Essere radical chic ed esserne fieri



È la condanna di chiunque voti sinistra: prima o poi arriverà il fenomeno di turno e, se non siete un operaio metalmeccanico, vi dirà che siete dei radical chic (o, quasi come fossero sinonimi, un hipster). Prima o poi ci si passa, dà un certo fastidio, almeno fino a che non ci si rende conto che il nostro interlocutore, spessp, non sa di cosa parla.

Cosa sia radical chic è lungo da raccontare (ed è una bella storia sullo slittamento semantico, su come l'italiano medio non capisca una ceppa di inglese e su come i giornalisti di destra, a partire da Indro Montanelli, conoscano e capiscano veramente poco della storia della sinistra), per cui rimanderò all'ottima spiegazione di Luca Sofri su Il Post, intitolata Cosa sono i radical chic?

Perché tirare fuori questa questione lessicale? Perché dietro la scelta di definire chi fa politica o vota politiche di sinistra con questa definizione (e dietro lo slittamento semantico a cui accennavo) si nasconde una buona dose di malafede e di ignoranza. Si guardi ai casi di Pierluigi Bersani, Giuliano Pisapia, Tomaso Montanari e Gianni Cuperlo: in misura diversa tutte queste figure politiche che caratterizzano la sinistra italiana dal PD in poi vengono accusate a punto di essere dei radical chic, ovvero di essere persone dal reddito più o meno elevato che predicano idee di sinistra senza applicarle davvero, magari solo per moda o, peggio, per tornaconto personale. Con buona pace per il fatto che, in inglese, non sono le persone ad essere radical chic, bensì le idee.

Perché questo modo di appellare gli uomini di sinistra è particolarmente scorretto? Perché è delegittimante e fondato su preconcetti. Parliamo per esempio di Giuliano Pisapia e di Pierluigi Bersani, mettendo in ordine le accuse tipicamente mosse dalla destra ai radical chic. Hanno questi due personaggi in qualche modo predicato le loro idee senza mai metterle in atto, quindi per moda o per tornaconto personale? Pierluigi Bersani è nato da famiglia di artigiani, è stato da giovane (finché il tempo a disposizione e la condizione fisica l'hanno concesso) volontario, tanto da essere uno dei soccorritori durante l'alluvione di Firenze, si è laureato con lode in filosofia (e forse è questa la sua principale colpa, ci torneremo); da uomo politico, come governatore dell'Emilia Romagna, ha tentato di mettere in campo politiche di sinistra fondate sulla crescita del welfare e su una moderata ridistribuzione del reddito. Giuliano Pisapia nasce da famiglia benestante, tanto da rilevare lo studio legale del padre; anch'egli fa volontariato da giovane, mentre coltiva la militanza politica, frequenta il liceo classico Berchet di Milano per poi laurearsi due volte, in giurisprudenza e in scienze politiche; la sua carriera poi si dirama tra la pubblicistica, il giornalismo e la carriera come avvocato penalista, per cui si occupa anche di casi clamorosi, come quello di Carlo Giuliani o di Ocalan; da politico raggiunge l'apice della sua fama come sindaco di Milano, caratterizzata, durante il suo governo, dall'apertura sulle tematiche di ordine civile e dalla spinta all'integrazione dei migranti di diverse etnie residenti in città. Cosa accomuna queste figure? Cosa li accomuna, per esempio, a Gianni Cuperlo o a Tomaso Montanari o al defunto Stefano Rodotà? Tutti questi uomini di sinistra, accusati di essere radical chic, in realtà sono tali agli occhi della destra, non perché ricchi, ma perché intellettuali. 
Basterebbe un'analisi un minimo oggettiva per accorgersi di come Pisapia, Bersani, Cuperlo, Montanari, Rodotà etc., nell'occasione di farlo, si sono spesi per il bene comune ed in particolare per quello dei ceti meno abbienti, facendo anzi di propria mano quanto gente come Feltri, Belpietro, Sallusti, Santanché, Grillo, Salvini e compagnia cantante, i paladini della destra popolare, non solo non hanno mai fatto ma non hanno neanche mai concepito di fare. E questo a prescindere dai redditi dichiarati e dai beni ereditati dalle famiglie.

E allora perché la definizione radical chic appiccicata a questi politici (e a chi li vota) riscuote tanto successo? Perché si accompagna ad un convinto moto anti intellettualistico che caratterizza la società italiana da almeno gli anni '80. È dai tempi del Drive In, dell'esplosione della TV privata e della mortificazione della cultura alta che questo processo è in atto, e colpa della sinistra al governo è stato non accorgersene o non fare abbastanza al riguardo, fino a creare nell'opinione pubblica la diffusa sensazione, non solo dell'inutilità, ma dell'ipocrisia o della pericolosità dell'intellettuale. Intellettuale pensato come un ricco e tronfio essere fuori dal mondo, perso nell'idealismo crociano o in un marxismo polveroso (avete presente Fusaro? Avete presente perché fa tanto comodo alla destra culturale la sua sovraesposizione ?), distaccato dalla realtà, anzi intento a sfruttare la sua posizione per il proprio interesse e contro la maggioranza silenziosa e sofferente. L'intellettuale insomma come il manzoniano Azzeccagarbugli. Non per niente ad essere accusati di essere radical chic sono soprattutto giuristi, docenti, artisti (di qualsiasi ordine e grado), su cui si sommano diversi strati di pregiudizi (ingarbugliate le leggi contro il popolo con il vostro latinorum, avete tre mesi di ferie, la giustizia al soldo dei più ricchi, lavorate solo diciotto ore, non fate realmente ricerca, non volete essere valutati, non volete la separazione delle carriere, parlate tanto ma non pagate le tasse...), ovvero categorie sociali che, a torto o a ragione, vengono considerate avverse alla destra. Ulteriore paradosso è come questa definizione trovi successo e piede anche fra i docenti, in questo caso divisi tra docenti universitari e ricercatori, docenti in ruolo o precari, sempre al di là dei reali redditi o delle reali tendenze e scelte politiche. A questi stereotipi si accompagna poi l'idea che per essere di sinistra occorra per forza provenire da ceti sociali meno abbienti, anche se storicamente dal socialismo utopico in poi questa affermazione non è mai stata vera e da sempre le classi dirigenti della migliore sinistra sono state l'integrazione fra forze dei ceti popolari e dei ceti alti riformisti. La definizione radical chic fa quindi comodo a chi, da destra (e qui si considera destra, come si sa, anche il grillismo), vuole escludere dalla scena politica la figura dell'intellettuale.

Per tutte queste ragioni, quando sentirete (o vi sentirete dire) durante un dibattito che siete o votate dei radical chic, tenete ben presente che, ad andar bene, chi vi sta appellando non sa che dice, ad andar male sta cercando di farvi fuori politicamente perché non vi capisce o vi teme. In ogni caso, prendetela come un'investitura.

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