Il dibattito sulla riapertura delle scuole in Italia - questioni di metodo

In questi giorni in Italia non si fa che parlare, ancora, dell'annosa questione della riapertura in presenza delle scuole. Il dibattito, mai in realtà sopito, è riemerso a galla a seguito di un articolone del Corriere titolato Scuola in presenza, ricerca sui dati di 7,3 milioni di studenti: stare in classe non spinge la curva della pandemia, ripreso poi da altri media e, soprattutto da larga parte del mondo politico. La ricerca a cui il Corriere fa riferimento è in realtà un preprint di Sara Gandini, epidemiologa dello Ieo di Milano et alii, intitolato provvisoriameente No evidence of association between schools and SARS-CoV-2 second wave in Italy. Preprint, per chi non lo sapesse, è una definizione tecnica: vuol dire che l'articolo scientifico non è stato ancora pubblicato perché, per essere validato, deve ancora passare dal giudizio e dalla revisione di ricercatori e studiosi esterni alla ricerca; solo superato il passaggio della peer review (la revisione e validazione tra pari) l'articolo potrà essere considerato a tutti gli effetti valido scientificamente e pubblicato su riviste accreditate. Ovviamente, il fatto che la ricerca giri già in fase precedente alla revisione non toglie nulla alla sua legittimità, anzi, meritoriamente, rende pubblico un dibattito scientifico. (EDIT: dopo la pubblicazione di questo articolo la versione definitiva della ricerca, ora titolata A cross-sectional and prospective cohort study of the role of schools in the SARS-CoV-2 second wave in Italy è stata pubblicata su The Lancet Regional Health Europe, da non confondersi con la ben più blasonata The Lancet, rivista che, tra le altre cose, giusto due settimane prima pubblicava una ricerca titolata School reopening without robust COVID-19 mitigation risks accelerating the pandemic sulle scuole negli UK in netto contrasto con le considerazioni esposte da Gandini et alii)

Nella ricerca si sostiene che non ci siano correlazioni evidenti tra l'apertura delle scuole in presenza e l'aumento dei contagi nella cosiddetta seconda ondata della pandemia, quella che ha colpito l'Italia tra ottobre e dicembre 2020. 

«I numeri dicono che l’impennata dell’epidemia osservata tra ottobre e novembre non può essere imputata all’apertura delle scuole»: il tasso di positività dei ragazzi rispetto al numero di tamponi eseguito è inferiore all’1%. «Di più: la loro chiusura totale o parziale, ad esempio in Lombardia e Campania, non influisce minimamente sui famigerati indici Kd e Rt . Ad esempio a Roma le scuole aprono 10 giorni prima di Napoli ma la curva si innalza 12 giorni dopo Napoli, e così per moltissime altre città», spiega l’esperta. Ancora, il ruolo degli studenti nella trasmissione del coronavirus è marginale: «I giovani contagiano il 50% in meno rispetto agli adulti, veri responsabili della crescita sproporzionata della curva pandemica. E questo si conferma anche con la variante inglese». In altre parole i focolai da Sars-Cov 2 che accadono in classe sono molto rari (sotto il 7% di tutte le scuole) e la frequenza nella trasmissione da ragazzo a docente è statisticamente poco rilevante. Quattro volte più frequente che gli insegnanti si contagino tra loro, magari in sala professori, «ma questo è lo stesso rischio che si assume, ad esempio, in qualunque ufficio».

Secondo Gandini la comparazione tra diverse realtà italiane in cui si sono adottate pratiche diverse rispetto alla riapertura o alla chiusura delle scuole, insieme ai dati forniti dal MIUR, dalla Protezione Civile e dall'Istituto Superiore di Sanità, dimostrerebbero che la chiusura delle scuole non ha comportato significativi abbassamenti nel livello di diffusione del contagio, e che, al contempo, lì dove le scuole sono rimaste aperte non si sono evidenziate crescite della diffusione del Covid-19 fra la popolazione scolastica e le famiglie correlate.



La conclusione a cui giunge Gandini è che occorre riaprire al più presto, anche per evitare danni di tipo psicofisico e pedagogico fra gli studenti e le famiglie italiani
bisogna mettere in relazione il dato con l’impennata del numero di tamponi effettuati durante la didattica in presenza: «In mancanza di evidenze scientifiche dei vantaggi della chiusura delle scuole, il principio di precauzione dovrebbe essere quello di mantenere le scuole aperte per contenere i danni gravi, ancora non misurabili scientificamente in tutta la loro portata e senz’altro irreversibili sulla salute psicofisica dei ragazzi e delle loro famiglie. La scuola dovrebbe essere l’ultima a chiudere e la prima a riaprire», si sbilancia Gandini, tra l’altro promotrice con il medico Paolo Spada del gruppo di scienziati Pillole di ottimismo, con centinaia di migliaia di sostenitori sul web. «Ci sono rischi anche nel tenere così a lungo chiuse le scuole. In Italia gli adolescenti delle superiori sono andati a scuola mediamente, quest’anno, solo 30 giorni in tutto».

