Post-verità e postmodernismo
E così si parla tanto, ma proprio tanto, di post-verità. Questa discussione porta con sé una premessa, d'obbligo, che certifica che una bella fetta di intellighentia italiana si era illusa di aver capito cosa stava accadendo nel mondo, non capendoci invece nulla. Diciamo che, malgrado quello che si è detto più o meno a sproposito, siamo ancora belli immersi nel postmodernismo. E uno dei postulati del postmodernismo, riprendendo Nietzche, è che non esistono i fatti, ma solo le interpretazioni. Tutto il moderno discorso sullo storytelling della realtà si fonda su questo postulato, e i più avvertiti pubblicisti e comunicatori da decenni fondano la loro fortuna su questa sensazione diffusa.
Per carità, di interpretazioni della realtà a proprio uso e consumo la storia è piena, a partire dalle letture funzionali dei testamenti di Cesare e Marco Antonio. Prima ancora, nel 1275 a. C., dopo la battaglia di Qadesh in cui si scontrarono, i sovrani Ittiti ed Egizi potevano reclamare la vittoria per eccitare i propri sudditi. Ma quella che era una strategia adoperata apparentemente in maniera impressionistica, oggi diviene regola negli atti comunicativi di alcuni politici o esperti di media. È ormai abbastanza acclarato come intorno al M5S e alla Lega girino una serie di siti che manipolano delle notizie, o adoperando opportunamente immagini che non c'entrino nulla ma che possano colpire di più, o tramite omissioni o variazioni impercettibili nelle traduzioni, fino alla vera e propria invenzione di fatti. Sono strategie comunicative che in Italia ha largamente adoperato Silvio Berlusconi (Ruby docet e i suoi indimenticabili "sono stato frainteso"); Bush, Colin Powell e Blair si inventarono di sana pianta le armi di distruzione di massa in Iraq, ma ebbero la decenza di tentare di rendere credibile la manipolazione. Nulla di nuovo eh, lo stesso abbiamo fatto noi proprio in commemorazione delle vittime delle Foibe, quando per decenni abbiamo spacciato le foto degli infoibati croati e sloveni come foto di vittime italiane.
Trump tuttavia porta al parossismo la tecnica, sbattendoti in faccia la manipolazione, parlando apertamente di "fatti alternativi", sfidando l'intelligenza altrui, consapevole che di fronte alla sua sicurezza le certezze dell'analfabeta funzionale vacilleranno. E così davanti all'evidenza delle foto e dei parallelismi fra il suo insediamento e quello di Obama, parla di fatti alternativi, o Kellyanne Conway, per sostenere l'esigenza del bando degli immigrati, può tranquillamente citare per tre volte un attentato terroristico che non c'è mai stato (come del resto i nostri pentastellati hanno adoperato in Parlamento immagini di un film horror russo per accusare l'Ucraina di genocidio).
Tutto ciò dimostra che quel ritorno al fatto, alla realtà, al realismo, intravisto da intellettuali come Eco e Ferraris, è lungi dall'essere un risultato acquisito, anzi. Oggi i populismi si avvalgono delle strategie comunicative che, per paradosso, sono state figlie e frutto ad un tempo della società che più intimamente si è legata alla globalizzazione. La post-verità prolifera in rete, trova diffusione capillare mentre diffonde idee di stampo nazionalistico, protezionistico, quando non dichiaratamente xenofobo. Le destre estreme mentre si chiudono nei confronti dell'altro, adoperano le strategie comunicative di distruzione di inossidabili certezze che sono state l'arma della cultura del sospetto. Un pastiche culturale che, al contrario di quanto fino ad ora teorizzato, è intimamente connesso alla seconda metà del Novecento, alla faccia del secolo breve.
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