Sulle polemiche sul DDL Cirinnà: famiglia naturale, morale e diritto
Va per prima cosa precisato che il Disegno Di Legge attualmente in discussione giunge al Senato dopo non breve discussione, anzi, si può ragionevolmente affermare che il dibattito su tale questione si prolunga ormai da anni, tanto che il nostro paese è, ad oggi, in Europa uno fra i pochi a non aver previsto alcuna norma al riguardo. Da questo punto di vista, comunque la si pensi sui diritti e i doveri dei partner che si trovino nelle condizioni sopra elencate, il bisogno di una legge è evidente.
Occorre ora spiegare perché, riguardo a questo provvedimento, la discussione sia tanto accesa.
Apparentemente l'opinione pubblica, incarnatasi in differenti manifestazioni di piazza, pro o contro il provvedimento, si è spaccata riguardo a due differenti questioni: l'equiparabilità tra unioni civili, in particolar modo di quelle tra omosessuali, e matrimonio eterosessuale, e la liceità della stepchild adoption. Sull'ultimo punto, in particolare, la discussione ha assunto toni altamente ideologizzati.
In sostanza, i detrattori del DDL sostengono, riguardo al primo punto, che l'idea di una famiglia omosessuale sia un non senso, se non addirittura un abominio antropologico, in favore di una famiglia monogamica eterosessuale, alternativamente definita naturale o tradizionale: chi sostiene questa posizione arriva addirittra ad ipotizzare che, stabilito il principio della liceità delle unioni dello stesso sesso, i passi successivi saranno i matrimoni con minorenni (pedofilia), con animali (zoofilia) o con oggetti. L'adozione del figlio di uno dei due contraenti viene poi criticata sostenendo che questa norma sia a danno del minore e che apra le porte alla pratica dell'utero in affitto, oggi vietato in Italia.
Leggendo il DDL, tuttavia, appare chiaro l'intento del provvedimento, sancito sin dalla sua premessa, ovvero la volontà di normare una condizione di fatto già esistente, nell'interesse dei contraenti più deboli all'interno de nucleo familiare di fatto, oltre che dei minori. Infatti: “L’unione civile definisce il rapporto tra da due persone maggiorenni, anche dello stesso sesso, che vogliano organizzare la loro vita in comune. La disciplina [...], intende fornire ai cittadini che scelgano forme non tradizionali di convivenza la necessaria tutela delle relative situazioni giuridiche soggettive, evitando così ogni forma di discriminazione ai loro danni. È infatti necessario dare un riconoscimento giuridico a una realtà così rilevante socialmente da non poter più essere ignorata dalla legge, evitando che la tutela di diritti fondamentali della persona sia lasciata all’alea di interpretazioni più o meno «evolutive», come se diritti e libertà dipendessero da concessioni giurisdizionali e non invece da riconoscimento di legge. La disciplina della pluralità delle forme della convivenza rappresenta infatti l’attuazione del dovere dello Stato di tutelare la libertà di realizzazione della persona nei suoi rapporti con gli altri (articolo 2 della Costituzione), non potendosi imporre la rigida alternativa tra il vincolo (sacramentale o legale) del matrimonio e l’assoluta irrilevanza giuridica delle forme di vita associata che da tale modello prescindano (grassetti miei) (soluzione obbligata, questa, per chi, come gli omosessuali, non possa sposarsi). In questo senso, il riconoscimento di forme plurali di convivenza, anziché violare, rafforza piuttosto il principio di cui all’articolo 29 della Costituzione”. Successivamente il concetto viene spiegato in maniera ancora più chiara: “Alla estensione dei diritti riconosciuti ai contraenti le unioni civili, corrisponde una parallela regolamentazione dei loro doveri e oneri. Ciò potrà garantire la necessaria tutela non soltanto ai figli, ma anche al contraente economicamente più debole nel caso di cessazione dell’unione civile, l’affidamento dei terzi in ordine alla situazione patrimoniale della coppia, la trasparenza dello stato giuridico delle parti.”
Occorre già da questo punto ricordare il principio che sottintende il diritto in ogni comunità: il diritto infatti non è espressione della morale individuale dei cittadini, frutto di ideologie, esperienze o credi religiosi. Il diritto non può e soprattutto non deve fornire risposta ad una domanda di bello morale (“questo comportamento è lecito perché bello, questo non è lecito perché è brutto”), bensì deve essere puntuale espressione dell'utile per la comunità (“questo comportamento è lecito nella misura in cui non nuoce al resto della comunità o risulta persino utile al resto della comunità”). Se questo è il principio del vivere comune, esso ci spiega come si possa essere passati dalla società della faida alla società del diritto codificato: se può apparire moralmente bello vendicare un delitto o un torto con lo stesso strumento con cui lo si è subito, ciò non sempre può risultare utile, come nell'esempio classico della serie di omicidi per vendetta (la faida che ancora caratterizza i clan mafiosi) che possono trovare una fine solo con l'intervento del diritto e la presa in custodia, da parte di terzi, dei colpevoli, per assicurare il ritorno alla pace nella comunità e la fine della sequenza omicidio-vendetta-omicidio-vendetta.
