Qiundi i Veneti sarebbero minoranza etnica, ovvero della riscrittura dell'identità fondata su falsi storici e su metodi fascisti
Quindi i Veneti, cioè gli abitanti del Veneto (che, ricordiamolo, non coincide affatto con i confini del Veneto attuale, ma vallo a spiegare a Zaia e Maroni) sarebbero minoranza etnica da tutelare, a partire dalla lingua veneta. Almeno questo è quello che crede e ha votato la giunta regionale del veneto, approvando la legge regionale 116/2016.
Una maggioranza di 27 fini linguisti, evidentemente, che sono riusciti dove ha fallito la linguistica nel corso dei decenni. Infatti il dibattito su cosa sia realmente la lingua veneta è ancora aperto: tutto sta nel trovare una definizione per lingua e dialetto.
Se consideriamo le mere condizioni politiche, una lingua è tale finché è considerata ufficialmente lingua di uno stato, altrimenti ne diviene dialetto (e questo è stato lo status del veneto fino ad oggi) a meno che non sia riconosciuta la forte componente identitaria di quella favella; tuttavia quest'identificazione nella parlata non è sufficiente per definirla lingua, dato che occorrono delle regole grammaticali codificate, una tradizione di testi scritti, e soprattutto, la produttività linguistica, ovvero la capacità di produrre nuove parole e regole grammaticali per adattare il linguaggio al presente. Venendo meno anche solo uno di questi casi, correttamente si dovrebbe parlare di dialetto.
Nel caso del Veneto, all'annessione di questi territori nel 1866, sul dialetto della Serenissima Repubblica di Venezia (che era già annoverata come dialetto nell'Impero Austro Ungarico) si sovrappone la lingua italiana appena codificata dalla commissione presieduta niente meno che da Alessandro Manzoni (e fondata su una tradizione un attimino più ricca e importante, senza nulla togliere al grande apporto dato da autori come Goldoni e Ruzzante alla cultura italiana).
Ora la Regione Veneto, facendo appello alla Convenzione del 1997 con cui l'UE tutela le minoranze linguistiche, legifera sul riconoscimento della lingua veneta che, ad onor del vero, nel 1976 veniva definita tale dall'UNESCO. Con una serie di problemi: proprio perché improduttivo, il dialetto veneto, sebbene tutt'ora molto parlato e compreso dai dialettofoni regionali, è improduttivo, tanto che per nominare un qualsiasi aggeggio nato negli ultimi due decenni ha bisogno di avvalersi di parole della lingua italiana pronunciate alla veneta. Inoltre, sempre essendo rigorosi, non esiste alcuna codificazione della grammatica della lingua, del resto frastagliata in una miriade di dialetti locali con uno prevalete per ragioni storiche, il veneziano. Ma se a prevalere sono le ragioni storiche ed identitarie su quelle linguistiche, per paradosso, perché Veronesi e Padovani dovrebbero accettare il veneziano come lingua regionale, malgrado il passato prestigioso della loro storia comunale prima ancora della Serenissima e della sua espansione? Se parliamo invece di ragioni linguistiche, di che diamine di lingua stiamo parlando? Del veneto del 1976? E negli ultimi 40 anni cosa è successo? Perché i dati sulle competenze linguistiche nella comprensione della lingua italiana che, con i testi INVALSI, premiano (meritatamente?) il Veneto vengono citati (a sproposito) quando conviene millantare la buona amministrazione della regione, e vengono dimenticati quando si vuole affermare il veneto come presunta lingua madre dei giovani indigeni?
Le ragioni politiche di questa forzatura sono evidenti: la Regione Veneto, nella persona del suo presidente Zaia, sta cercando in tutti i modi di assecondare le spinte indipendentiste, forte dell'ondata populista che attraversa l'Europa. La partita si gioca proprio sul piano della formazione e dell'identità, passando attraverso la riscrittura del Risorgimento, epoca in cui i veneti, quando hanno potuto, hanno aderito pacificamente all'annessione (lo dimostrano l'assenza di qualsiasi forma di resistenza, come è stato invece il brigantaggio meridioanale, e la partecipazione di massa alle guerre garibaldine di numerosi volontari provenienti da queste terre), continuando con i silenzi sui fondi travasati dai piani per il Mezzogiorno verso il Veneto dagli anni '50 agli anni '90 (a partire dal Piano Marshall), concludendo con il paradosso dei paradossi, ovvero il riferirsi ad una Convenzione dell'UE, che non riconosce affatto la lingua veneta come tale, e che è nata per tutelare le minoranze etniche, Rom, Sinthi etc, che più sono vittima proprio in Veneto.
