La giornata d'uno scrutatore, Italo Calvino



La giornata d'uno scrutatore, di Italo Calvino, racconta la giornata che Amerigo Ormea, intellettuale e operaio comunista degli anni Cinquanta del 'Novecento, trascorre presso il nosocomio  Piccola Casa della Divina Provvidenza "Cottolengo" di Torino durante le elezioni del 1953. Qui Ormea, facente parte della commissione elettorale, si batte per un imparziale rispetto delle norme previste per il voto delle persone disabili o non più capaci di intendere e di volere all'interno del centro di ricovero gestito dalla Chiesa Cattolica, con l'evidente obiettivo di evitare che i voti dei degenti siano falsati e indirizzati verso la Democrazia Cristiana. 

Se in apparenza, quindi, il romanzo appare intriso di realismo e di impegno politico, esso in realtà, nelle poche pagine che lo compongono, mette in scena la crisi degli strumenti cognitivi razionali a cui il protagonista e l'autore si sentono legati, quasi aggrappati, e allo stesso tempo sempre più distanti. Il nosocomio è di per sé un mondo a parte, distinto dalla e specchiante verso la realtà che lo circonda. Esso è "un luogo in cui, mentre si adempiono le funzioni ritenute fondamentali dalla società che sta fuori dall'edificio, in special modo il rito collettivo del voto, se ne mettono in luce le contraddizioni di fronte alla sofferenza o anche solo alla vita pressoché annullata di molti degli ospiti dell'ospedale/ospizio. " configurandosi quindi come un eterotopia. Di fronte alla realtà del ricovero, di fronte alla sofferenza, i riti che all'esterno appaiono così importanti, così pregnanti la società perdono senso: - fino a dove un essere umano può dirsi umano? - si chiede Ormea, e cosa fare di fronte alla sofferenza - era più umano aiutarli a vivere o a morire, e anche a quella non avrebbe saputo dare una risposta. -; la risposta che si dà il protagonista, dinnanzi alla scena del padre che accudisce il figlio ricoverato, è tanto delicata quanto dolorosa

Ora che il giovane idiota aveva terminato la sua lenta merenda, padre e figlio, seduti sempre ai lati del letto, tenevano tutti e due appoggiate sulle ginocchia le mani pesanti d'ossa e di vene, e le teste chinate per storto - sotto il cappello calato il padre, e il figlio a testa rapata come un coscritto - in modo di continuare a guardarsi con l'angolo dell'occhio. 

Ecco, pensò Amerigo, quei due, così come sono, sono reciprocamente necessari.

E pensò: ecco, questo modo d'essere è l'amore.

E poi: l'umano arriva dove arriva l'amore; non ha confini se non quelli che gli diamo.

Il momento in cui realtà esterna e nosocomio si ricongiungono è il momento del fallimento della conoscenza. Di fronte al paziente grato alle suore che, in fondo, lo stanno adoperando come chiunque fra i sani usa quei malati, anche nel momento in cui lo fa con la massima carità possibile, di fronte alla conoscenza della vittima che si fa fedele al suo carnefice, il tramontare del sole fonde in un'unica immagine realtà ed eterotopia

S'avvicinò alla finestra. Un poco di tramonto rosseggiava tra gli edifici tristi. Il sole era già andato ma restava un bagliore dietro il profilo dei tetti e degli spigoli, e apriva nei cortili le prospettive di una città mai vista. 

Donne nane passavano in cortile spingendo una carriola di fascine. Il carico pesava. Venne un'altra, grande come una gigantessa, e lo spinse, quasi di corsa, e rise, e tutte risero. Un'altra, pure grande, venne spazzando, con una scopa di saggina. Una grassa grassa spingeva per le stanghe alte un recipiente-carretto, su ruote di bicicletta, forse per trasportare la minestra. 

Anche l'ultima città dell'imperfezione ha la sua ora perfetta, pensò lo scrutatore, l'ora, l'attimo, in cui in ogni città c'è la Città. 

Nella città che si fa Città, emerge in nuce il mondo di tutte le città possibili che non sono altro che l'unica Citta, la Venezia di Marco Polo nelle Citta invisibili. 

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