Il diritto, quindi, non segue l'insegnamento di questa o quella morale, comprese quelle religiose, ma solo ed esclusivamente l'utile per la comunità.
Partendo da questo presupposto, appare sempre più chiaro come il DDL debba perseguire l'utile per dei membri della comunità, utile limitato dalla possibilità di nuocere a terzi. Si corre questo rischio? Leggiamo: “Art. 1. (Unione civile) 1. Due persone maggiorenni, anche dello stesso sesso, di seguito denominate «parti dell’unione civile», possono contrarre tra loro un’unione civile per organizzare la loro vita in comune. 2. La registrazione dell’unione civile è effettuata, su istanza delle parti della stessa unione, e in presenza di due testimoni maggiorenni, dai soggetti di cui all’articolo 3.
Art. 5. (Cause impeditive della certificazione dello stato di unione civile) 1. Sono cause impeditive alla certificazione dello stato di unione civile di cui all’articolo 4: a) la sussistenza di un vincolo matrimoniale in atto, ivi compresa l’ipotesi in cui i coniugi siano separati; b) la sussistenza del vincolo derivante da un’altra unione civile; c) la minore età di una o di entrambe le parti dell’unione civile, salvi i casi di autorizzazione del tribunale ai sensi dell’articolo 84 del codice civile; d) l’interdizione di una o di entrambe le parti dell’unione civile, per infermità di mente. Se l’istanza di interdizione è stata soltanto promossa, la certificazione dello stato di unione civile non può avere luogo finché la sentenza sull’istanza non sia passata in giudicato; e) la sussistenza delle ipotesi di cui ai commi primo, secondo e terzo dell’articolo 87 del codice civile. Il divieto di cui ai numeri 3) e 5) del primo comma dell’articolo 87 non opera nel caso in cui le parti dell’unione civile siano dello stesso sesso. Si applicano i commi quarto, quinto e sesto dell’articolo 87 del codice civile, nel caso in cui le parti dell’unione civile siano di sesso diverso; f) l’ipotesi di delitto di cui all’articolo 88 del codice civile. Se nei confronti di una o di entrambe le parti dell’unione civile ha avuto luogo soltanto rinvio a giudizio ovvero sottoposizione a misura cautelare per il delitto di cui all’articolo 88 del codice civile, la procedura per la certificazione dello stato di unione civile è sospesa sino a quando non è pronunziata sentenza di proscioglimento.”
Leggendo le cause impedienti l'unione civile scopriamo che, ogni qualvolta la suddetta unione potrebbe configurare dolo nei confronti di terzi (o di uno dei contraenti), l'unione viene impedita. Tra l'altro, viene anche smentita l'accusa in genere mossa alle unioni civili tra omosessuali, secondo cui aprirebbero la strada ad unioni “ancor più” aberranti. Questa è di per sé una fallacia logica, detta “Terreno sdrucciolevole” (Sostenere che se avviene l’ipotesi A, allora di conseguenza accadrà anche l’ipotesi Z: quindi l’ipotesi A non deve verificarsi. Con questo meccanismo non si discute della bontà dell’ipotesi A ma si sposta la conversazione su una sua conseguenza estrema e soprattutto ipotetica. Es. “Colin dice che se consentiamo i matrimoni tra persone dello stesso sesso, allora successivamente permetteremo ai figli di sposare i propri genitori, o la propria automobile o addirittura una scimmia.” http://www.ilpost.it/2014/01/03/lista-fallacie-logiche/).
Ancor di più: a smentire questa ipotesi è la stessa condizione giuridica che prevede la consapevolezza dei contraenti unione civile e, come è noto, né i minori né animali o cose possiedono questa condizione giuridica fondamentale per contrarre qualsiasi tipo di contratto o vincolo.
Rigurdo all'equiparazione alla famiglia, il DDL propone: “Art. 11. (Equiparazione dello stato di parte dell’unione civile) 1. Lo stato di parte dell’unione civile è titolo equiparato a quello di membro di una famiglia ai sensi e per gli effetti della legge 24 dicembre 1954, n. 1228. Art. 12. (Criteri di estensione dei diritti del nucleo familiare all’unione civile) 1. All’unione civile sono estesi, secondo criteri di parità di trattamento, i diritti spettanti al nucleo familiare nei casi previsti dagli articoli 13 e seguenti, nonché in ogni rapporto con la pubblica amministrazione funzionale al conseguimento di prestazioni, benefici o comunque provvedimenti ampliativi o autorizzatori rilasciati in ragione dello stato di coniugio.”
