I Persiani di Eschilo - il vincitore e la simpatia per i vinti
I Persiani, di Eschilo, è la più antica opera teatrale che conosciamo. Non ne conosciamo bene la genesi, né sappiamo in che modo e se fosse collegata in una trilogia; il tema dominante dell'opera sta nella storia recente della città di Atene e dei suoi ben più potenti viicini Persiani, ovvero l'incredibile vittoria greca nella Seconda guerra persiana, in particolare il clamoroso successo dell'intuito ateniese nella battaglia marittima di Salamina. Preannunciato da un inquietante sogno della regina Atossa, giunge il nunzio che porta la notizia della sconfitta persiana, con una dettagliata disamina dell'andamento della battaglia e con l'elenco delle importanti perdite fra i Persiani. Tuttavia ciò che più sconvolge la regina madre è l'idea del Grande re Serse ricoperto da vestiti in brandelli e sporco del sangue dei propri compagni caduti, da solo, in fuga verso la madre patria. Appare quindi lo spettro del padre di Serse, Dario, che spiega al coro le ragioni della sconfitta: è stata la tracotanza di Serse a causare il disastro, avendo questi addirittura osato incatenare il mare con il suo famigerato ponte di navi sul Bosforo pur di far passare il suo immane esercito da un continente, l'Asia, ad un altro, l'Europa, sfidando così la stessa volontà divina. La tragedia così si conclude con il ritorno di Serse, lacero nelle sue vesti, che si unisce nel pianto al coro.
Già solo alla lettura della trama risulta evidente come il tema della tragedia sia l'inevitabile sconfitta di chi oserà tentare di sfidare gli dei, nel caso specifico cercando di unire e dominare, due continenti, che gli dei hanno voluto divisi e diversi. Ma se il tema è questo, un altro dato appare chiaro approcciando il testo: Eschilo, pur riconoscendo la colpa di Serse, non può non guardare alla disfatta dei Persiani non provando pietà per la loro sofferenza. La focalizzazione dell'opera è sempre sul punto di vista persiano, sono i persiani a piangere i propri caduti, a riconoscere la grandezza dei propri avversari, ad attendere trepidanti notizie sul proprio re, a disperarsi per la potenza disfatta. Emerge così in Eschilo una capacità di compartecipazione alle disgrazie altrui assolutamente unica e inedita nella letteratura mondiale: l'autore prova pietà per la sciagura di coloro che solo otto anni prima della messa in scena della tragedia avevano tentato di invadere la Grecia. Eschilo non è un traditore, anzi, avendo egli stesso combattutto i Persiani a Maratona diciotto anni prima, e nondimeno non può non sapere che alla vittoria degli uni, al giubilo, corrispondono pena, disgrazia e sofferneze per gli altri; Eschilo sa che solo il fato può stabilire la ripartizione delle pene e delle gioie, e che nella condizione dei Persiani avrebbero potuto trovarsi gli Ateniesi, o potranno trovarvisi un giorno. In questa simpatia, ovvero compartecipazione alla sofferenza, che Eschilo mostra verso i propri avversari stanno tutta la grandezza e l'unicità dell'opera, capaci di trascendere le incertezze e gli arcaismi dei primi tentativi della tragedia greca.
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