La ricerca di Gandini sembra quindi fare seguito a quanto già affermato dall'ISS nel suo rapporto sulla apertura delle scuole e l'andamento dei contagi. Va ricordato invece come sui dati forniti dal MIUR a seguito del monitoraggio nelle scuole il dibattito è stato lungo e aspro: come documentato da Wired, i dati raccolti dal MIUR sono stati parziali e l'accesso ad essi difficile, oltre che, mi sento di dire, probabilmente inutile per le stesso modalità di raccolta.

Stando a quanto detto, quindi, sembra legittimo ipotizzare la rapida riapertura delle scuole di ogni ordine e grado.

In realtà le cose non paiono stare proprio così.

Molte voci critiche si levano da tempo, da quando ha iniziato a circolare, contro la ricerca di Gandini. Il sito La scuola al tempo del Covid ha sin da subito evidenziato diverse falle apparenti nella ricerca: si nota per esempio che 

(i) non è vero che le scuole sono state “chiuse” per più della metà dell’anno scolastico 2019-2020, perché la didattica a distanza è iniziata ad inizio marzo, ed è durata per tre mesi (l’anno scolastico dura 9 mesi); inoltre, a giugno/luglio si sono svolti gli esami di maturità con gli studenti in presenza, pertanto le scuole non sono rimaste chiuse fino a Settembre

(ii) la didattica digitale integrata è una modalità prevista dall’inizio di quest’anno scolastico, infatti molte scuole – non in grado di garantire il distanziamento sociale – hanno previsto da inizio anno un’alternanza di ore in presenza e a distanza.

Volutamente si fa un uso ambiguo del concetto di chiusura: noi italiani sappiamo che le scuole non sono mai state chiuse e che docenti e studenti hanno fatto un grande sforzo per mantenere un dialogo educativo; ma, mettendoci nei panni del lettore non a conoscenza di quanto sia accaduto in Italia, si tende a dare un messaggio non corretto: scuole chiuse, non c’è lezione.

Ancora

C’è poi un punto un po’ delicato, che vale la pena sottolineare dall’inizio; in tutto l’articolo si fa un uso un po’ disinvolto della parola child/children, per cui non si capisce se ci si riferisca a bambini (in età puberale) o, più in genere, agli studenti del campione analizzato che, comprendendo anche le scuole secondarie di secondo gradi, arrivano come minimo ai 19 anni. Mescolare tutto, dietro l’uso della parola child/children è fuorviante.

Si osserva poi come la ricerca non chiarisca a quali dati faccia realmente riferimento e non mennzioni come dal 13/11/2020 il MIUUR abbia sospeso il monitoraggio dei casi nelle scuole. Lo studio poi dà per scontato che le scuole siano state in grado di applicare le norme di sicurezza previste dal Ministero dell'Istruzione (misurazione della febbre, distanziamento di almeno un metro, obbligo di mascherina): tutte inesattezze in quanto quasi mai le scuole le hanno potute applicare in maniera sistematica e continuativa. La critica giunge quindi ad affermare che 

Quello che colpisce è che gli autori vogliano dare, con queste informazioni, l’immagine di una scuola perfettamente funzionante e rispondente graniticamente alle indicazioni del ministero. Piuttosto, lo scopo di una ricerca, dovrebbe essere quello di verificare se tali indicazioni siano state sufficienti a creare le condizioni di sicurezza per la popolazione scolastica. L’impressione è quella di una pericolosa assunzione di principio, per cui la scuola non può che essere sicura. Manca, evidentemente, una conoscenza diretta della realtà scolastica, per cui viene rappresentata un’idea alquanto accademica del mondo della scuola.

Infine, arriviamo alla contestazione del metodo:

Per affermare la maggior sicurezza della scuola, dovremmo confrontare il campione di italiani fra i 2 e 19 anni che vanno a scuola con quelli, nella stessa fascia di età, che non vanno a scuola (!), in modo da valutare l’incidenza della scuola nel contagio nelle fasce di età prese in considerazione. I motivi per cui i giovani si contagiano meno sono diversi e possono essere spiegati anche per caratteristiche del loro sistema immunitario (come dicono gli stessi autori nell’introduzione); inoltre, i giovani sono meno autonomi degli adulti nel curarsi. Intendo dire che non necessariamente se hanno i sintomi fanno un tampone, cosa che ci si aspetta facciano invece regolarmente gli adulti.