Questa equiparazione si spiega proprio con il principio spiegato prima, ovvero l'utilità di normare la questione a difesa dei contraenti più deboli. Infatti: “Art. 15. (Assistenza sanitaria e penitenziaria) 1. Alle parti dell’unione civile sono estesi tutti i diritti e doveri spettanti al coniuge relativi all’assistenza sanitaria e penitenziaria”.
“Art. 18. (Regime patrimoniale dell’unione civile) 1. Con convenzione stipulata per atto pubblico le parti dell’unione civile devono scegliere all’atto della registrazione il regime patrimoniale. Tale regime può essere modificato in qualunque momento nel corso dell’unione civile con atto stipulato nella medesima forma. 2. Nel caso che, per qualsiasi ragione, si ometta di stipulare l’atto pubblico di cui al comma 1, si presume scelto il regime di comunione legale.”
“Art. 21. (Diritti di successione fra le parti dell’unione civile) 1. La condizione di parte dell’unione civile è in tutto equiparata a quella di coniuge per quanto riguarda i diritti e i doveri dei legittimari e quelli derivanti dalla successione legittima. 2. Nel libro secondo del codice civile, ogni disposizione relativa al «coniuge» o ai «coniugi» si intende riferita anche alla parte dell’unione civile o alle parti dell’unione civile. 3. Nell’ipotesi in cui una delle parti dell’unione civile succeda all’altra per causa di morte, a titolo universale o a titolo particolare, la sua posizione fiscale è equiparata a quella del coniuge. Art. 22. (Risarcimento del danno causato dal fatto illecito da cui è derivata la morte di una delle parti dell’unione civile) 1. In caso di decesso di una delle parti dell’unione civile derivante da fatto illecito, il giudice, su richiesta dell’altra parte, può porre a carico degli eredi cui è stato liquidato il risarcimento del danno un assegno periodico o in un’unica soluzione a favore del richiedente, il cui importo è stabilito in relazione all’entità del risarcimento, alla durata dell’unione civile e ai bisogni del beneficiario.”
Viene così stabilito, per esempio, che, a differenza di quanto accade ancora oggi, nel caso uno dei due contraenti necessiti di assistenza sanitaria e non sia in grado di esprimere la sua volontà, sia il partner a poter decidere per lui: oggi infatti, scavalcando ogni logica di buon senso, il partner convivente in questi casi non ha voce in capitolo, spettando ogni decisione ai parenti naturali. Accade così che, anche nel caso di relazioni decennali, accompagnate magari da rapporti travagliati con le famiglie di origine, siano in queste situazioni proprio queste ultime a dover decidere sulle cure mediche, anziché chi ha, magari, accompagnato e patito assieme lungo il corso delle sofferenze di una malattia.
Allo stesso modo il DDL propone che, in caso di morte di uno dei due partner, il partner sopravvissuto goda dei diritti di successione o di risarcimento nel caso di morte avvenuta per dolo.
Malgrado i fini di questa proposta siano evidentemente volti alla tutela del legame fra i contraenti dell'unione (si badi bene, omosessuale o eterosessuale che sia), i critici del DDL affermano che non sia lecito trattare le unioni tra omosessuali alla stregua di famiglie, naturalmente, si dice, formate da uomini e donne. Dal punto di vista giuridico, intanto, la Costituzione dice: “ART. 29. «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio.
Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare».
Ovvero, la famiglia, intesa come forma organizzativa preesistente il diritto e da riscontrare sul terreno della realtà di fatto, è il nucleo fondante della società. Tuttavia, la Costituzione non pone vincoli sul sesso dei partner che decidono di mettere su famiglia. Da ciò emerge come non ci siano vincoli costituzionali che impediscano la formazione di famiglie omosessuali e omogenitoriali.
