Epica e parodia: proemi a confronto da Omero ad Ariosto


Mettere a paragone i  proemi di quattro grandi pomei epici può dirci tanto dell'evoluzione del genere, ma anche della temperie culturale che conduce alla stesura di quelle opere. Volendo tracciare un parallelo tra Omero, Virgilio e Ariosto, emergeranno differenze, similarità, echi, riprese e rovesciamenti che diranno tanto degli uomini e delle epoche.

Partendo dall'Iliade, leggiamo: 

Cantami, o Diva, del Pelíde Achille

L’ira funesta che infiniti addusse

Lutti agli Achei, molte anzi tempo all’Orco

Generose travolse alme d’eroi,

E di cani e d’augelli orrido pasto

Lor salme abbandonò (così di Giove

L’alto consiglio s’adempía), da quando

Primamente disgiunse aspra contesa

Il re de’ prodi Atride e il divo Achille.

Il proemio dell'Iliade nella celeberrima traduzione del Monti permette di osservare quello che a partire dal testo omerico diverrà il canone del proemio epico: l'invocazione alla musa ispiratrice e la rievocazione dei fatti salienti dell'opera (o, in questo caso, di parte di essi). Il proemio ha quindi la funzione di presentare protagonista e nucleo della trama, stabilire la linea guida che l'ascoltatore/lettore viene invitato a seguire nel prosieguo dell'opera, il filo conduttore, l'ira di Achille, motore di tutte le vicende. Achille ci appare dal proemio come eroe monodimensionale: da lui dipendono le sorti della guerra e degli Achei, dalla sua ira l'infinita strage a cui i compagni sono soggetti.

Proseguendo con l'Odissea, si possono osservare similarità e piccole variazioni.

Musa, quell’uom di moltiforme ingegno

Dimmi, che molto errò, poich’ebbe a terra

Gittate d’Iliòn le sacre torri;

Che città vide molte, e delle genti

L’indol conobbe; che sovr’esso il mare

Molti dentro del cor sofferse affanni,

Mentre a guardar la cara vita intende,

E i suoi compagni a ricondur: ma indarno

Ricondur desiava i suoi compagni,

Che delle colpe lor tutti periro.

Stolti! che osaro vïolare i sacri

Al Sole Iperïon candidi buoi

Con empio dente, ed irritaro il Nume,

Che del ritorno il dì lor non addusse.

Deh parte almen di sì ammirande cose

Narra anco a noi, di Giove figlia, e Diva.

Risulta immediatamente osservabile quanto di simile, già canonico, compaia nel proemio: enunciazione del protagonista della vicenda, sunto delle sue vicende principali, a partire dall'episodio più doloroso, quello che conduce alla morte di tutti i compagni del protagonista. In questo caso dal proemio due appaiono i fili conduttori della vicenda: la conoscenza pratica di Odisseo, una sorta di astuta curiosità, e la sofferenza nel periglioso viaggio per il mare, sofferenza che toccherà il protagonista e chi gli sta intorno. Osserviamo come Odisseo appaia dal proemio eroe più sfaccettato di Achille: egli viaggia, e conosce, non può impedirsi di desiderare la conoscenza, ma al contempo soffre, perché il suo viaggio è anche la sua condanna.

Continuando con l'Eneide virgiliana, i cambiamenti appaiono più marcati.

 L’armi canto e ’l valor del grand’eroe

Che pria da Troia, per destino, ai liti

D’Italia e di Lavinio errando venne;

E quanto errò, quanto sofferse, in quanti

E di terra e di mar perigli incorse,

Come il traea l’insuperabil forza

Del cielo, e di Giunon l’ira tenace;

E con che dura e sanguinosa guerra

Fondò la sua cittade, e gli suoi Dei

Ripose in Lazio: onde cotanto crebbe

Il nome de’ Latini, il regno d’Alba,

E le mura e l’imperio alto di Roma. 

