Epica e parodia: Orlando e Aiace

Quando nel 1516 Ludovico Ariosto conclude la prima edizione dell'Orlando furioso, la crisi che caratterizzerà Italia ed Europa tra Cinquecento e Seicento è agli inizi. In Italia è già avvenuta la discesa dell'invasore francese; la scoperta delle Americhe sta iniziando a spostare il baricentro economico verso le coste oceaniche; di lì a breve a Wittenberg compariranno le 95 tesi di Lutero.

In questo contesto, Ariosto riprende una tradizione, quella epico-cavalleresca, tornata alla luce in Italia nel secolo precedente. L'epica cavalleresca tentava di tenere assieme la tradizione cortese e lla riscoperta dell'epica classica; questo amalgama si inverava nell'ideale umanistico dell'uomo misura di tutte le cose perché immagine e somiglianza di Dio, rappresentato dagli eroi protagonisti dei canti. Orlando in primis.

Quando però Ariosto mette mano al genere è ormai difficile credere ciecamente a questo ideale: troppi eventi hanno messo in discussione l'idea che intelletto e azione possano regolamentare ordinatamente il mondo: gli anni di pace dopo gli acccordi di  Lodi parevano aver regalato una costruzione razionale ll'Italia, mentre si scopriva ora la debolezza delle signorie della penisola; la scoperta di un nuovo continente avveniva per errore, e metteva in luce che non tutto è contenuto nelle sacre scritture.

Contestando l'ideale stesso dell'eroe classico, Ariosto finisce per riprendere il genere dell'epica cavalleresca, trasformandolo. La struttura dell'opera non appare più lineare, si divide in tre filoni costellati da mille rivoli intrecciati; l'intrecciarsi delle vicende, il loro rovesciamento, ci viene anticipato già nelle prime ottave, con il celebre chiasmo dei primi due versi e con l'allontanamento dell'invocazione alla musa ispiratrice, posposta alla seconda ottava e, nuovamente, rovesciata nella richiesta alla donna amata di lasciare all'autore il sennno necessario per proseguire nell'opera; soprattutto, gli eroi si scoprono uomini comuni in balia degli eventi esterni e di passioni tutte interne, dei loro limiti in quanto esseri umani. Insomma, Ariosto finisce per fare spesso la parodia dell'epica, nel senso etimologico del termine: cammina accanto all'epica, nei riusa i topoi, ma per dire altro, talvolta l'opposto.

Un esempio concreto è il riuso del topos della follia dell'eroe. Ariosto riprender l'immagine di Orlando innamorato da Boiardo, ma lo porta agli estremi. Gà nell'epica classica però incontriamo il tema della follia dell'eroe: si pensi per esempio all'Ercole furente e, più ancora, alla follia di  Aiace.

Proprio il confronto con Aiace può risultare utile a capire ciò Ariosto realizza. Cos'è infatti la follia? Essa è uno stato di alterità, il rovesciamento della realtà, l'incrocio tra reale e immaginario, lo scarto dalla norma, l'irrazionalità che svela l'inganno della ragione. Dirà Erasmo da Rotterdam che la follia mette in luce la contraddizione della saggezza, perché solo il folle sfida e oltrepassa i limiti che i saggi conoscono senza averne fatto esperienza: insomma, solo il folle è saggio.

Date queste premesse, si può confrontare la follia dei due personaggi. Se per Orlando essa è causata dall'amore, ovvero da un sentimento che nasce e cresce nell'animo del personaggio. È vero che quando Astolfo si impegnerà nella ricerca del senno dell'eroe, Giovanni Evangelista dirà che la follia di Orlando sia stata voluta da Dio per punirlo del suo eccesso di amore, ma questo intervento in fin dei conti riprende l'idea che la causa ultima della follia di Orlando è Orlando stesso e il suo amore smisurato.  La follia di Aiace è voluta dalla divinità. Aiace, a contesa con Odisseo per le armi del defunto Achille e quindi per la preminenza fra gli eroi greci, viene punito e umiliato da Atena, punito per non aver voluto il suo soccorso in battaglia, umiliato e distrutto come eroe per il puro gaudio della divinità, mostrandoci il concorrente di Aiace, Odisseo, atterrito per la violenza e profonda cattiveria del dio.

Nel momento della sua follia Orlando uccide e distrugge ciò che gli capita a tiro, uomini e bestie, non distinguendo le une dalle altre; nel momento della follia Aiace uccide greggi e armenti convinto che siano gli eroi greci su cui vuole vendetta.

Qui però emerge la differenza fra i due eroi che sottende una diversa concezione da parte di Ariosto: quando Orlando recupera il senno grazie all'interventto dii Astolfo, ritorna al suo ruolo di eroe, il suo onore non è compromesso, ne giunge invece la consapevolezza che l'eroe non è altro che un uomo come gli altri, di certo non infallibile, spesso vittima di agenti esterni e di passioni interne. 



Quando Aiace rinsavisce, invece, ha immediatamente chiaro che il suo onore è perduto, perché esso deriva dall'essere stato padrone delle proprie azioni, della propria forza smisurata; nel momento in cui Aiace finisce vittima dello strapotere di Atena, il suo status stesso di eroe è venuto meno. La scelta di Aiace è consequenziale: l'unico modo per recuperare lo status di eroe è riaffermare, contro la divinità, il poossesso delle proprie scelte. Per questo Aiace conficca la spada sul suolo e vi si lancia sopra suicidandosi, come ci raccconta Sofocle nella sua tragedia.

Quindi, se Aiace è, anche nell'esito tragico, eroe classico che riafferma il pieno possesso di sé, Orlando è al contrario eroe della crisi, che nel momento di massima espressione della propria potenza di fa quasi figura tragicomica, solo per scoprire infine di non essere altro che pedina nelle mani di forze per lui incontrollabili.




Bibliografia

Brillante, C. (2013). La morte di Aiace in Sofocle e nei poemi del ciclo epico. Quaderni Urbinati Di Cultura Classica, 103(1), 33–51. https://www.jstor.org/stable/44740659?read-now=1#page_scan_tab_contents

Floris, G. (2020). Parodia del mito nel Furioso. Cahiers d’études Romanes, 40, 13–31. https://doi.org/10.4000/etudesromanes.10288

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