Sempre riguardo al concetto di famiglia, è spiacevole notare come gli interventi che si sono susseguiti siano avvenuti all'insegna dello scarso approfondimento scientifico. In particolare, riguardo alla diatriba sul concetto di famiglia naturale, mi piace citare Vincenzo Parato in un suo lungo articolo (che, per chiarezza, riporterò quasi per intero), il quale ha chiaramente sintetizzato una mole non indifferente di studi antropologici:
Ovviamente non si legge da nessuna parte alcunché che sembri legalizzare l'utero in affitto. Ancora una volta invece occorre rimarcare come la norma riguardi tutti i tipi di unioni civili, ovvero anche quelle tra eterosessuali, e normi circostanze già esistenti. Si guardi per esempio al caso di quei contraenti che, avendo già un figlio, decidono di convivere con qualcuno (per esempio perché il padre naturale del figlio ha deciso di non proseguire con la relazione in atto o è morto) e non possono o non vogliono contrarre matrimonio: il bambino, oggi, cresce e viene educato in questa famiglia di fatto non normata, quindi, attenzione, il partner del genitore naturale non ha, oggi, nei confronti del bambino alcun diritto né alcun dovere. Nel caso in cui il genitore naturale dovesse morire il bambino si troverebbe in una condizione di preoccupante vuoto giuridico, perché oggi nessuna norma vincola colui o colei che l'ha cresciuto ed educato assieme al partner a continuare a prendersene cura. È quindi chiaro come questa norma si ponga a difesa del minore, in quanto elemento più debole all'interno della famiglia.
I detrattori della norma tuttavia sostengono che, così facendo, si porrà in essere la legittimazione di fatto della pratica dell'utero in affitto. Va rilevato come, se questa fosse la vera causa delle critiche al DDL, basterebbe aggiungere un comma al DDL che vieti l'adozione o l'affido del bambino figlio naturale di uno dei due contraenti unione all'altro partner, se questo bambino fosse frutto della suddetta pratica. Purtroppo invece, per motivazioni ideologiche (la presunta immoralità dell'allevamento di figli da parte di coppie omosessuali) si preferisce lasciare in un limbo normativo i bambini che già oggi si trovano in famiglie di fatto. - EDIT La buona Elena Maria Fabrizio mi fa notare l'importante intervento del tribunale di Milano (http://www.articolo29.it/2014/surrogazione-di-maternita-unimportante-sentenza-del-tribunale-di-milano/) in merito allo status del bambino, secondo le leggi vigenti, nato dalla pratica dell'utero in affitto attuata all'estero. Il tribunale ha giustamente notato come la genitorialità non deriva ipso facto dalla questione biologica, ma derivi piuttosto dall'assunzione di responsabilità nei confronti del minore. Per tale ragione sarebbe ovviamente incostituzionale (oltre che lesivo nei confronti dei diritti umani) un comma che prevedesse la discriminazione nei confronti dei bambini nati da tale pratica. Di fatti la proposta sopra riportata si configura come una dimostrazione per assurdo: infatti, aggiungendo un simile comma si risolverebbe la questione della legalità della condizione di questi bambini, legittimando la loro discriminazione; non provvedendo all'implementazione di un simile comma tuttavia, e procedendo piuttosto, come proposto dai detrattori del DDL, con il normare la condizione de bambini già esistenti all'interno delle coppie di fatto, si perpetua comunque una discriminazione che si è volutamente ignorata. Essendo tutte e due le opzioni di fatto discriminanti, ne consegue logicamente che la premessa che le implica è, per forza di cose, errata.
Riguardo poi i danni alla psiche dei bambini cresciuti all'interno di nuclei familiari omogenitoriali, un ricco apparato di studi scientifici dimostra l'infondatezza di questa accusa (si vedano per esempio gli studi del dipartimento di psicologia e di studi di genere della facoltà di Cambridge). EDIT 2: Per completezza riguardo alla posizione più diffusa tra gli psicologi riguardo questa questione, mi sento in dovere di riportare il comunicato stampa dell'Associazione italiana di Psicologia.
Infine, occorre ribadire come la pratica dell'utero in affitto rimanga vietata per legge nel nostro paese e come, incrociando i dati provenienti dai paesi in cui essa è ammessa, la maggiorparte delle coppie che ricorre a questa pratica sia eterosessuale. Dalle analisi infatti si desume che il ricorso a questa pratica è da mettere in relazione alla difficoltà burocratica di ottenere l'adozione o l'affido di minori; va inoltre tenuto conto dell'alto costo di questa pratica. Se si vuole evitare quindi di favorire questa pratica, appare lungimirante snellire leggi e pratiche per l'affidamento e l'adozione di bambini, per via legale, a coppie etero e omosessuali.
Alla luce di quanto detto fino ad ora, emerge come questa accusa sia infine pretestuosa e tenda a nascondere i reali termini del confronto.
Rigurdo all'equiparazione alla famiglia, il DDL propone: “Art. 11. (Equiparazione dello stato di parte dell’unione civile) 1. Lo stato di parte dell’unione civile è titolo equiparato a quello di membro di una famiglia ai sensi e per gli effetti della legge 24 dicembre 1954, n. 1228. Art. 12. (Criteri di estensione dei diritti del nucleo familiare all’unione civile) 1. All’unione civile sono estesi, secondo criteri di parità di trattamento, i diritti spettanti al nucleo familiare nei casi previsti dagli articoli 13 e seguenti, nonché in ogni rapporto con la pubblica amministrazione funzionale al conseguimento di prestazioni, benefici o comunque provvedimenti ampliativi o autorizzatori rilasciati in ragione dello stato di coniugio.”