Ben diversa è la situazione per i docenti e personali scolastico, i quali sono un sottoinsieme dell’intera popolazione Italiana, per una fascia di età che va dai 25 ai 65 anni. Il dato che emerge è un netto e più marcato rischio di contagio nell’ambiente scolastico. Quindi? Si dovrebbe dedurre che andare a scuola espone ad un maggior rischio di contagio rispetto a non andarci. 

Per cui

 In sintesi: questo articolo dimostra che bambini e adolescenti si contagiano meno degli adulti. Ma questo era già scritto nell’introduzione

[...] Nella migliore delle ipotesi, gli autori hanno confermato questa affermazione. Ma hanno anche dimostrato – a loro insaputa – che gli adulti, nella scuola, si contagiano di più che fuori. Il che dovrebbe quanto meno bastare a dire che la scuola non è sicura come essi sostengono. Anzi, molto probabilmente, è molto diversa da come la immaginano.

A questa critica ne sono seguite diverse altre. Già da qualche mese Alessandro Ferretti, ricercatore del  dipartimento di Fisica dell'Università di Torino, mette in evidenza i risultati della sua ricerca sul contagio nelle scuole Piemontesi. Dallo studio di Ferretti emerge un quadro molto diverso rispetto a quello proposto da Gandini


Nonostante le maggiori precauzioni introdotte sin dall’inizio dell’anno scolastico all’interno delle scuole superiori, l’incidenza del contagio tra il personale è stata significativamente più alta rispetto a quella della popolazione generale sin dalla settimana del 12 ottobre. La percentuale di contagi ha continuato a crescere fino ad arrivare al 125% di quella della popolazione generale nella settimana del 26 ottobre, quando è stata introdotta la didattica a distanza per almeno il 50% dell’orario delle classi dalla seconda alla quinta. L’effetto benefico di questa misura si è visto la settimana seguente, quando la percentuale di contagi è diventata praticamente uguale a quella della popolazione. A partire dal 2 novembre è iniziata la didattica a distanza al 100% e nella settimana successiva (9-15 novembre) la percentuale di contagi tra il personale è scesa al di sotto di quella della popolazione.

Per quanto riguarda le scuole medie 

L’incidenza del contagio tra il personale della scuola media ha superato quella della popolazione a partire dalla settimana del 12 ottobre: rispetto al caso delle superiori la crescita è stata però molto più rapida e nella settimana del 2 novembre la percentuale di contagi tra il personale è arrivata al 280% di quella della popolazione, il che corrisponde ad un’incidenza del contagio quasi tripla.

Nella scuola media le misure restrittive sono state introdotte il 2 novembre (seconda e terza media a distanza), e a partire dalla settimana successiva si nota una riduzione dell’incidenza, che però non è sufficiente a riportare il rischio a valori confrontabili con quelli della popolazione: nell’ultima settimana la percentuale di contagi è il 230% di quella della popolazione piemontese.

Sommando tutte le settimane risulta essersi contagiato il 7,3% del personale. Confrontando il dato con il 3,1% registrato tra la popolazione generale, l’incidenza totale tra il personale delle medie risulta essere il 240% dell’incidenza generale, quindi quasi due volte e mezzo più alta. 

Mentre per quanto riguarda suola dell'infanzia e primaria 

Nella scuola primaria l’andamento è simile a quello delle scuole medie: la salita è stata leggermente meno rapida ma nella settimana del 2 novembre l’incidenza del contagio sul personale è comunque arrivata al 270% di quella sulla popolazione.  Il 2 novembre è stata introdotta l’obbligatorietà della mascherina per tutti gli alunni sopra i sei anni, ma questa misura non ha inciso molto: dopo un relativo calo, nella settimana del 23 novembre l’incidenza sul personale rispetto a quella sulla popolazione è risalita ed è arrivata al 285%, superando i valori della settimana del 2 novembre.

Sommando i contagi di tutte le settimane risulta essersi infettato il 7,5% del personale. Dal confronto con il 3,1% registrato tra la popolazione generale, l’incidenza totale tra il personale delle primarie risulta essere il 245% dell’incidenza generale, quasi due volte e mezzo più elevata. 

La percentuale dei contagi tra il personale delle scuole materne è la più elevata di tutte. Nella settimana del 2 novembre la percentuale di contagi è arrivata al 360% di quella della popolazione, ma in assenza di misure restrittive ha continuato la crescita e nella settimana del 23 novembre è arrivata quasi al 400%, ovvero il quadruplo dell’incidenza sulla popolazione generale.

