Sono un migrante economico
Sono un migrante economico
Ecco, l’ho detto, in modo che mi possiate disprezzare come meglio credete.
Perché i migranti economici non sono mica solo quelli che vengono dall’Africa.
Si va via dalla propria terra anche per percorrere viaggi molto più brevi, per fortuna.
Migrante economico era mio padre, che si trasferì a Torino e venne accolto dalle insegne “Qui non si accettano cani e terroni”.
Lo è mia moglie, che per non dover sottostare alle leggi clientelari della mia terra, è partita pur tra troppi sacrifici.
Lo è mio fratello, lo è sua moglie.
Lo è mia cognata e lo è il suo compagno.
Lo è il mio testimone di nozze, lo è la sua compagna.
Io ho lasciato la mia Sicilia: l’ho lasciata perché, giunto alla laurea, ho dovuto riconoscere che quanto sentivo dire dagli altri italiani sulla mia terra era in troppa parte vero. Che c’era un sistema mafioso e clientelare, anche all’Università, che bisognava aspettare il proprio turno e ringraziare se ti facevano lavorare gratis e in nero. Ho lasciato la Sicilia perché non ho voluto cercare raccomandazioni, e questa è forse la mia unica e vera fonte di orgoglio (certo, non solo mia).
Ma essere un migrante economico vuol dire doversi sentire dire, da una direttrice di specializzazione che di Istruzione non sapeva nulla, che non poteva essere sicura che la mia preparazione fosse pari a quella dei suoi allievi parmigiani, essendomi laureato in Sicilia, per cui il mio esame sarebbe stato più duro (peccato che ai test d’ingresso avessi brillantemente superato tutti i suoi allievi, assieme alla mia fidanzata dell’epoca, e fossi entrato alla Scuola di Specializzazione come terzo in graduatoria per la classe di concorso che dovrebbe portare all’insegnamento del Latino e del Greco antico).
Essere un migrante economico vuol dire che, giunto al tuo primo posto di lavoro al Nord Italia, il dirigente ti dice che vuole gente venuta su per lavorare davvero e non per mettersi in malattia (peccato che in quello che era annoverato tra i dieci migliori licei classici d’Italia il tasso d’assenteismo fosse molto più alto tra i nativi che tra gli insegnanti venuti dal Meridione).
Essere un migrante economico vuol dire ad un certo punto fallire: a me è capitato, quando un esaurimento nervoso mi ha portato a non accettare più supplenze da pochi giorni in quel di Torino, vivendo in un Bed and Breakfast di schifezze precotte e percorrendo la città in cerca di una lavanderia a gettoni.
A quel punto sono tornato a casa, convinto di non ripartire più, ma dopo che un anno e mezzo di call center mi ha prosciugato portafogli e anima, ho deciso di non fare più ritorno in Sicilia. Da allora mi sento di aver regolato i conti con la mia terra e no, non la rimpiango né mi sento in debito con chi mi ha tolto anche solo per breve tempo la dignità.
Essere un migrante economico vuol dire dover spendere tutto il tuo stipendio per poter stare con tuo padre morente, scontrandoti con un sistema sanitario vergognoso, dei servizi inesistenti, l’incuranza di molti (e ringraziando l’umana pietà di pochi, costretti a doversi sporcare nella richiesta di favori a destra e a manca pur di aiutarti).
Oggi sono ancora un migrante economico: da qualche parte sono stato accolto come a casa, da qualche parte come un ospite. E se sei un ospite devi stare muto e accettare che le cose vadano anche in maniere che non ti piacciono.
Peccato che io non mi sento ospite, e apolide nell’anima, sono cittadino ovunque, e ovunque rivendico il diritto alla felicità come realizzazione dell’uomo. Ovunque rivendico il mio diritto a partecipare alla vita politica e sociale, ad esprimere idee e a criticare, ad integrarmi senza dovermi sentire un peso. Perché se io ho dovuto fare i conti con i pregi e i difetti della mia terra, anche gli altri devono essere in grado di farlo.
Quando vi allargate la bocca parlando di migranti economici, pensate che uno di loro potrebbe essere il vostro vicino di casa, il ragazzo seduto accanto a voi al cinema, il postino (lui è probabile proprio), il cameriere, la commessa, l’insegnante dei vostri figli, la badante dei vostri genitori.
Quando parlate dei migranti economici, e lo fate per sentito dire o per slogan politici, ve lo dico col cuore, sciacquatevi la bocca col cloroformio.
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