Questa equiparazione si spiega proprio con il principio spiegato prima, ovvero l'utilità di normare la questione a difesa dei contraenti più deboli. Infatti: “Art. 15. (Assistenza sanitaria e penitenziaria) 1. Alle parti dell’unione civile sono estesi tutti i diritti e doveri spettanti al coniuge relativi all’assistenza sanitaria e penitenziaria”.
“Art. 18. (Regime patrimoniale dell’unione civile) 1. Con convenzione stipulata per atto pubblico le parti dell’unione civile devono scegliere all’atto della registrazione il regime patrimoniale. Tale regime può essere modificato in qualunque momento nel corso dell’unione civile con atto stipulato nella medesima forma. 2. Nel caso che, per qualsiasi ragione, si ometta di stipulare l’atto pubblico di cui al comma 1, si presume scelto il regime di comunione legale.”
“Art. 21. (Diritti di successione fra le parti dell’unione civile) 1. La condizione di parte dell’unione civile è in tutto equiparata a quella di coniuge per quanto riguarda i diritti e i doveri dei legittimari e quelli derivanti dalla successione legittima. 2. Nel libro secondo del codice civile, ogni disposizione relativa al «coniuge» o ai «coniugi» si intende riferita anche alla parte dell’unione civile o alle parti dell’unione civile. 3. Nell’ipotesi in cui una delle parti dell’unione civile succeda all’altra per causa di morte, a titolo universale o a titolo particolare, la sua posizione fiscale è equiparata a quella del coniuge. Art. 22. (Risarcimento del danno causato dal fatto illecito da cui è derivata la morte di una delle parti dell’unione civile) 1. In caso di decesso di una delle parti dell’unione civile derivante da fatto illecito, il giudice, su richiesta dell’altra parte, può porre a carico degli eredi cui è stato liquidato il risarcimento del danno un assegno periodico o in un’unica soluzione a favore del richiedente, il cui importo è stabilito in relazione all’entità del risarcimento, alla durata dell’unione civile e ai bisogni del beneficiario.”
Viene così stabilito, per esempio, che, a differenza di quanto accade ancora oggi, nel caso uno dei due contraenti necessiti di assistenza sanitaria e non sia in grado di esprimere la sua volontà, sia il partner a poter decidere per lui: oggi infatti, scavalcando ogni logica di buon senso, il partner convivente in questi casi non ha voce in capitolo, spettando ogni decisione ai parenti naturali. Accade così che, anche nel caso di relazioni decennali, accompagnate magari da rapporti travagliati con le famiglie di origine, siano in queste situazioni proprio queste ultime a dover decidere sulle cure mediche, anziché chi ha, magari, accompagnato e patito assieme lungo il corso delle sofferenze di una malattia.
Allo stesso modo il DDL propone che, in caso di morte di uno dei due partner, il partner sopravvissuto goda dei diritti di successione o di risarcimento nel caso di morte avvenuta per dolo.
Malgrado i fini di questa proposta siano evidentemente volti alla tutela del legame fra i contraenti dell'unione (si badi bene, omosessuale o eterosessuale che sia), i critici del DDL affermano che non sia lecito trattare le unioni tra omosessuali alla stregua di famiglie, naturalmente, si dice, formate da uomini e donne. Dal punto di vista giuridico, intanto, la Costituzione dice: “ART. 29. «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio.
Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare».
Ovvero, la famiglia, intesa come forma organizzativa preesistente il diritto e da riscontrare sul terreno della realtà di fatto, è il nucleo fondante della società. Tuttavia, la Costituzione non pone vincoli sul sesso dei partner che decidono di mettere su famiglia. Da ciò emerge come non ci siano vincoli costituzionali che impediscano la formazione di famiglie omosessuali e omogenitoriali.