Sommando i contagi di tutte le settimane risulta essersi infettato il 10,8% del personale. Dal confronto con il 3,1% registrato tra la popolazione generale, l’incidenza totale tra il personale delle materne risulta essere il 350% dell’incidenza generale: tre volte e mezzo più alta. 

Da tutto questo si deduce che

Il fatto che l’incidenza del contagio tra il personale scolastico sia sensibilmente più alta di quella generale è indice del fatto che tale personale è più esposto al contagio rispetto alla media della popolazione. Se le scuole non fossero un luogo ove avviene il contagio, ci si aspetterebbe un’incidenza simile o inferiore a quella della popolazione. Dal momento che l’unica differenza rilevante tra il personale scolastico e la popolazione generale sta nella particolare attività lavorativa, è evidente che la causa dell’incidenza più elevata sta proprio nell’attività lavorativa stessa.

Altrettanto preoccupante il quadro per gli studenti. Se il contagio fra gli studenti delle scuole superiori riesce ad essere in qualche modo contenuto dalla rapida decisione di passare alla DAD, non così per gli altri ordini di scuole


L’incidenza del contagio tra studenti delle superiori si distacca da quella tra la popolazione generale a partire dalla settimana del 5 ottobre. Nella settimana del 12 ottobre l’incidenza tra gli studenti è quasi il doppio di quella generale (1,85 volte). Il 16 ottobre la regione Piemonte, in difficoltà con i tamponi, modifica gli indirizzi operativi e decide di riammettere in classe gli studenti che hanno completato la quarantena anche senza tampone di verifica. Nella settimana successiva si osserva una flessione dell’incidenza (possibilmente dovuta ad un minor numero di tamponi in seguito alla modifica degli indirizzi), che però rimane superiore a quella della popolazione. Nella settimana del 26 ottobre entra in vigore la didattica a distanza al 50% e nella settimana successiva l’incidenza studentesca scende al di sotto di quella generale.

Il 2 novembre entra in vigore la zona rossa con il conseguente passaggio alla DAD al 100% e nella settimana successiva si osserva un netto calo dell’incidenza, in controtendenza rispetto al dato generale ancora in crescita. La discesa continua nelle settimane successive e porta l’incidenza fino a valori inferiori a quelli degli studenti delle medie.

Studenti delle scuole medie (grigio)

L’incidenza tra gli studenti delle medie cala in seguito al provvedimento del 16 ottobre ma continua a seguire l’andamento di quella generale fino alla settimana del 2 novembre, durante la quale le seconde e le terze vanno in DAD: nella settimana successiva si osserva un netto calo dell’incidenza studentesca, in controtendenza rispetto alla popolazione, ma il calo è meno rapido di quello osservato nelle superiori che, a differenza delle medie, sono completamente a distanza.

Studenti delle primarie (rosso)

L’incidenza tra gli studenti della scuola primaria rispetto a quella della popolazione cala dopo il 16 ottobre ma poi rimane sostanzialmente stabile, La diminuzione dopo il 2 novembre è molto più contenuta rispetto a quella osservata nelle medie e nelle superiori, e nell’ultima settimana l’incidenza si riavvicina a quella generale.

Studenti delle scuole dell’infanzia (azzurro)

Si osserva un netto calo dell’incidenza dopo il 16 ottobre, ma nelle settimane successive il rapporto tra incidenza nelle materne e nella popolazione rimane sostanzialmente stabile, riflettendo così la sostanziale assenza di provvedimenti precauzionali aggiuntivi relativi a questo grado di scuola.

 

Ferretti quindi giunge alla conclusione che 

Anche nel caso degli studenti è possibile notare una coincidenza temporale tra le misure precauzionali aggiunte nel corso delle settimane e l’andamento dell’incidenza del contagio. Significativo il fatto che il calo osservato alla superiori, dopo il passaggio alla DAD al 100%, sia più forte rispetto alle scuole medie dove la DAD riguarda solo i due terzi degli studenti: evidentemente la didattica in presenza per le prime medie comporta un rischio aggiuntivo non trascurabile.

Nonché 

Dall’analisi sopra riportata risulta evidente che il contagio all’interno delle scuole non solo non è trascurabile, ma è anzi molto significativo e nettamente superiore a quello medio all’esterno delle scuole [...] Appare evidente la correlazione tra le misure che introducono la didattica a distanza e la riduzione dei contagi. Il confronto tra il personale dei diversi gradi di scuola indica che il ruolo dei trasporti nel contagio sia secondario rispetto al rischio aggiuntivo della didattica in presenza. Inoltre è possibile che, a causa della mancanza di un adeguato screening, una significativa percentuale di studenti contagiati sfugga alla diagnosi per assenza di sintomi ma sia comunque contagiosa.


