Un ragionamento sul linguaggio inclusivo, i tabù e le retrotopie

la Scevà

In questi giorni ho assegnato ai miei alunni lo svolgimento di un Debate in merito ad una delle istanze di cui più sentono parlare sui media di questi tempi, ovvero la necessità di introdurre nel linguaggio forme inclusive. Inaspettatamente, questo tema è stato quello su cui, da che insegno, ho trovato maggiore resistenza tra gli studenti. Mi è venuto quindi spontaneo cercare di riflettere sulle ragioni che stanno dietro queste resistenze, ragioni spesso indotte dal contesto familiare e sociale, dai media stessi, persino dalla scuola. Quello che segue chiaramente non sarà un discorso specialistico sulla questione: per questo tipo di letture esiste già un'amplissima bibiolgrafia. Semmai si tratta del piccolo contributo dalla prospettiva di un insegnante a confronto con i suoi studenti.

Resistenze

Le prime e immediate obiezioni che vengono poste a chi propone l'uso di un linguaggio inclusivo riguardano il fatto che questa sia in realtà una scelta censorea e snobbistica. In merito alla prima obiezione, si fa notare che per paradosso, la scelta di favorire un linguaggio inclusivo potrebbe portare alla limitazione della libertà d'espressione, per cui proprio le categorie e i gruppi sociali oppressi e discriminati si battono e si sono battuti nel tempo e nello spazio; del resto infatti, chi potrebbe decidere cosa sia inclusivo e cosa non lo sia? Tuttavia occorre subito sfatare un inganno linguistico: già oggi non esiste mai una massima libertà d'espressione, dato che a nessuno è concesso ingiuriare o discriminare attraverso le sue scelte linguistiche (o meglio, si può decidere di farlo, consapevoli però che successivamente si potrebbe dover dare conto della responsabilità di ciò che si è affermato); data questa limitazione già esistente alla libertà d'espressione, la vera questione diventa un'altra: chi debba scegliere cosa io sento discriminante o ingiurioso nei miei confronti? Del resto, la proposta di fornire forme linguisticamente inclusive non impone il loro uso, ma garantisce una maggiore libertà di scelta, perciò semmai appare censorea la decisione di non consentire questa maggiore libertà; infatti quando sono entrate nell'uso forme linguistiche "politicamente corrette", come "disabile" o "diversamente abile", queste non hanno impedito a chi volesse di utilizzare la precedente forma "handicappato", di fatti la parola "handicappato", così come "mongoloide" o altre simili, sono censurate quando vengono adoperate con chiaro intento diffamatorio o discriminatorio e, per quanto possano apparire sgradevoli, nessuna norma vieta di adoperarle in altri casi in cui contesto, interlocutore e mezzo lo consentano.
Riguardo all'accusa di snobbismo, questa viene normalmente confermata dal fatto che la proposta non verrebbe da un'esigenza avvertita dalla maggioranza del popolo, ma da una sparuta élite; tuttavia, come sappiamo, il criterio di maggioranza è solo un criterio di comodo, non un sistema decisionale che di per sé implichi l'aver ragione su qualcosa; anzi, nel caso specifico, proprio il fatto che "la maggioranza" composita non avverta l'esigenza del cambiamento può dimostrare che la questione riguardi l'atteggiamento nei confronti di minoranze che sono e che si vuole rimangano nell'ombra.
Ugualmente, chi parla di proposta snobbistica osserva che anche alcune associazioni che si battono contro le discriminazioni si dichiarano contrarie alle scelte linguisticamente inclusive; verrebbe da chiedersi se queste associazioni non temano di perdere alcune posizioni di rendita proprio a causa dell'estensione dei diritti, in una paradossale guerra dei penultimi contro gli ultimi; nondimeno per queste associazioni i problemi da risolvere riguardano le discriminazioni "de facto"; non quelle linguistiche, che starebbero su un secondo piano, o non esisterebbero. Però, a ben guardare, quando  le questioni da risolvere sono problemi complessi come quelli in esame risulta molto facile dire che "prima viene altro", un modo comodo per evitare di cominciare a risolvere i problemi stessi.