Sempre riguardo al concetto di famiglia, è spiacevole notare come gli interventi che si sono susseguiti siano avvenuti all'insegna dello scarso approfondimento scientifico. In particolare, riguardo alla diatriba sul concetto di famiglia naturale, mi piace citare Vincenzo Parato in un suo lungo articolo (che, per chiarezza, riporterò quasi per intero), il quale ha chiaramente sintetizzato una mole non indifferente di studi antropologici:
Come ha scritto l’antropologo Marshall Sahlins in un libro molto bello (La parentela: cos’è e cosa non è, Eleuthera 2014), «[…] contro questo sedimentato sensocomune – l’evidenza della procreazione – dobbiamo sforzarci di capire che le categorie di parentela non sono rappresentazioni o metafore delle relazioni di nascita; piuttosto, è la nascita a essere una metafora delle nostre relazioni di parentela».Veniamo così alla cosiddetta stepchild adoption, che viene poi normata con i seguenti articoli (si noti come l'anglicismo non sia, per fortuna, se non nella propaganda dei detrattori della norma): “Art. 14. (Diritti dei figli e concorso all’adozione o all’affidamento) 1. I figli delle parti dell’unione civile, nati in costanza dell’unione civile, o che si presumano concepiti in costanza di essa secondo i criteri di cui all’articolo 232 del codice civile, hanno i medesimi diritti spettanti ai figli nati in costanza di matrimonio. 2. Le parti dell’unione civile possono chiedere l’adozione o l’affidamento di minori ai sensi delle leggi vigenti, a parità di condizioni con le coppie di coniugi. 3. In caso di separazione delle parti dell’unione civile, si applicano con riguardo ai figli le disposizioni dettate dall’articolo 155 del codice civile.”
In altre parole: nessuno mette in discussione che per procreare ci vuole l’unione di un uomo e di una donna. E’ un fatto biologico. Ma è altrettanto evidente che la famiglia, l’insieme di persone che partecipano intimamente gli uni delle vite degli altri, è una costruzione sociale culturalmente significativa che include, certo, le determinazioni biologiche, ma si estende molto al di là della biologia, fino al punto in cui le relazioni «extra nascita”, non biologiche, diventano preponderanti rispetto a quelle di procreazione.
In altre parole ancora, la parentela è un sistema simbolico che avvolge, nasconde in molti casi, e riveste di senso il dato biologico, conferendogli l’apparenza di «fatto naturale». Per questo sono così tenaci le nozioni del senso comune relative ai parenti, alla famiglia, al «sangue» e così via. La letteratura antropologica dimostra ampiamente che si tratta di varianti locali – non universali – di formazioni culturali e norme sociali che risolvono il grande problema di assegnare un individuo al momento della nascita a un gruppo, che si prenderà cura di lei/lui, gli/le conferirà diritti e doveri, lo sosterrà in caso di necessità, ecc. ecc.
Soprattutto, sarà il gruppo che gli/le fornirà sostegno al momento del matrimonio, cioè quando il nostro individuo (maschio o femmina) si unirà a un altro individuo secondo le procedure e le norme sociali appropriate.
In tutte le società umane, infatti, il matrimonio è un’istituzione sociale finalizzata a disciplinare secondo il modello culturale la riproduzione e l’assegnazione dei figli a un gruppo piuttosto che a un altro. Che si tratti di una costruzione sociale, tra l’altro, lo dimostra la grande flessibilità che caratterizza l’unione matrimoniale, e che consente per quanto possibile di porre rimedio a eventuali «scherzi» della natura garantendo la finalità riproduttiva: fra gli Igbo della Nigeria, in caso di sterilità del marito, una donna è autorizzata a avere rapporti sessuali con un altro uomo, e i figli procreati saranno legalmente figli del primo (il padre sociale) e non del secondo (il padre biologico). Fra i Nuer del Sudan, come ha documentato il grande antropologo inglese Evans-Pritchard (I Nuer. Un’anarchia ordinata, 1948), è documentato ilmatrimonio con il fantasma, per cui, qualora un uomo muoia senza figli oppure prima di sposarsi, un fratello o un cugino può sposarsi con una donna in nome del defunto in modo che i figli siano legalmente figli del defunto. Sempre fra i Nuer, esiste il matrimonio fra donne (privo di connotazioni omosessuali): una donna sterile può contrarre matrimonio con un’altra donna, sceglierle un amante e i figli nati da questa unione saranno figli socialmente riconosciuti della donna-marito, membri del gruppo di quest’ultima. Ci sono anche i fratelli della madre chiamati «madri maschi» (Radcliffe-Brown) e le donne agiate Lovedu che cedono il loro bestiame per acquistare «mogli» e diventare così «padri» dei loro figli. Ancora, i Karembola del Madagascar considerano fratelli e sorelle la stessa cosa, e un uomo può così rivendicare la maternità di un bambino. Come gli uomini possono essere madri, le donne possono essere padri. Niente è impossibile nella parentela della procreazione.
