naturale, in particolare della campagna, delimitata da sensazioni visive, la siepe che impedisce la vista, e uditive, il frusciare delle foglie al vento, per evocare il concetto di infinito. Descrive un momento in cui si trova su una collina e immagina l'orizzonte senza limiti; questa suggestione gli procura una sensazione di piacere e di apertura verso l'immensità del mondo. Qui oggetti come la siepe, sensazioni come il fruscio delle foglie, sono simmbolo di una propria esperienza personale di finitezza, che apre al confronto  tra l'infinito della natura e la finitezza dell'essere umano. Mentre la natura si estende all'infinito, l'uomo è intrappolato nei limiti del suo essere. Questo contrasto crea una profonda consapevolezza della condizione umana e del desiderio di superare le proprie limitazioni; di fronte a questo confronto l'io poetico che sceglie di perdersi in questo mare come un naufrago che si abbandoni alle onde, simboleggia la perpetua ricerca umana di significato e di comprensione del mondo, che è destinata a rimanere irraggiungibile e per questo, agli occhi del poeta, fonte di piacere. Tuttavia, qui, Leopardi, nel parlare di sé parla anche di noi come uomini, perché, come spiega nello Zibaldone, l'impossibilità di raggiungere il piacere non riguarda il singolo  individuo, il poeta, ma è esperienza collettiva, dell'uomo in quanto tale, racchiuso nella sua finitezza. Il parlare di Leopardi, pur racchiuso nella piccola esperienza personale che si distende come simbolo, finisce per essere un parlare allegorico.

La poesia di Giuseppe Ungaretti sviluppatasi principalmente durante la Prima Guerra Mondiale è caratterizzata da un uso estremamente simbolico del linguaggio, tanto da poter dire che il poeta porta alle estreme conseguenze la poetica del Simbolismo, precedentemente rappresentata in Italia sotto altre forme da autori come Pascoli e D'Annunnzio. Le sue composizioni brevi e concise utilizzano parole e immagini evocative per trasmettere l'orrore della guerra e l'angoscia del poeta di fronte all'esperienza diretta e soggettiva del fronte. Ungaretti crea un simbolismo potente e immediato che lascia poco spazio all'allegoria. I suoi versi densi e frammentati catturano l'essenza delle esperienze umane in modo diretto ed essenziale. Nella poesia Mattina vediamo rappresentata un'esperienza epifanica, estremamente concentrata nella ricerca del significato primigeneo della parola; l'esperienza epifanica del poeta ha un termine di paragone in quella raccontata da Leopardi ne L'infinito, ma è interpretabile, ancora di più di quanto avveniva nella poesia di Leopardi, solo avendo a mente il dove e il quando della poesia: il fronte, la Prima guerra mondiale, la continua e costante esperienza di morte e devastazione a cui il poeta assiste. Quindi la scoperta dell'immensità da parte del poeta è legata al contesto della sua esperienza in maniera imprescindibile: la sensazione di una rinascita legata al sorgere del sole, l'illuminazione di una scoperta, la consapevolezza dell'estrema finitezza delle cose umane di fronte all'immensità, è qui consolatoria non per una universale teoria del piacere, come per Leopardi, ma perché l'esperienza di dolore e sofferenza da cui l'epifania parte è tutta interiore e soggettiva del poeta buttato in trincea come carne da macello.

Dal canto suo Eugenio Montale tende a prediligere l'uso dell'allegoria, specie nella forma del correlativo oggettivo: questo vuol dire che agli occhi di Montale i referenti che costituiscono gli elementi delle comparazioni metaforiche che adopera per descrivere la condizione dell'uomo sono dati come oggettivi, ancorché ne possa risultare difficile la comprensione. In Meriggiare pallido e assorto torniamo ad incontrare una poesia degli oggetti, in cui il paesaggio bruciato dal sole e la muraglia irta dei cocci di bottiglia sono allegoria di una condizione che è del poeta ma non solo del poeta, bensì dell'intero genere umano: non è solo la difficile condizione dell'intellettuale che si trova fuori posto nell'Italia che esce dalla Prima guerra mondiale e che si avvia a divenire fascista; è la condizione dell'uomo in quanto tale che, non solo ha scoperto la sua limitatezza, la muraglia, ma apprende sempre più l'insensatezza del vivere. Che il punto di riferimento di Montale sia Leopardi è reso evidente dal continuo richiamo proprio a L'Infinito: abbiamo già detto della muraglia, allegoria del male di viviere dovuta all'impossibilità di trovare un senso, varcare il limitare, e che ricorda la siepe leopardiana, ma si può evidenziare l'uso dei verbi ai modi indefiniti, gerundio e, a punto, infinito.
In conclusione possiamo affermare che L'infinito di Leopardi è quindi contemporaneamente fonte d'ispirazione per Ungaretti e per Montale: il primo ne coglie l'aspetto simbolico, epifanico, dell'esperienza individuale; il secondo ne afferma l'aspetto allegorico, oggettivo, in chiave negativa, nell'affermazione della limitatezza umana e dell'impossibilità conseguente di trovare una soluzione al male di vivere moderno.


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