Obiezioni di merito

Su ben altro piano stanno le obiezioni di tipo linguistico: per autorevoli linguisti, compresa l'Accademia della Crusca, l'uso di un linguaggio inclusivo non è sempre compatibile con il nostro sistema linguistico; in particolare si fa riferimento alle proposte di adoperare segni come la "ə" (scevà), lo "*" (asterisco) o la "u" in sostituzione di alcune desinenze. Nello specifico, l'asterisco risulterebbe esclusivamente un segno scritto, non risolverebbe il problema del parlato e lascerebbe invariata la questione; d'altro canto fornirebbe comunque uno strumento linguistico di riconoscimento della pluralità di generi o meglio di riconoscimento di un genere neutro non binario, oggi assente nella lingua italiana scritta. Scevà, per alcuni di difficile pronuncia, comunque non apparterrebbe al sistema linguistico italiano; ma il fatto che il parlante non sappia di pronunciare scevà, non implica che questo suono già non appartenga a molte parlate regionali del sistema linguistico (napoletano, piemontese, etc); del resto la gran parte dei parlanti italiani non sa di pronunciare è aperta o é chiusa, ò aperta oppure ó chiusa, eppure lo fa. Anche per la "u" l'uso della desinenza non apparterrebbe al sistema linguistico italiano e risulterebbe astruso per i parlanti, e tuttavia la "u" desinenza in realtà già esiste in diverse parlate regionali del sistema, sebbene con altra funzione. In realtà la critica, come per scevà, pare presupporre che non possa avvenire l'interscambio di suoni e desinenze tra italiano standard e italiani regionali, ma l'italiano standard in realtà nasce proprio dal continuo interscambio nel tempo e nello spazio con le parlate regionali, in particolare quella milanese e quella romana, perciò questa pare più una obiezione conservatrice e immobilistica.
In ultimo la critica linguistica si sofferma sul fatto che occorrerebbe ripensare la morfologia di moltissimi nomi, verbi, pronomi e aggettivi della lingua italiana. Questa obiezione tuttavia non tiene in conto del fatto che naturalmente le lingue sviluppino variazioni diafasiche, diacroniche e diatopiche che sono, sempre, interscambiabili tra di loro, nel senso che non esiste una scelta migliore di per sé, ma sono cause esterne, come la frequenza d'uso e l'importanza del territorio di provenienza in quel preciso momento, l'autorevolezza di chi adopera quella forma, la sua esposizione mediatica a contare; perciò queste forme linguistiche sono interscambiali secondo la scelta e volontà dei parlanti e l'accettazione all'interno del contesto in cui il parlante si muove; in sostanza, introdurre le variazioni non vorrebbe dire scardinare il sistema, ma fornire la libertà di scelta al parlante in base al contesto, al luogo e all'interlocutore.

Tra uguaglianza ed equità

Stando a come la vedo io, favorire l'ingresso o l'uso di forme linguisticamente inclusive risponderebbe ad un'esigenza basilare del vivere collettivo: garantire a tutti un equo trattamento. Basta studiare la storia dell'uomo per sapere quanto sia importante il potere di dare un nome alle cose, di dare un nome alle persone. Dietro un nome, dietro una forma linguistica si staglia il potere di definire la realtà. Erano i maghi, i druidi, i bardi, gli aedi e i rapsodi, erano i poeti e i cantori, erano e sono i legislatori a definire la realtà nominandola; erano i sovrani a definire i loro sudditi conferendo o rifiutando loro titoli; è il sacerdote a stabilire il destino del fedele definendolo o no assolto dai suoi peccati; è il giudice a decidere dell'imputato nominandolo colpevole o innocente; tanta parte dell'opera di Pirandello verte sulla necessità e il desiderio di uscire dalle definizioni altrui appropriandosi della propria identità e del proprio nome; infine, ma non per importanza, il motivo per cui gli internati dei campi di concentramento venivano privati della propria identità era proprio la volontà di annullarne spirito e persona. Dietro la possibilità o no di dare un nome alle cose si nasconde quindi la definizione di rapporti di forza: si pensi a come la sparizione di alcune di forme linguistiche di cortesia, come il "voi" o, meno, il "lei" sottenda un rapporto via via più paritario fra le generazioni. Perciò oggi alcune categorie o gruppi sociali avvertono l'esigenza di essere definiti da termini o forme linguistiche scelte da loro, non imposte da altri. Questo non vuol dire richiedere la censura del linguaggio altrui, ma significa risolvere lo scarto tra uguaglianza ed equità; infatti non può esserci reale uguaglianza finché un gruppo dominante ha il potere e il diritto di scegliere come definire se stesso e al contempo scegliere la definizione degli altri gruppi: questo potere di definizione infatti regola, assieme ad altri fattori, il nostro vivere sociale, le possibilità che ci vengono fornite nella vita, i nostri stessi diritti.