Non regge il paragone con il Sud Tirolo: è evidente a chiunque abbia studiato almeno due pagine di storia contemporanea come le modalità dell'annessione del Trentino e delle regioni tedescofone siano state del tutto diverse, come è evidente la mancanza di onestà intellettuale di chi millanta fantomatici regni del Bengodi sotto la dominazione austriaca, quando il Veneto era invece soggetto alla più alta tassazione dell'Impero e quando i parlanti veneto erano soggetti, lì sì davvero, a persecuzioni e discriminazioni. Né ha alcun fondamento la giustificazione tante volte sentita dagli indipendentisti veneti, allorché sostengono che mai la Serenissima ha dato il suo consenso all'annessione al Regno d'Italia. È evidente come una simile evenienza non abbia avuto luogo in primis perché la Serenissima non esisteva più già dal trattato di Campoformio del 1797, la svendita di Napoleone agli Austriaci, ben 69 anni prima dell'annessione all'Italia.
Insomma, in Veneto si assiste oggi ad un tentativo di ridefinizione etnica su base nazionalista, razzista e populista, fondata su una serie di falsi storici e culturali, sul disprezzo per il dibattito scientifico (emblematiche le posizioni dell'assessore Donazzan sulla presunta teoria gender). Atti legislativi che verranno plausibilmente cassati dalla Corte Costituzionale ma che, intanto e nel futuro, meritano una reazione di disobbedienza civile, lì dove si vorrebbe imporre la riscrittura della storia e della cultura della nazione, anche limitando sempre più la libertà d'insegnamento con iniziative unilaterali e lontane da reali ragioni pedagogiche, come la settimana dello sport imposta a tutte le scuole, che per i suoi connotati potrebbe benissimo chiamarsi settimana Balilla.
Una maggioranza di 27 fini linguisti, evidentemente, che sono riusciti dove ha fallito la linguistica nel corso dei decenni. Infatti il dibattito su cosa sia realmente la lingua veneta è ancora aperto: tutto sta nel trovare una definizione per lingua e dialetto.
Se consideriamo le mere condizioni politiche, una lingua è tale finché è considerata ufficialmente lingua di uno stato, altrimenti ne diviene dialetto (e questo è stato lo status del veneto fino ad oggi) a meno che non sia riconosciuta la forte componente identitaria di quella favella; tuttavia quest'identificazione nella parlata non è sufficiente per definirla lingua, dato che occorrono delle regole grammaticali codificate, una tradizione di testi scritti, e soprattutto, la produttività linguistica, ovvero la capacità di produrre nuove parole e regole grammaticali per adattare il linguaggio al presente. Venendo meno anche solo uno di questi casi, correttamente si dovrebbe parlare di dialetto.
Nel caso del Veneto, all'annessione di questi territori nel 1866, sul dialetto della Serenissima Repubblica di Venezia (che era già annoverata come dialetto nell'Impero Austro Ungarico) si sovrappone la lingua italiana appena codificata dalla commissione presieduta niente meno che da Alessandro Manzoni (e fondata su una tradizione un attimino più ricca e importante, senza nulla togliere al grande apporto dato da autori come Goldoni e Ruzzante alla cultura italiana).