Le innumerevoli concezioni culturali della procreazione – tutti «sensi comuni» locali – infatti esprimono idee altamente differenziate del ruolo di genitore e di genitrice. La letteratura attesta per esempio casi di misconoscimento parziale: nelle società patrilineari, in cui cioè ai fini della discendenza conta solo la linea maschile, spesso il ruolo della madre è assai svalutato o non riconosciuto. All’opposto, nelle società matrilineari, in cui cioè ai fini della discendenza conta solo la linea femminile, si rileva l’indifferenza verso il contributo maschileal concepimento (è celebre l’ignoranza del ruolo del padre nelle isole Trobiand attestata dal grande etnografo polacco Bronislaw Malinowski). Ma sono documentati anche casi limite dell’esclusione di entrambi.
Sono infatti molteplici le persone che si possono incarnare in un neonato, inclusi gli antenati del clan o del villaggio, mentre può capitare che la madre naturale venga esclusa. Nonostante sia parte integrante del senso comune che i legami di sangue sono naturali, la verità è che sono costruiti per convenzione.
La casistica sarebbe infinita. Riporto solo alcuni esempi tratti dalla letteratura etnografica. In Amazzonia, una nascita può anche non coinvolgere alcun tipo di parentela, se quello che la donna porta in grembo è il figlio di un animale (spirito / animale). I Kamea della Nuova Guinea ignorano le connessioni fra i nati e chi li ha concepiti. Fra gli Inuit della Groenlandia, quando un bambino è chiamato con il nome del nonno materno, inizia a chiamare figlia la madre che lo ha partorito, marito di mia figlia il padre e moglie la nonna.
Insomma, spessissimo la parentela per procreazione si rivela sostanzialmente uguale alla parentela creata socialmente. Un bell’esempio di questa uguaglianza è riportato da Sahlins nel libro citato sopra: per gli abitanti della Nebilyer Valley (in Nuova Guinea) la parentela è creata dalla trasmissione di kopong, «grasso», materia essenziale di tutti gli organismi viventi. Il kopong, trasmesso dallo sperma del padre e dal latte della madre, crea una relazione sostanziale fra il bambino e i suoi genitori biologici. Bene. Però, dato che il kopong si trova anche nelle patate e nel maiale, lo stesso risultato si può ottenere tramite la condivisione delle vivande. In questo modo, aggiungo un inciso interessante, un figlio o un nipote di stranieri immigrati può essere completamente integrato come parente.
C’è di più: le relazioni «biologiche» costruite simbolicamente a volte funzionano meglio di quelle «effettivamente» tali; per esempio, due fratelli germani possono essere più affiatati, vicini e solidali di due fratelli per nascita. E’ sufficiente per affermare che la parentela non discende dalla nascita in quanto tale.
Al di là dei legami biologici, reali o presunti, la parentela, questa partecipazione delle persone l’una all’esistenza dell’altra, si costruisce attraverso una grande varietà di modi, significativi. In moltissimi casi, la condivisione del cibo ha la potenzialità di creare parentela.
Sono tanti i fattori che contribuiscono alla creazione sociale e culturale di relazioni di parentela fuori dalla nascita. Oltre alla convivialità, contano moltissimo il vivere insieme, la condivisione di esperienze e di ricordi (la parentela è basata su un alto grado di vita fianco a fianco, giorno per giorno, e sullo scambio reciproco di atti di affetto), il lavorare insieme, l’adozione, l’amicizia, le sofferenze comuni (secondo gli Ilongot delle Filippine coloro che condividono una storia di migrazione, condividono un corpo), ecc. Le modalità sono pressoché infinite (legate a particolari logiche culturali di relazione), secondo il principio che se una relazione di parentela non esiste, la si crea. Sempre tra gli Inuit, ultimo esempio, i nati nello stesso giorno sono parenti e così alcuni individui, qualora i loro genitori in passato abbiano avuto una relazione sessuale.
Quindi, i legami di sangue hanno un valore solo se sono riconosciuti culturalmente, ma in questo diventano uguali in tutto e per tutto ai legami di vita, creati culturalmente.
Per quanto mi riguarda, è sufficiente per ribadire che una cosa come la «famiglia naturale» non esiste (grassetto mio n.d.S.)… A meno che non si vogliano rispolverare le vecchie teorie razziste e evoluzioniste secondo le quali quelle degli altri sono concezioni errate, superstizioni, bizzarrie, stranezze concettuali, ingenuità, scemenze mentre la verità sta dalla nostra parte.
