La qualità a scuola non si misura con il merito anche perché il merito non esiste
Ciclicamente nel discorso sulla scuola torna in scena il mito del merito: in genere a tirarlo fuori sono i soliti volti noti, neoliberisti spinti, conservatori classisti, psicologi e filosofi da salotto televisivo. Il che, per inciso, permette per l'ennesima volta di osservare che il discorso "sulla scuola" non è mai un discorso "per la scuola" formulato da chi di scuola sa e chi la scuola fa: insegnanti, formatori, pedagogisti, o anche solo ricercatori che abbiano modo e tempo di formulare confronti struttturati tra diversi sistemi di istruzione e formazione nel rapporto con l'idea stessa di uomo e società che una o più culture sono in grado di formulare, ovvero sociologi e antropologi. E così, nel solito farci del male discutendo di idee nate fondamentalmente in altri ambiti e applicate a sproposito sulla scuola, ci troviamo incasellati e sulla difensiva. Nello specifico, di recente Galli Della Loggia sul Corriere ha lamentato, per l'ennesima volta, la scarsa qualità della scuola italiana, adducendo in particolare come motivazioni alla suddetta scarsa qualità la mancanza di valutazione del merito e, consequenzialmente, la mancanza di autorevolezza (ma meglio autorità) e di disciplina. A controprova della sua teoria Galli Della Loggia porta l'esempio tedesco, in cui, secondo lui, la maggiore autorevolezza della classe docente e della scuola in genere, dimostrata da una maggiore remunerazione, è sancita dall'inequivocabile influenza della scuola stessa sulle vite dei futuri cittadini, dato che già da tenera età sta ai docenti di quel sistema scolastico stabilire se i singoli studenti saranno destinati a studi liceali o di tipo tecnico-pratico. Tale scelta risulta quindi incontrovertibile e non sindacabile, e in ultima analisi fondata su una discriminante valutata assai precocemente: il merito. È quindi questo concetto che fonda il modello scolastico di Galli Della Loggia, e su questo concetto occorre discutere. Del resto, anche altri pensatori si fanno portavoce del "merito" a scuola, come Galimberti in alcune dichiarazioni che regolarmente ritornano in circolo nell'opinione pubblica, per cui, è di questo che occorre ragionare.
Partiamo subito dalla tesi, e tagliamo la testa al toro: la valutazione del merito è di per sé pressoché impossibile e plausibilmente inutile.
Intanto chiariamo i termini della questione: il concetto di merito come lo intendiamo noi ha un'origine neoliberista e fondamentalmente conservativa, tende a confermare le differenze sociali anziché ridurle. Sostanzialmente si tratta di stabilire se gli studenti, avendo definito dei risultati da raggiungere alla fine di un percorso, avendo somministrato a tutti lo stesso modello di formazione, sono giunti al traguardo; la valutazione del raggiungimento del suddetto traguardo avverrà attraverso prove il più possibile oggettive e standardizzate e da questa valutazione seguirà premialità (promozioni, valore superiore o inferiore del titolo acquisito, borse di studio...) o una forma di punizione (bocciature...). Fino a qui si tratta quindi di una formulazione estremamente lineare e apparentemente condivisibile: il problema è che si tratta di una teoria della valutazione ECCESSIVAMENTE lineare e semplicistica, ovvero, il più classico dei casi di soluzione semplice a problemi complessi.