Ora la Regione Veneto, facendo appello alla Convenzione del 1997 con cui l'UE tutela le minoranze linguistiche, legifera sul riconoscimento della lingua veneta che, ad onor del vero, nel 1976 veniva definita tale dall'UNESCO. Con una serie di problemi: proprio perché improduttivo, il dialetto veneto, sebbene tutt'ora molto parlato e compreso dai dialettofoni regionali, è improduttivo, tanto che per nominare un qualsiasi aggeggio nato negli ultimi due decenni ha bisogno di avvalersi di parole della lingua italiana pronunciate alla veneta. Inoltre, sempre essendo rigorosi, non esiste alcuna codificazione della grammatica della lingua, del resto frastagliata in una miriade di dialetti locali con uno prevalete per ragioni storiche, il veneziano. Ma se a prevalere sono le ragioni storiche ed identitarie su quelle linguistiche, per paradosso, perché Veronesi e Padovani dovrebbero accettare il veneziano come lingua regionale, malgrado il passato prestigioso della loro storia comunale prima ancora della Serenissima e della sua espansione? Se parliamo invece di ragioni linguistiche, di che diamine di lingua stiamo parlando? Del veneto del 1976? E negli ultimi 40 anni cosa è successo? Perché i dati sulle competenze linguistiche nella comprensione della lingua italiana che, con i testi INVALSI, premiano (meritatamente?) il Veneto vengono citati (a sproposito) quando conviene millantare la buona amministrazione della regione, e vengono dimenticati quando si vuole affermare il veneto come presunta lingua madre dei giovani indigeni?
Le ragioni politiche di questa forzatura sono evidenti: la Regione Veneto, nella persona del suo presidente Zaia, sta cercando in tutti i modi di assecondare le spinte indipendentiste, forte dell'ondata populista che attraversa l'Europa. La partita si gioca proprio sul piano della formazione e dell'identità, passando attraverso la riscrittura del Risorgimento, epoca in cui i veneti, quando hanno potuto, hanno aderito pacificamente all'annessione (lo dimostrano l'assenza di qualsiasi forma di resistenza, come è stato invece il brigantaggio meridioanale, e la partecipazione di massa alle guerre garibaldine di numerosi volontari provenienti da queste terre), continuando con i silenzi sui fondi travasati dai piani per il Mezzogiorno verso il Veneto dagli anni '50 agli anni '90 (a partire dal Piano Marshall), concludendo con il paradosso dei paradossi, ovvero il riferirsi ad una Convenzione dell'UE, che non riconosce affatto la lingua veneta come tale, e che è nata per tutelare le minoranze etniche, Rom, Sinthi etc, che più sono vittima proprio in Veneto.
Non regge il paragone con il Sud Tirolo: è evidente a chiunque abbia studiato almeno due pagine di storia contemporanea come le modalità dell'annessione del Trentino e delle regioni tedescofone siano state del tutto diverse, come è evidente la mancanza di onestà intellettuale di chi millanta fantomatici regni del Bengodi sotto la dominazione austriaca, quando il Veneto era invece soggetto alla più alta tassazione dell'Impero e quando i parlanti veneto erano soggetti, lì sì davvero, a persecuzioni e discriminazioni. Né ha alcun fondamento la giustificazione tante volte sentita dagli indipendentisti veneti, allorché sostengono che mai la Serenissima ha dato il suo consenso all'annessione al Regno d'Italia. È evidente come una simile evenienza non abbia avuto luogo in primis perché la Serenissima non esisteva più già dal trattato di Campoformio del 1797, la svendita di Napoleone agli Austriaci, ben 69 anni prima dell'annessione all'Italia.
Insomma, in Veneto si assiste oggi ad un tentativo di ridefinizione etnica su base nazionalista, razzista e populista, fondata su una serie di falsi storici e culturali, sul disprezzo per il dibattito scientifico (emblematiche le posizioni dell'assessore Donazzan sulla presunta teoria gender). Atti legislativi che verranno plausibilmente cassati dalla Corte Costituzionale ma che, intanto e nel futuro, meritano una reazione di disobbedienza civile, lì dove si vorrebbe imporre la riscrittura della storia e della cultura della nazione, anche limitando sempre più la libertà d'insegnamento con iniziative unilaterali e lontane da reali ragioni pedagogiche, come la settimana dello sport imposta a tutte le scuole, che per i suoi connotati potrebbe benissimo chiamarsi settimana Balilla.
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