Una riflessione su "La notte della scuola" di Roberto Maragliano




Leggendo l'articolo La notte della scuola, pubblicato su Doppiozero, mi  sono venute in mente alcune riflessioni, frutto anche della condivisione e della discussione con alcuni colleghi.

Mi sembra che Maragliano parta da alcuni punti fondamentali: la scuola post covid e immersa nella guerra è costretta a prendere atto di alcune considerazioni che, a dire la verità, appartengono alla riflessione filosofica e culturale già da almeno un cinquantennio. È  da notare che questa consapevolezza, parallelamente, secondo Maragliano dovrebbe sempre di più appartenere anche all'opinione pubblica. Maragliano cita ad uopo le considerazioni di Esposito su EditorialeDomani: il filosofo sostiene che, con lo scoppio della guerra, siamo entrati in una nuova fase per l'Occidente (e del resto è stato facile per tutti osservare in questi mesi come le previsioni di Fukuyama sulla cosiddetta fine della storia siano miseramente cadute); facendo la parafrasi di quanto sostenuto da Esposito, ed aggiungendo delle considerazioni personali, potremmo dire che sono avvenuti diversi avvicendamenti nella percezione del fluire dei fatti e dell'azione dell'uomo: dall'ottimistica fine della storia di Fukuyama eravamo già entrati in un'età caratterizzata da una permanente percezione della crisi (se volessimo dare dei numeri, forse potremmo datare questa percezione a partire dal 2001): crisi intesa come continua messa in discussione dell'ordine e conseguente reazione, in un rapporto dialettico costante che dal superamento della crisi genera una nuova crisi, a cui segue una nuova reazione, etc.. Da un meccanismo del genere, per quanto ondivago, si conferma tutto sommato però una percezione lineare del divenire, quella che già apparteneva alla teorizzazione di Fukuyama, fatta ora di rallentamenti e accelerazioni attraverso però una linea del tempo che rimane retta, tesa comunque ad un potenzialmente infinito progresso. Da una forma di neopositivismo liberista fondato su tecnologia e mercato ad un neoidelismo hegeliano, ancora però fondato sull'idea che mercato e tecnologia possano fornire gli strumenti per superare le crisi.  Tuttavia per Esposito oggi saremmo entrati in una nuova fase, che alla crisi sostituisce la percezione diffusa della catastrofe, ovvero di una situazione di messa in discussione dello status quo che, in linea di massima, non può che portare ad un esito infausto. È vero, come dice Esposito, che anche la parola catastrofe ha, etimologicamente, un significato non esclusivamente negativo: catastrofe in greco può significare il totale rovesciamento della situazione di partenza, ovvero l'espressione di un bisogno di radicale messa in discussione dello status quo. Catastrofe quindi non solo come epilogo tragico, ma come fase germinale per un nuovo inizio. 

Cosa c'entra tutto ciò con la scuola? Per Maragliano, e anche per me, c'entra. Quello che sta accadendo ha o dovrebbe avere una ripercussione sull'istruzione, nel metodo, ma anche nel merito: infatti per larga parte il sistema scolastico è rimasto ancorato ad una visione dell'apprendimento e delle discipline ottocentenschi o primo novecenteschi. Cosa vuol dire questo? Due cose, fondamentalmente: l'insegnante come colui che sa, l'apprendimento come pratica trasmissiva di infusione del sapere.

Cerchiamo di essere obiettivi: cambiamenti ce ne sono stati, soprattutto per quanto riguarda la seconda parte dell'asserzione precedente. Già da decenni la pedagogia cerca di mettere in discussione l'esculisività del modello trasmissivo nell'istruzione, proponendo pratiche esperenziali (si pensi alle scuole montessoriane) e laboratoriali, coinvolgendo le migliori conoscenze provenienti dalle neuroscienze per una conoscenza sempre più approfondita degli stili di apprendimento, delle pratiche e metodologie che possano facilitare l'acquisizione del sapere del discente.

Dove però si è rimasti incredibilmente indietro è sulla prima considerazione, quella sull'insegnante e sul suo status. L'insegnante è colui che sa, che conosce la propria disciplina, spesso assurge addirittura a figura di tuttologo. Basta sapere per insegnare, quante volte è stata espressa questa considerazione dagli insegnanti stessi dalla classe dirigente che ruota attorno e parla  di scuola? Ne conseguono rivendicazioni sullo status sociale, ormai decaduto, salariali, e di postura in aula. Potremmo dire che per molti colleghi il rifiuto delle pratiche laboratoriali in aula dipende da questa visione del proprio essere insegnante: io so, e gli alunni devono semplicemente assorbire il mio sapere, ascoltarmi, imitarmi, non c'è bisongo di altro.

In pratica, la seconda parte della asserzione di cui sopra dipende dalla prima.

Il problema è che l'età della catastrofe rimette in discussione questo statuto dell'insegnante. Dico rimette, perché che qualcuno sapesse, l'insegnante nello specifico, era una verità che già la cultura della seconda metà del Ventesimo secolo aveva messo in discussione. Secondo Maragliano il digitale ha costretto (sarebbe meglio dire, vorremmo che avesse costretto) gli insegnanti a mettere in discussione il paradigma che la conoscenza sia immutabile e acquisibile una volta per tutte. La Didattica a Distanza e l'obbligo ad adoperare strumenti digitali e, soprattutto, la rete internet hanno costretto gli insegnanti a svelare l'arcanum, ovvero che la conoscenza, in qualsiasi ambito o disciplina, è parziale, temporanea, convenzionale, sociale e sempre disponibile ad essere messa in discussione. L'insegnante quindi è colui che sa di non sapere. Dopo tutto questo giro di due millenni e mezzo, alla fine, torniamo a Socrate. Per Maragliano, come dicevo, questa scoperta sarebbe il frutto dell'introduzione del digitale nella scuola; per come la vedo io, il digitale ha fatto riscoprire qualcosa che il postmoderno come movimento culturale aveva già evidenziato: la conoscenza come costruzione labirintica, il sapere come rete senza un centro o un baricentro, la negazione della possibilità stessa di una verità che non sia frutto di convenzione e di interpretazione, l'impossibilità di conoscere i fatti in sé, ma la loro conoscenza solo come sistema di relazioni.

Mi pare quindi che Maragliano attribuisca alla tecnologia un merito che è, forse, più strutturato: la tecnologia, la rete internet (che infatti nasce nell'ambito delle teorie e viene immaginata a partire dagli spunti letterari del postmodernismo e del genere cyberpunk in particolare) hanno reso all'opinione pubblica quanto detto e scrittto dagli anni '60 dello scorso secolo: cose che già avevano dato propri frutti nella scuola (si pensi al movimento sessantottino), ma che l'ottimismo della "fine della storia" e del trionfo del liberalismo sembravano aver fatto dimenticare, salvo poi rimergere, come un movimento carsico a causa dell'improvvisa percezione della catastrofe.

Oggi come in passato sono osservabili resistenze, inviti al realismo, tentativi di ritorno all'ordine. Ma, come dice Esposito, la catastrofe richiede un rovesciamento del tavolo, se non vogliamo che prevalga la prima e più diffusa accezione del termine, quella dell'esito tragico.

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