Ferretti non è l'unico studioso ad essersi esposto pubblicamente contro le posizioni "aperturiste" nella scuola; anche Davide Tosi della Bocconi nel suo preprint Studio Preliminare sull'Impatto della Scuola nella diffusione del contagio da covid19: Analisi dati su Regione Lombardia e Regione Campania ha espresso posizioni simili. La ricerca di Tosi è stata ripresa da Open nell'articolo titolato L’esperto Tosi: «Scuole chiuse per le varianti? Solo un alibi per la cattiva gestione. Sbagliato riaprire ora» – L’intervista e da Panorama su Luogo sicuro o focolaio? La scienza si divide sulla scuola

Tosi evidenzia che

In Italia l'esplosione esponenziale dei contagi per la cosiddetta seconda ondata è iniziata il 28 settembre, quindi esattamente due settimane dopo la riapertura delle scuole italiane. Nel periodo 14 settembre - 30 ottobre si parla di circa 65.000 casi individuati nella scuola primaria e secondaria di primo grado. Dati sottostimati perché non tutte le scuole italiane hanno partecipato a questa attività di tracciamento (solo il 38%) e non tutte le scuole hanno rilasciato i propri dati al ministero. Va inoltre considerato che il 75% dei minori di 18 anni è asintomatico e questa grande fetta di giovani si perde nell'attività di tracciamento. [...] I dati sulla crescita delle infezioni per fasce di età dall'inizio di settembre a marzo, pubblicati settimanalmente nei rapporti epidemiologici della ISS, indicano che la fascia di età 0-9 ha avuto una crescita compresa tra 6 e 10 volte superiore a tutte le altre fasce. I dati mostrano inoltre che dal 29 dicembre al 10 marzo dello scorso anno i contagi sono aumentati dell'83,44% nella fascia compresa tra 0 e 9 anni e il 63,55% in quella tra 10 e 19 anni. L'età scolare è quindi quella in cui il contagio è cresciuto di più.[...]

Infatti 

Per quanto riguarda la Regione Lombardia i casi individuati sono circa 14.000 su 88.500 casi totali (15,8%), nel periodo di riferimento 14 settembre - 30 ottobre.

Nella Regione Campania i casi individuati sono 4.620 circa su 42.815 casi totali (10,8%). È importante ricordare come Lombardia e Campania hanno utilizzato ad ottobre diverse politiche scolastiche, la prima lasciando le scuole primarie e secondarie aperte alla frequenza e le secondarie al 50% di frequenza mentre la Campania intervenendo invece con chiusure mirate a partire dal 16 ottobre e fino al 13 novembre.

Infine in Emilia Romagna i casi identificati sono circa 3.050 su 19.670 casi totali (15,5%), nel periodo di riferimento. 

Ne consegue che 

Il nostro studio dimostra che le regioni e le province che hanno mantenuto le scuole aperte hanno avuto contagi maggiori. I focolai nelle scuole sono poi esplosi sui territori. È accaduto invece il contrario nelle città dove le scuole sono state chiuse. È importante partire da questo per andare a mettere in sicurezza le scuole e gli operatori scolastici - spiega Davide Tosi - si continua a dire che le scuole sono sicure per creare l'alibi per non intervenire. Dalle nostre analisi le scuole come tutti gli ambienti chiusi contribuiscono a diffondere il virus


Anche Andrea Casadio su Editoriale Domani ha contestato i dati forniti da Gandini nel suo Scuole sicure? Ecco perché non possiamo fidarci dello studio rilanciato dai media. Casadio osserva che 

In due articoli fondamentali - uno pubblicato su Science l’altro su Nature Human Behavior, due delle più prestigiose riviste scientifiche del globo - gli scienziati hanno studiato l'impatto dei diversi interventi per impedire il diffondersi dell'epidemia di Covid.

Hanno esaminato ogni dato disponibile sul Covid, il primo in 41 paesi del mondo, il secondo in 173, centinaia di milioni di casi. Sapete qual è la misura più efficace per fermare l’epidemia, secondo lo studio su Science, dal titolo Valutazione dell’efficacia dei vari interventi presi dai governi contro il Covid? La chiusura delle scuole. E nell’altro articolo, gli scienziati scrivono:

«Gli interventi più efficaci comprendono il coprifuoco, il lockdown, la proibizione degli assembramenti (chiusura di negozi e ristoranti, lavoro da casa obbligatorio) e la chiusura delle istituzioni scolastiche. La chiusura delle scuole riduce l'incidenza e la mortalità del 60 per cento. Gli adolescenti tra i 10 e i 19 anni di età sono quelli che con maggiore probabilità - più degli adulti e dei bambini - diffondono il contagio nell’ambiente familiare». 