Chi sa di valutazione infatti può confermare come sia impossibile valutare il merito per almeno due ordini di fattori: il primo è il valutatore e la sua soggettività, ovvero chi stabilisce i criteri con cui si valuta il merito e perché. Pensando per esempio proprio a Galli Della Loggia come docente di Storia all'università, non sarà difficile pensare che fatti e teorie sociali, politiche ed economiche la cui conoscenza avrà ritenuto fondamentale per poter superare un esame che lo vedesse come esaminatore non siano state ritenute altrettanto importanti o interessanti, non dico da un docente che si trovi a vivere in Giappone, ma da un collega che abbia insegnato nella sua stessa facoltà. Si dirà, si devono raggiungere standard condivisi: comunque l'atto stesso della scelta degli standard condivisi presuppone una VALUTAZIONE e, come già detto, si tratta comunque di un momento in qualche misura arbitrario, per cui chi valuta deve essere a conoscenza che, in qualsiasi caso, l'atto della valutazione non può partire da presupposti oggettivi che appartengano al valutatre in sé. Poi, chi valuta sa o dovrebbe sapere che esistono delle distorsioni valutative a cui il valutatore può essere soggetto che si possono affrontare e limitare ma che è molto, molto difficile evitare del tutto; anche per queste cause è impossibile produrre valutazioni del tutto oggettive.
In secondo luogo chi parla di merito, come spesso inteso, scambia l'atto della misurazione con quello della valutazione (la misurazione è uno degli strumenti della valutazione, ma non è valutazione); in particolare il problema della valutazione del merito è che per sussistere davvero dovrebbe tenere in conto delle condizioni sociali di partenza del valutato, e perciò il valutatore dovrebbe essere in grado di distinguere tra uguaglianza (legale), principio molto amato dai neoliberisti, ed equità. In soldoni: ho due torri di blocchi di lego di altezza diversa, una di 4 blocchi e l'altra di 2; ad entrambe le torri aggiungo 3 blocchi di lego, ovvero somministro la stessa formazione, poi misuro i risultati; il divario tra le due torri non sarà stato recuperato, per cui, all'apparenza, la torre in partenza più alta continuerà ad essere la migliore (meriterà di più); successivamente, nell'elargizione delle premialità la torre rimasta più alta sarà premiata per i suoi risultati, magari con un blocchetto in più, la seconda non riceverà premialità o addirittura, se non avrà raggiunto risultati "attesi", verrà punita (bocciatura, perdita delle borse di studio, perdita dei fondi...). Il risultato finale del processo è che il merito anziché aiutare chi abbisogna di più aiuto lo fa regredire nella sua condizione.
Chi parla di merito asserisce che la scuola abbia abbassato i propri obiettivi formativi ed educativi, non solo non mirando all'equità, ma neanche all'eguaglianza. In sostanza, per i ciritici della scuola, anziché ripianare la differenza fra le due torri dell'esempio precedente, oggi la scuola toglie alla torre più alta portandola all'altezza di quella più bassa. Riprova ne sarebbero i risultati degli studenti italiani nelle prove standardizzate internazionali e l'analfabetismo funzionale. Tuttavia si può affermare che gli obiettivi della scuola sono cambiati di ordine e profondità: fino agli anni 90 la scuola era pressoché esclusivamente contenutistica e fortemente classista, mentre oggi cerca di formare competenze in maniera interclassista. Inoltre il dato sull'analfabesimo funzionale si misura sugli adulti, ovvero coloro che vengono dalla scuola "che funzionava", ed è sui frutti di quella scuola lì che abbiamo il dato di analfabetismo funzionale fra i più alti d'Europa. Al contrario della vulgata poi, i dati sugli esiti della scuola, per intenderci i risultati OCSE PISA, non registrano peggioramenti nelle competenze di base dei nostri studenti da che partecipiamo a quelle misurazioni, semmai denotano che non riusciamo a migliorare malgrado gli sforzi. Ma ritornare alla scuola "del merito", per i motivi già detti, non porterebbe a miglioramenti, anzi.
In ultima istanza, quali sono le conseguenze pratiche a scuola della confusione sul merito? Una è stata quella a cui abbiamo assistito alla fine dell'anno scolastico appena trascorso, condotto in larga parte in maniera emergenziale: gli insegnanti e i funzionari del "merito" erano riconoscibilissimi, erano quelli che pressavano per poter dare l'insufficienza al ragazzino che non aveva seguito le lezioni perché non aveva connessione internet a casa...
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