Tra retrotopie e tabù

Da un altro punto di vista, favorire l'ingresso o l'uso di forme linguisticamente inclusive risponderebbe ad un'altra esigenza: favorire una diversa percezione della realtà. Basta fare un esempio banale che attiene al mondo dell'insegnamento: il cambiamento nella percezione degli studenti da parte degli insegnanti portato dall'ingresso nel linguaggio specifico di termini come DSA, BES, dislessia, disturbi dell'apprendimento, etc.. Infatti le neuroscienze sempre più chiaramente ci dimostrano come il nostro cervello conosca il mondo in maniera spaziale, quasi costruendo delle mappe delle connessioni tra le nozioni, e linguistica, traducendo in parole i concetti, per cui favorire l'ingresso e l'uso di forme linguisticamente inclusive permetterebbe la definizione di nuove percezioni della realtà.  Non per niente gli artefici della critica al linguaggio inclusivo sono spesso artefici di retrotopie, cultori del "si stava meglio quando si stava peggio", continuamente prodighi di lamentazioni sul genere "o tempora, o mores": per tornare all'esempio del mondo della scuola, è ancora diffusissimo, il rifiuto dei termini inerenti l'inclusione fra coloro i quali, di fronte ad un alunno con disturbi dell'apprendimento, rimpiangono il tempo in cui, semplicemente, lo potevano definire e pensare un cretino.
Altre volte la critica all'uso di forme inclusive del linguaggio nasconde la paura di dare un nome a ciò che spesso il perbenismo ritiene un tabù, qualcosa di innominabile o di acquisito nella cultura collettiva; le polemiche nascondono la volontà di non toccare quei tabù, di lasciare nell'oblio del non detto certi argomenti, perché si pensa che di essi si debba occupare lo spazio privato, quello della famiglia, non quello pubblico. E così in Italia la polemica sulle forme linguistiche inclusive scoppia, guarda caso, in merito all'identità di genere; nel mondo anglosassone la polemica riguarda le forme inclusive in merito al genere e alla razza.

In conclusione

In conclusione non mi sembra di poter dire che le obiezioni rivolte a chi appoggia l'uso di un linguaggio inclusivo siano solide. D'altro canto, mi pare che dietro le polemiche sul "cosa si può dire" e le accuse di censura linguistica si celi ben altra censura, quella sul cosa sia "lecito fare", se non di nascosto, nell'innominabile privato. 
Dall'altro lato si è visto come la richiesta di forme linguistiche inclusive, bollata come snob, sia criticata proprio da chi dello snobismo conservatore si fa portavoce, pur approfittando della confusione tra criterio di maggioranza e criterio di giustizia. Le stesse obiezioni linguistiche non appaiono poi così solide come il prestigio dell'accademia da cui provengono potrebbe farle apparire. 
Dall'altro lato invece, resta inconfutata la necessità, avvertita da minoranze non rappresentate, di accedere ad una reale uguaglianza dei diritti; uguaglianza impraticabile se non passa prima da forme di equita; la prima, quella in oggetto, evidente: la possibilità di scegliere come definirsi ed essere definiti, fornendo alla lingua nuove scelte, non imponendole per legge o per norma grammaticale, ma garantendo al cittadino e al parlante la facoltà di decidere, responsabilmente, come nominare la realtà che lo circonda.





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