E ci tocca di nuovo parlare di politcamente corretto

Il problema del monologo di Pio e Amedeo, due comici a me del tutto ignoti, discorso tenuto in prima serata su Canale5, e il politicamente corretto: ecco, dicevo, il problema non sta nel fatto che Pio e Amedeo rischiassero o no la censura per quel loro discorso, o la meritassero. No, non la rischiavano la censura né la meritavano; il problema di quel discorso sta nel fatto che i due comici hanno proprio torto nel merito. Tanto per capirci, in quel monologo gli autori si fondano sul detto "sono responsabile di quello che dico, non di quello che capisci tu", che, da un punto di vista comuncativo, è una cretinata, perché chiunque si occupa di comunicazione sa e gioca sul fatto che fra mittente e destinatario non è mai possibile la piena comunanza tra significante e significato, e proprio per questo occorre essere particolarmente precisi nell'uso della lingua, a meno che, ovviamente, non si voglia essere volutamente ambigui.

Il discorso di Pio e Amedeo è quindi proprio tecnicamente sbagliato. Spiego ulteriormente il perché. Loro sostengono che si dovrebbe guardare l'intenzione della comunicazione, ma non la forma. Però:

A) quando comunichiamo lo facciamo sia intenzionalmente che non intenzionalmente; quando io parlo con un passante sto comunicando con le parole che ho scelto di pronunciare, ma comunico anche con il linguaggio del corpo non intenzionale, comunico anche messaggi involontari che non controllo (parlo veloce perché sono in uno stato d'ansia/lentamente perché sono calmo/perdo il filo del discorso o scambio le parole perché sono distratto/stizzito e in maniera aggressiva perché in fondo disprezzo il mio interlocutore) ma tutto ciò che non è intenzionale e manifesto, non è scontato che il mio interlocutore sia in grado di capirlo (perché magari mi conosce poco, non mi conosce affatto, non sa che cosa stavo facendo in quel momento, non sa che giornata ho passato, semplicemente è immerso nei fattacci suoi...);

B) anche nella comunicazione intenzionale c'è comunque un enorme margine di fraintendimento perché quelle che noi chiamiamo parole, più propriamente segni linguistici, sono in realtà dei suoni o dei segni scritti (significanti) convenzionali a cui ciascuno di noi associa dei significati. Ma i significati non esistono di per sé, esistono in relazione a tutte le altre idee e nozioni che ciascuno di noi possiede in maniera più o meno approfondita su un determinato campo (campi semantici) per cui, anche quando usiamo le stesse parole, non stiamo mai veicolando esattamente gli stessi significati. Per rimanere al monologo dei due, quando io uso la parola ne*ro il valore di quella parola non è dato solo dalla mia intenzione, ma anche da quella del ricevente del messaggio e dai campi semantici a cui il ricevente la associa in maniera non intenzionale (esempio banale, se uso quella parola con un latinista probabilmente la associa all'etimologia latina, se la uso con un afroamericano istintivamente gli ricorderà il bisnonno schiavo);