Musa, tu che di ciò sai le cagioni,

Tu le mi detta. Qual dolor, qual’onta

Fece la Dea ch’è pur donna e regina

Degli altri Dei, sì nequitosa ed empia

Contra un sì pio? Qual suo nume l’espose

Per tanti casi a tanti affanni? Ahi tanto

Possono ancor là su l’ire e gli sdegni? 

Nel proemio dell'Eneide, qui nella traduzione di Annibal Caro, Virgilio, circa sei secoli dopo Omero o chi per lui, varia lievemente sulla tradizione. In primis, qui l'autore si pone al centro della narrazione: è lui che canta. Canta le armi e l'uomo, Enea che erra, soffre e guerreggia, tutto per volontà di una divinità, Giunone, che nel suo odio per il troiano si fa empia contro un pio. Solo in un secondo momento Virgilio dice che quanto scrive gli viene dettato dalla musa, qui poco più che comparsa, stilema della tradizione. Di Enea sappiamo relativamente poco: il vero motore della vicenda sembra qui Giunone, di cui semmai il protagonista ci appare vittima.

Continuando, infine, con Aristo, emergono le variazioni.  

Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,

le cortesie, l’audaci imprese io canto,

che furo al tempo che passaro i Mori

d’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto,

seguendo l’ire e i giovenil furori

d’Agramante lor re, che si diè vanto

di vendicar la morte di Troiano

sopra re Carlo imperator romano.


2

Dirò d’Orlando in un medesmo tratto

cosa non detta in prosa mai né in rima:

che per amor venne in furore e matto,

d’uom che sí saggio era stimato prima;

se da colei che tal quasi m’ha fatto,

che ’l poco ingegno ad or ad or mi lima,

me ne sará però tanto concesso,

che mi basti a finir quanto ho promesso.

Sono passati quindici secoli, e il poeta nato a Reggio Emilia si prova in un genere che ha ormai all'attivo due millenni di storia. Il poeta vive in un secolo in cui l'Italia sta attraversando sconvoglimenti radicali; un secolo che ha ereditato dall'Umanesimo il gusto per la riscoperta forma classica, ma che inizia a concepire il dubbio che sarà cifra della modernità. Ecco quindi che già dai primi versi i fili conduttori della vicenda divengono molteplici, intrecciati tra di loro in maniera fitta, quasi contorta, attraverso quello che è il più celebre chiasmo della nostra letteratura.  C'è un eco virgiliana nel primo verso, ma se Virgilio aveva detto di cantare le armi - ovvero gli eserciti -  e l'uomo che li guida, qui Ariosto, nel primo dei numerosi rovesciamenti del genere presenti nel poema, ci dice che canterà le donne, i cavalieri - messi in seconda posizione - gli eserciti e gli amori: il campo semantico delle "opere femminili" e quello delle gesta maschili si intrecciano, proseguendo ancora nel verso successivo. Non compare il protagonista della vicenda; in effetti,  a partire dai primi versi non sappiamo se ne esista o no uno. Solo nella seconda ottava compare Orlando, ma di lui scopriamo il tratto meno eroico, la sua follia. Soprattutto, viene meno l'invocazione alla musa; compare qui, sì, una donna, ma non più in funzione positiva - non è colei che detta la vicenda al senno del poeta - semmai in funzione parodica - è colei che il senno va limando, che priva il poeta dell'intelletto che servirà a cantare la vicenda. Già Ariosto ci ha detto tutto della sua opera: corale, multiforme, epica e rovesciamento del genere, fatta di eroi che di eroico hanno poco e comunque meno di quanto vorrebbero; tanto gli eroi dell'epica classica sono monodimensionali, tanto il loro unico limite è la hybris, tanto quelli di Ariosto sono già in partenza umanissimi e vinti dalle vicende del mondo. Un genere di personaggio che di lì a qualche decennio sfocerà nell'eroe del dubbio, Amleto, o nella sardonica follia del Don Chisciotte.

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