Casadio nota che, in base a quanto fino a qui osservato, normalmente i giovani si  infettano di meno e nella gran parte dei casi si contagiano in maniera asintomatica. Per cui, stando ai dati forniti da Gandini

Se trovi che la popolazione scolastica, composta per il 90 per cento da giovani che normalmente si infettano da 2 a 4 volte meno degli adulti, si contagia tanto quanto la popolazione generale, significa che il virus nelle scuole circola tantissimo!

Difatti Gandini scrive che tra gli insegnanti e i non docenti i contagi sono stati il doppio rispetto a quelli osservati nella popolazione generale. E chi li avrà mai contagiati? Gli studenti, è ovvio. 


Se avete avuto la pazienza di giungere fino a qui nella lettura di questo post, forse vi sarete accorti di quale sia veramente la questione in ballo: ciò che distingue le posizioni dei ricercatori e studiosi citati è in primis una questione di metodo; come si raccolgono i dati, come li si legge e con quali competenze. Ciò che viene contestato a Gandini è, in fondo, il modo in cui ha raccolto i dati e la prospettiva in cui li ha letti.

Non è in realtà la prima volta che a Gandini viene mossa questa contestazione. Il 13 maggio 2020 su Giap dei WuMing Foundation Gandini, assieme a Marco Mammone Capria, pubblicò un articolo titolato Cos’ha lasciato in ombra il Covid-19. Epidemiologia e insensatezze dell’emergenza coronavirus. L'articolo, pur esponendo delle considerazioni in linea di massima spesso condivisibili, partiva da una tesi e, sostanzialmente, trovava dati a sostegno di quella tesi, fornendo un esempio di cherry picking, ovvero di raccolta dati condotta in modo da escludere qualsiasi elemento in contrasto alla propria tesi. In particolare risaltò agli occhi dei lettori del post un grafico che riassumeva un confronto, ovvero quello tra l'incremento della mortalità nel 2020, attribuita alla pandemia da Coronavirus, e la crescita del 2015 dovuta all'influenza



Perché si tratta di cherry picking? Lo spiega bene uno dei commenti all'articolo 

avete constatato un numero di morti simile nel periodo gen-aprile 2015 al periodo gen-aprile 2020. Come avete ben spiegato la statistica e i dati presuppongono a monte delle scelte, sull’oggetto, i criteri, etc. Scelte che in sostanza (pre)determinano gli esiti di quello che si vuol dimostrare. Questo paragone che avete scelto sulla mortalità per sindrome LIL sembra essere il pilastro fondamentale anche dell’articolo qui riportato.

Ora mi stavo chiedendo: come è possibile comparare la mortalità per causa di una patologia virale di un periodo dove il livello di interazioni sociali erano ad un livello ordinario con uno nel quale a causa delle limitazioni imposte questo livello è esponenzialmente ridotto? Scusate parlo da ignorante, ma a casa mia una comparazione di questo tipo non ha niente di scientifico.

Ovvero, la comparazione è solo apparentemente fondata, perché, pur comparando sistemi simili, li mette a paragone sorvolando sul fatto che il funzionamento intrinseco di quei sistemi è molto diverso proprio perché le caratteristiche dei due sistemi sono diversi. Nello specifico, nel 2015 la mortalità crebbe in un momento in cui non furono imposte limitazioni alle libertà personali dei cittadini, nel 2020 la mortalità è cresciuta malgrado le limitazioni alle libertà personali, e quindi malgrado una circolazione notevolmente ridotta del virus rispetto alle condizioni del 2015. 

Del problema di metodo posto dall'articolo di Gandini si accorsero anche i curatori del sito, che lo ritirarono con un successivo post di scuse titolato Un ruzzolone, le nostre scuse a chi ci legge, un memento per il futuro 

Dicevamo: il dibattito sulla riapertura o sulla chiusura delle scuole è spesso inficiato in primis dalle questioni di metodo. Gandini, nella sua ricerca, parla di rischi di tipo psicofisico e pedagogico per gli studenti italiani. Il problema è che di danni di tipo psicofisico dovrebbero avere competenza a parlare psicologi, psichiatri, neurologi, e di danni di tipo pedagogico, ovviamente, i pedagogisti. Già Nature, in un suo articolo di febbraio titolato Uno sguardo al ruolo del Comitato Tecnico Scientifico osservava che 

Al tempo stesso, il CTS ha talvolta fornito indicazioni su tematiche su cui ha poca o nessuna competenza. A gennaio, ha affermato che proseguire con l’insegnamento a distanza avrebbe causato negli studenti “un grave impatto sul [loro] apprendimento, la loro psicologia e la loro personalità”. L’affermazione ha avuto conseguenze sulle politiche nazionali, ma nessun membro del CTS ha esperienza in campo pedagogico, in psicologia dell’infanzia o in neuropsichiatria.

