Di cosa parliamo quando parliamo di integrazione



Spesso e volentieri sui media nazionali e locali si parla di integrazione, tuttavia nell'usare questo termine si fa molta confusione, confondendo modelli di riferimento. Persino nel lessico il pressapochismo è d'obbligo, sicché quando nel lessico giornalistico e politico si usa il termine integrazione, nella gran parte dei casi questo viene adoperato al posto del meno frequente ma più preciso termine assimilazione.
Intendiamo con il termine integrazione il «processo in cui gli immigrati diventano membri di pari diritti e opportunità, in base alla disponibilità da parte della maggioranza degli individui che compongono la collettività a coordinare regolarmente ed efficacemente le proprie azioni con quelle degli altri individui a diversi livelli della struttura sociale, facendo registrare un grado relativamente basso di conflitto» [Gallino 2006].
Volendo fare un po' di chiarezza, occorre prima delineare quali sono stati i modelli di integrazione prevalenti nel corso degli ultimi anni, le differenze d'approccio, e cosa concretamente avviene in Italia.
Una prima distinzione che possiamo fare è data dall'idea che muove i modelli di integrazione. Quando nel Novecento si è voluto parlare di questo argomento, almeno fino agli anni '60 l'idea che stava dietro i diversi modelli era di stampo universalistico: sostanzialmente si è ritenuto che tutti gli uomini, simili tra di loro malgrado le differenze, dovessero naturalmente tendere all'unità e a delle caratteristiche comuni.

Il primo modello di riferimento è stato quello del Melting Pot, caratteristico dell'Australia e degli USA. Secondo questo modello, universalistico, le diverse etnie e i diversi credi, naturalmente e senza intervento statale, convivendo assieme in un medesimo territorio avrebbero teso all'omologazione. Di fatto però questo modello, utopistico, ha portato alla ghettizzazione di quei gruppi etnici che hanno rifiutato l'omologazione che, anziché essere avvenuta attraverso una ridefinizione della cultura del territorio, ha teso verso l'assimilazione alla cultura della maggioranza o dell'etnia più ricca.

Il secondo modello è stato, a punto, quello dell'assimilazione. Tipico della cultura francese, ha avuto come presupposto la superiorità della cultura ricevente nei confronti delle culture dei migranti che, naturalmente,avrebbero dovuto assimilarsi alla cultura più sviluppata e che garantiva loro diritti e opportunità assenti nei paesi d'origine. Anche questo modello, persino nelle sue evoluzioni che hanno via via spostato il peso dell'assimilazione sulle seconde e terze generazioni, ha ancora una volta causato la ghettizzazione di coloro i quali non riconoscono la superiorità della cultura dominante, sfociando, come nel primo modello, in azioni di rivolta anche violenta.

Il terzo modello di riferimento è quello funzionalista, tipico della Germania: il migrante non si integra da un punto di vista culturale, è semmai visto come un ospite temporaneo a cui viene offerto una sorta di patto: la permanenza sul territorio svolgendo alcuni tipi di lavori e mestieri non graditi alla popolazione locale, in cambio di alcuni diritti. Finita la necessità della permanenza, il migrante, non integrato, dovrà allontanarsi dal territorio.

Il quarto modello, detto multiculturale, caratteristico dei paesi scandinavi e della Gran Bretagna è invece partito da una prospettiva relativista. In questo caso culture dei migranti e culture autoctone sono messe sullo stesso piano e inscatolate, quasi immodificabili, su base etnica. Secondo questo principio di fatto nessuna delle culture che vengono in contatto è tenuta a cambiare in qualche maniera, ragion per cui il modello multiculturale, su basi diverse, ha di fatto favorito la formazione di quartieri ghetto o comunque differenziati su base etnica e religiosa.

L'ultimo modello, forse quello più promettente, è quello interculturale o anche detto umanistico-partecipativo. In questo caso si presuppone che sia le culture riceventi che quelle dei migranti non siano entità immutabili nel tempo e nello spazio. In ragione di ciò la società che integra i nuovi venuti è una società in cui in ogni momento i valori condivisi sono frutto di contrattazione fra le diverse anime culturali, etniche, religiose, nella consapevolezza che non esiste una cultura ontologicamente superiore alle altre che possa pretendere in assoluto l'assimilazione ai propri valori e ai propri modi di vivere. Questo modello, fondato sull'osservazione che le migrazioni non sono fatti casuali ma strutturali nel corso dei secoli e che, in una sorta di globalizzazione dal basso, i flussi migratori, pur controllabili, non sono arginabili, prevede la reciproca volontà di integrazione, non prevedendo l'onere solo per i migranti (come per i primi modelli), o per la comunità accogliente (come per il modello multiculturale). In questa prospettiva l'integrazione è «un processo multidimensionale finalizzato alla pacifica convivenza entro una determinata realtà sociale tra individui e gruppi culturalmente ed etnicamente differenti, fondato sul rispetto delle diversità a condizione che queste non mettano in pericolo i diritti umani fondamentali e le istituzioni democratiche» [Cesareo 2004]

È evidente come quest'ultimo modello, in prevalenza teorico e con poche evidenze pratiche, tenti di superare i modelli precedenti, ognuno a suo modo fallimentari. È altresì evidente come una politica di controllo dei flussi migratori, proposta da alcune parti politiche, sia strumento limitato nel processo di integrazione, se non accompagnato da un modello che spieghi chi fa che cosa e perché nell'atto dell'integrazione culturale.

In ultimo, un cenno all'Italia: leggendo le righe precedenti una cosa è lampante, come il nostro paese non segua ad oggi nessun modello di integrazione, agendo sostanzialmente a caso, mettendo toppe senza particolare attenzione ad una politica di lungo periodo.

Bibliografia e sitografia

https://www.youtube.com/watch?v=eAzfC5Ov6SM
https://www.youtube.com/watch?v=1shMgb2mJ0s
https://www.youtube.com/watch?v=SpwVNH1K3gE
Carbone T, (2007), L'integrazione come pratica sociale: un'etnografia delle seconde generazioni a Modena, Università degli studi di Verona.
Cesareo V.(2004)(a cura di), L’Altro. Identità, dialogo e conflitto nella società plurale, Milano, Vita e Pensiero
Gallino L.(2006), Dizionario di sociologia, UTET,Torino

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