C) a rivendicare il politicamente scorretto sono sempre esponenti della parte di popolazione che detiene il controllo del "potere" nelle sue varie articolazioni, e se uno si ferma un attimo, capisce il perché: il politicamente scorretto è una delle forme in cui si manifesta la violenza (in questo caso verbale) con cui si legittima il controllo. Sono io che ho il potere che decido con che nomi e termini parlo di te, ti nomino. Facci caso, parlano di "intenzione". Bene, se io chiedessi ad uno stupratore, con ogni probabilità mi direbbe che lui mica ha stuprato, la sua intenzione era solo di divertirsi; la stessa cosa ti direbbe un bullo, lui aveva solo intenzione di divertirsi un po', è lo psicoterapeuta che gli fa capire che quel suo divertirsi ferisce l'altro; se vai a rileggere i verbali del processo di Norimberga, i gerarchi nazisti non parlano mai di volontà di fare soffrire gli ebrei, ma di "intenzione" di ripulire l'Europa. Cosa accomuna questi esempi? Che sempre l'uso della violenza, che sia fisica o verbale, viene mascherata da chi la esercita sostenendo che l'intenzione era altra. La maschera non è per forza intenzionale, ma c'è. Chi acquistava o possedeva uno schiavo nel XVIII secolo mica aveva intenzione di prolungare la condizione di inferiorità di un'etnia, non ci pensava proprio, non era un suo problema, lui aveva intenzione di avere un aiuto in casa o al lavoro a costo zero, adoperando quello che a tutti gli effetti era consierato un oggetto. Altra cosa che accomuna tutti questi esempi, compresi Pio e Amedeo: la loro "intenzione" prescinde dalla volontà di chi subisce la loro scelta. Lo schiavo non sceglie di esserlo, la donna stuprata idem, la vittima del bullo neanche, e il gay che i due comici pensano sia più figo chiamare frocio neppure, né lo decide la persona di colore che vogliono chiamare ne*ro. Anzi, è per loro censoreo il fatto che l'oppresso chieda di non essere chiamato in quel nome, come era uno scandalo il fatto che uno schiavo chiedesse diritti o che una donna si ribellasse alle volontà sessuali di un uomo. Insomma, si tratta di una forma di violenza, verbale, perpetrata da chi può su chi non può difendersi e chiede che sia la società a difenderlo.

Quindi, sorry, dire che ci stiamo educando a guardare la forma, le parole, e non le intenzioni delle parole, è una bella stupidaggine, un modo per lavarsi la coscienza, perché nella gran parte dei casi le intenzioni sono proprio veicolate dalla forma, soprattutto quando il contesto, la prosemica, il linguaggio paraverbale sono impossibili da accedere o di difficile interpretazione. Magari però c'è gente che sente dire questa stupidaggine in TV, questa dell'educazione a guardare alla forma e non alla sostanza, alle intenzioni, e pensa che sia vera: ecco, no, proprio non funziona perché la comunicazione non funziona così. Che poi, magari stessimo educando alla forma, semmai è il contrario!

Certo, entro certi limiti, i due comici possono avere ragione nel dire che in un contesto come quello della comicità la loro intenzione di fare satira dovrebbe essere chiara a tutti, tanto da non necessitare chiarimento quando usano termini politicamente scorretti. Però ci sono due problemi: 1) siamo sicuri che tutti colgono la differenza tra ironia (sostanzialmente un rovesciamento o una distorsione dei rapporti tra significati e significanti e campi semantici per mettere in luce paradossi e controsensi della lingua come della realtà) e pura asserzione? 2) Siamo sicuri che non si potrebbe fare buona satira o ironia usando termini politicamente corretti? Ovvero: Hunziker che fa gli occhi a mandorla è ironia di qualità? Pozzetto che tira fuori la lingua e urla alla donna discinta che è un bel troione è veramente una comicità da rimpiangere? Lo so qual è l'obieione: chi decide cosa è comicità di qualità? Nessuno, il pubblico, il gusto. Però io nelle mie scelte mi fondo su un presupposto: se la comicità compiace il palato della maggioranza e per farlo non lesina di colpire la minoranza, già di per sé debole, ecco, a me quella più che comicità pare piaggeria. La satira colpisce il potente, anche in maniera populista, è chiaro, ma a colpire i deboli ci pensano già i potentati, non c'è bisogno dei comici per questo.

Sia chiaro quindi, non si tratta di censurare: semmai il problema sta a monte, nel fatto che due comici sentono di doversi giustificare: se tu artista pensi di dover fare qualcosa, anche fosse usare certe parole, le usi e basta. Poi, proprio perché ti assumi la responsabilità di quello che fai, accetti anche le critiche in una discussione ragionata e pacata, senza doverti nascondere dietro l'arte per l'arte, il diritto della comicità di dire quel che vuole senza limiti e responsabilità. Questa idea vuol dire tutto e niente, è una bella asserzione, ma è vuota, ognuno la riempie come vuole. Invece l'artista deve avere il coraggio delle proprie azioni: vuoi denunciare che uno stereotipo non è solo un luogo comune, che è vero? Fallo, e poi sostieni la tua posizione. Se siete artisti, abbiate il coraggio di esserlo fino alla fine.

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