Si tratta di una critica che si può apertamente muovere anche a Gandini. Cristiano Corsini, pedagogista presso Roma Tre, nel suo ISTRUZIONE & SALUTE: PROVARE a PARLARE di SCUOLA OLTRE la RETORICA , pubblicazione degli atti dell'incontro ISTRUZIONE & SALUTE, ha provato a spiegare come la questione dell'appertura delle scuole sia stata posta in maniera volutamente scorretta da un punto di vista metodologico sin dall'esordio del dibattito:

Il discorso sulla scuola portato avanti dal Comitato Tecnico Scientifico, da pagine come Pillole di Ottimismo, movimenti come Priorità alla scuola e dalla maggior parte del mondo dell’informazione è stato caratterizzato, nel migliore dei casi, da una sconcertante incompetenza. Per esempio, si è tentato di contestare la correlazione usando i dati sui focolai. Ma tali dati sono viziati dall’assenza di un sistema efficiente di testing e tracciamento, saltato già a ottobre e tendente ad attribuire – proprio a causa della sua inefficacia – alla famiglia i contagi che non è in grado di rintracciare altrove. Per esempio, si è cercato di avvalorare la vanvera delle scuole sicure e non incidenti sui contagi usando lo studio di un’agenzia europea come l’ECDC, ma tale studio era riferito non all’Italia ma ad alcuni paesi europei che hanno riavviato le loro scuole ad agosto e in condizioni diverse dalle nostre. La realtà dei fatti è che, a parità di tamponi, l’incidenza dei contagi sul personale scolastico della scuola dell’infanzia e della primaria è del 200% superiore ai soggetti di altre categorie.

Ci sono state lodevoli eccezioni a questo atteggiamento antiscientifico. Voglio pubblicamente ringraziare Alessandro Ferretti, che ha smontato molte vanvere sui dati scolastici, e Davide Tosi, che sulla sua pagina Predire è meglio che Curare ha fornito stime affidabili che, se assunte seriamente da chi amministra e governa, avrebbero consentito di risparmiare vite. [...] Non si è compreso che la “didattica a distanza” non sostituisce quella in presenza e non è riconducibile al quadro che è stato tracciato in questi mesi. Quanto improvvisato da migliaia di insegnanti in condizioni di emergenza raramente ha risposto ai canoni della didattica a distanza, ma ha rappresentato un generoso, caotico e, soprattutto, eterogeneo insieme di attività di insegnamento non riconducibili a un’unica idea di didattica. Inoltre, si è provveduto ad armare, sin dai primi mesi, una stucchevole retorica della presenza che, impedendo di inquadrare pedagogicamente la crisi e di evidenziare gli elementi più retrivi dell’insegnamento in tempi di normalità, ha finito col trasmettere l’idea che l’insegnamento e l’apprendimento a distanza fossero “tempo perso da recuperare” e che alla didattica a distanza andassero addossate dispersione, iniquità e mancanze negli apprendimenti.

Nello stesso incontro Valentina Grion, del Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata dell'Università di Padova, osservava che

