De Saussure, Wittgenstein: dalla linguistica alla logica linguistica

Da De Saussure in poi chiunque studi le questioni della lingua ha dovuto riconoscere come ogni linguaggio funzioni con meccanismi ben più complessi rispetto a quelli che normalmente siamo in grado di ammettere.
Il ginevrino ci informa infatti di come ogni linguaggio si fondi sul complesso rapporto tra langue e parole, ovvero tra tutte le scelte sintattiche, stilistiche, di registro e lessicali che lo strumento ci permette (langue) e la concreta ed individuale realizzazione personale (parole).


Ancora di più la questione viene complicata dal rapporto circolare che si instaura tra significante (il segno materiale che noi adoperiamo per veicolare un significato), il significato (l'idea che ciascuno di noi possiede e che intende veicolare attraverso il segno materiale) e il contesto che modella le idee del mittente e del destinatario. Praticamente, quando noi adoperiamo la parola "albero", indichiamo un referente concreto (l'albero che esiste o non esiste nella realtà), ma facciamo riferimento all'idea che come individui abbiamo di cosa sia un albero (significato) e veicoliamo questa idea attraverso dei fonemi (a-l-b-e-r-o) o dei morfemi.



Questo rapporto triangolare costituisce il segno linguistico, cioè lo strumento che, con Jakobson, permette il funzionamento della comunicazione, ovvero di veicolare un messaggio da un mittente ad un destinatario attraverso un canale in comune e adoperando un codice in comune.

Ne consegue che l'uso di ogni parola è convenzionale e arbitrario, pur seguendo di rado l'arbitrio del singolo parlante (nel caso dei grandi creatori di significato, come poeti, scrittori, filosofi e pubblicisti), dipendendo dal rapporto individuale (a livello della parole) tra significato, cioè l'idea mentale posseduta dal parlante, e significante, cioè qualsiasi strumento noi adoperiamo per veicolare il significato.

In questo contesto di teorizzazione prettamente linguistica entra a buon diritto il ragionamento, di carattere logico-filosofico di Wittgenstein. Per il filosofo il rapporto tra linguaggio e logica è un rapporto di inclusione: la nostra conoscenza si realizza infatti in termini logici attraverso l'interpretazione dei fatti (ovvero delle interconnessioni tra elementi della realtà) ma si esprime in termini linguistici. Secondo questo modello tutto il dicibile è pensabile, così come l'indicibile, mentre non sempre il pensabile risulta dicibile e, in ultimo, l'impensabile è sempre indicibile. Attenendoci poi al confine tra dicibile e indicibile, possiamo definire dicibile tutto ciò che risulta parlabile, ovvero tutto ciò che risulta verificabile attraverso la polarità vero/falso; risulta di conseguenza indicibile tutto ciò che non risulti parlabile. La logica quindi trova come confine il non pensabile e il non dicibile, tanto che Wittgenstein poteva dire che è sempre meglio tacere su tutto ciò che non si può parlare.


Per Wittgenstein però, le parole che adoperiamo, oltre che essere arbitrarie e convenzionali, non fanno direttamente riferimento alla realtà, che noi conosciamo attraverso il pensiero logico: semmai le parole fanno riferimento alle relazioni che ciascuno di noi fa intercorrere tra gli enti della realtà che conosce attraverso il pensiero logico. Di questo meccanismo abbiamo una prova pratica quando cerchiamo di definire dei concetti astratti, come per esempio quello di "vendetta". Per definire il concetto di "vendetta" infatti dovremmo  porre la parola in riferimento alle parole afferenti allo stesso campo semantico, quindi per esempio alla parola "giustizia", alla parola "ingiustizia", alla parola "violenza", etc.


Ne consegue che il rapporto tra realtà linguaggio è fortemente filtrato dalle relazioni che siamo in grado di istituire tra gli elementi di cui attraverso il pensiero logico possiamo parlare. Questa relazione è biunivoca: non solo nomineremo le cose a causa delle relazioni (tanto che, come dirà David Foster Wallace, per stabilire se in una scopa sia più importante il manico o la spazzola occorre prima sapere come adoperi la scopa), ma inizieremo a percepire la realtà in base al linguaggio che abbiamo sviluppato e che è lo strumento attraverso cui esprimiamo il pensiero logico. Questo è il motivo per cui, da un lato, gli eschimesi possiedono centinaia di parole per nominare la neve, ma dall'altro lato sono in grado di percepire le diverse varianti della neve perché il loro linguaggio gli fornisce gli strumenti per farlo.

In conclusione, possiamo affermare che il linguaggio risponde a delle caratteristiche: possiede una funzione sociale che lo rende convenzionale, ma è al contempo individuale, momentaneo e arbitrario. Il linguaggio inoltre è lo strumento che adoperiamo per veicolare messaggi, sapendo però che tali messaggi non veicolano la realtà ma la percezione che di essa abbiamo, percezione che si è essa stessa formata attraverso il linguaggio. Quest'ultimo passaggio ci conduce ad un'ulteriore e fondamentale riflessione: occorre tenere distinti realtà fattuale e linguaggio che la interpreta (la mappa di Kubilai Khan è cosa diversa dal suo vasto impero, per quanto quella mappa possa essere redatta a grandezza naturale), e proprio per questo occorre diffidare da chi adopera parole in maniera stentorea e assoluta, facendosi portavoce di interpretazioni assolutistiche che sono, semplicemente, irrealizzabili attraverso il pensiero logico.


Bibliografia
Italo Calvino, Le città invisibili, "Supercoralli" e "Nuovi coralli" n. 182, Einaudi, 1972, pp. 170 pp.

Ferdinand de Saussure, Corso di linguistica generale, ed. Laterza, Roma-Bari, 1992

David Foster Wallace, La scopa del sistema, traduzione di Sergio Claudio Perroni, Stile libero BIG, Torino, Einaudi, 2008, XIV - 558

Roman Jakobson, Saggi di linguistica generale, a cura di Luigi Heilmann, Feltrinelli, Milano 1966

Ludwig Wittgenstein, Tractatus Logico-Philosophicus, traduzione note e introduzione di G.C.M. Colombo S.J., Fratelli Bocca editori, Roma-Milano, 1954



Commenti

Post popolari in questo blog

La sessualità nell'antichità

Alessandro Baricco, Castelli di rabbia

Saggio breve: D'Annunzio, una vita per la bellezza