In linea con questo ragionamento, ci si potrebbe anche chiedere quali sarebbero i presunti danni arrecati dalla Dad. Forse la solitudine? O forse l’isolamento sociale? Elementi da tenere certamente in considerazione. Peccato che lo si dovrebbe fare anche in relazione alla scuola in presenza. Solitudine e isolamento sociale, infatti, non sono necessariamente dirette conseguenze della DaD, ma piuttosto di una DaD realizzata “male”. Quanto alla scuola in presenza, presupporre che stare in un’aula, dietro a un banco, sia automaticamente positivo ed efficace, e da ciò risulti automaticamente qualcosa che dovrebbe chiamarsi “apprendimento”, peraltro significativo, rappresenta un’ingenuità da persone alle prime armi nello studio di pedagogia e psicologia! Inviterei, in tal senso, questi esperti a considerare i dati di dispersione scolastica pre-pandemia. Li esorterei ad analizzare il grado di motivazione di ragazzi e ragazze alla frequenza della scuola (in presenza). Se fossero seri, questi grandi esperti, e ci tenessero veramente a loro - a bambini e  ragazzi - e alla loro salute mentale, culturale, psicologica, credo che dovrebbero ammettere che loro, in questo momento - dopo un anno trascorso così, di scuola “subita” in tutte le salse anche quelle più disgustose, a distanza, per gruppi, a turni, in duale con l’integrata...., abbiano bisogno di riabbracciarsi all’aria aperta, di fare sport, di toccarsi e spingersi fra di loro, di giocare liberi, di riprendersi per mano, di liberare le loro emozioni: LIBERARE. Cosa che non avviene stando fermi dietro un banco ad ascoltare l’ennesima lezione frontale (visto che per ora il distanziamento è d’obbligo!)! [...] Un ulteriore aspetto molto interessante, che un’ulteriore ricerca svolta come revisione della letteratura (analisi e confronto dei risultati di numerose ricerche sul tema) ha confermato, è che “l'efficacia dell'educazione a distanza appare avere più a che fare con chi insegna, chi sta imparando e come l'apprendimento è realizzato, e ha meno a che fare con il mezzo” (Rice, 2006, p. 440). Questo a dire: forse i fallimenti formativi non vanno imputati allo strumento utilizzato (la DaD), ma piuttosto ad altre variabili quali la preparazione dei docenti, le strutture a disposizione, il grado di motivazione di alunni e alunne ecc. Un’esperienza significativa di scuola a distanza, proprio per il contesto emergenziale in cui si è sviluppata, paragonabile in qualche modo all’attuale pandemia, è quella sviluppata  in Israele nel periodo della guerra israelo-palestinese.

Per concludere: 

Alla luce di quanto riportato ci si dovrebbe chiedere come mai e perché, invece che puntare l'attenzione sulle presunte, ma infondate – come si è visto - colpe della DaD, da parte di genitori, giornalisti e di tutti quelli che, in questi mesi, l’hanno combattuta come inefficace, non si siano invece convogliate le forze sul fatto di volere e di pretendere una “buona” DaD. Perché, da parte di costoro, non si siano organizzate manifestazioni per chiedere ai ministri e a chi di dovere, di mettere in atto tutte le misure necessarie affinché la DaD risultasse adeguata, poiché questo, come si è discusso sopra, risulta possibile!

Durante il medesimo incontro, Lorenzo Gasparrini, attivista e dottore di ricerca in estetica, chiosava

È il fatto che come dire il malessere e la situazione di disagio che tanti ragazzi stanno provando è stata automaticamente attribuita solamente all'arrivo della DaD, senza poi capire bene di cosa si trattasse. Innanzitutto è evidente che gli stessi ragazzi e gli stessi genitori si sono accorti che c'è stata una palese disorganizzazione, una mancanza di competenze nel gestire questa situazione; questo è apparso chiaro a tutti e che questo non fosse colpa del personale docente. Evidentemente questi non hanno avuto tempo e modo di formarsi per questa nuova situazione; qualcun altro ci doveva pensare, e cosa che è stata già raccontata fino adesso, evidentemente non l'ha fatto. Quando si sente dire ancora da tanti che i ragazzi sono tristi, i ragazzi soffrono perché non socializzano, in tanti ci domandiamo: ma glielo avete chiesto che socializzazione vorrebbero? Perché quello che a loro manca è sicuramente qualche cosa che riguarda indubbiamente la socializzazione, ma che forse non è esattamente il ritorno a un "prima" che tutto sommato non avrebbe forse molto senso, dato che adesso anche loro si sono accorti che questo "prima" già di suo non funzionava granché bene, e che questa situazione non ha fatto che acuire quei problemi già preesistenti. Sarebbe il caso di cambiare completamente l'idea che abbiamo anche della socializzazione nella scuola.


Per concludere: il dibattito sulle aperture in presenza delle scuole italiane sconta la colpa primigenia di una profonda mancanza di metodo nel modo in cui è stata condotta la discussione. Ne emergono errori nella ricerca scientifica che più specificatamente dovrebbe occuparsi della questione da un punto di vista sanitario, ma anche la mancanza di prospettiva nell'affrontare la questione dal punto di vista psicologico e pedagogico. A complicare la situazione, il decisore politico non è stato in grado, o no ha voluto, filtrare le informazioni, sia quelle che pervenivano e condizionavano le decisioni politiche, sia quelle che hanno formato l'opinione pubblica. Se a fine marzo 2021 viviamo ancora nel dubbio se la scuola sia o no veicolo di contagio, se esistano o no danni all'apprendimento, se siano misurabili e a cosa siano dovuti, se esistano o no danni di tipo psicologico attribuitibil alla DAD più che alla condizione pandemica in sé, se sussistono tutte queste incertezze ciò accade perché l'insieme della classe dirigente italiana ha mostrato di non possedere capacità decisionali e di ricerca, pur con lodevoli eccezioni. 

 

 

 

 

 

 

 

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