Il resto lo lascio alle riflessioni, in un senso o nell’altro.
http://www.vincenzoparato.com/5/non-esiste-la-famiglia-naturale#more-5
Ovviamente non si legge da nessuna parte alcunché che sembri legalizzare l'utero in affitto. Ancora una volta invece occorre rimarcare come la norma riguardi tutti i tipi di unioni civili, ovvero anche quelle tra eterosessuali, e normi circostanze già esistenti. Si guardi per esempio al caso di quei contraenti che, avendo già un figlio, decidono di convivere con qualcuno (per esempio perché il padre naturale del figlio ha deciso di non proseguire con la relazione in atto o è morto) e non possono o non vogliono contrarre matrimonio: il bambino, oggi, cresce e viene educato in questa famiglia di fatto non normata, quindi, attenzione, il partner del genitore naturale non ha, oggi, nei confronti del bambino alcun diritto né alcun dovere. Nel caso in cui il genitore naturale dovesse morire il bambino si troverebbe in una condizione di preoccupante vuoto giuridico, perché oggi nessuna norma vincola colui o colei che l'ha cresciuto ed educato assieme al partner a continuare a prendersene cura. È quindi chiaro come questa norma si ponga a difesa del minore, in quanto elemento più debole all'interno della famiglia.
I detrattori della norma tuttavia sostengono che, così facendo, si porrà in essere la legittimazione di fatto della pratica dell'utero in affitto. Va rilevato come, se questa fosse la vera causa delle critiche al DDL, basterebbe aggiungere un comma al DDL che vieti l'adozione o l'affido del bambino figlio naturale di uno dei due contraenti unione all'altro partner, se questo bambino fosse frutto della suddetta pratica. Purtroppo invece, per motivazioni ideologiche (la presunta immoralità dell'allevamento di figli da parte di coppie omosessuali) si preferisce lasciare in un limbo normativo i bambini che già oggi si trovano in famiglie di fatto. - EDIT La buona Elena Maria Fabrizio mi fa notare l'importante intervento del tribunale di Milano (http://www.articolo29.it/2014/surrogazione-di-maternita-unimportante-sentenza-del-tribunale-di-milano/) in merito allo status del bambino, secondo le leggi vigenti, nato dalla pratica dell'utero in affitto attuata all'estero. Il tribunale ha giustamente notato come la genitorialità non deriva ipso facto dalla questione biologica, ma derivi piuttosto dall'assunzione di responsabilità nei confronti del minore. Per tale ragione sarebbe ovviamente incostituzionale (oltre che lesivo nei confronti dei diritti umani) un comma che prevedesse la discriminazione nei confronti dei bambini nati da tale pratica. Di fatti la proposta sopra riportata si configura come una dimostrazione per assurdo: infatti, aggiungendo un simile comma si risolverebbe la questione della legalità della condizione di questi bambini, legittimando la loro discriminazione; non provvedendo all'implementazione di un simile comma tuttavia, e procedendo piuttosto, come proposto dai detrattori del DDL, con il normare la condizione de bambini già esistenti all'interno delle coppie di fatto, si perpetua comunque una discriminazione che si è volutamente ignorata. Essendo tutte e due le opzioni di fatto discriminanti, ne consegue logicamente che la premessa che le implica è, per forza di cose, errata.
Riguardo poi i danni alla psiche dei bambini cresciuti all'interno di nuclei familiari omogenitoriali, un ricco apparato di studi scientifici dimostra l'infondatezza di questa accusa (si vedano per esempio gli studi del dipartimento di psicologia e di studi di genere della facoltà di Cambridge). EDIT 2: Per completezza riguardo alla posizione più diffusa tra gli psicologi riguardo questa questione, mi sento in dovere di riportare il comunicato stampa dell'Associazione italiana di Psicologia.
http://www.aipass.org/files/COMUNICATO_AIP_SULLE_DICHIARAZIONI_DEL_MINISTRO_LORENZIN_IN_TEMA_DI_ADOZIONI_0.pdfAssociazione Italiana di Psicologia
L’Associazione Italiana di Psicologia, che rappresenta gli psicologi che insegnano e svolgono attività scientifica nelle Università e negli enti di Ricerca, ritiene di dover intervenire in merito alle dichiarazioni rilasciate dal Ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, nel corso della trasmissione “Porta a porta” trasmessa su Rai 1 il 17 settembre 2014.
La Ministra Lorenzin, per giustificare la propria contrarietà all’adozione e al ricorso alla fecondazione eterologa per le coppie omosessuali ha dichiarato che “tutta la letteratura psichiatrica, da Freud in poi, riconosce l’importanza per il bambino di avere una figura paterna e materna per la formazione della propria personalità”.
Tali asserzioni sono prive di fondamento empirico e disconoscono quanto appurato dalla ricerca scientifica internazionale, a partire da studi avviati ormai quarant’anni fa. Sull’argomento le più rappresentative società scientifiche si sono espresse in modo inequivocabile.
Nel 2006, l’American Academy of Pediatrics ha dichiarato quanto segue: “I risultati delle ricerche dimostrano che bambini cresciuti da genitori dello stesso sesso si sviluppano come quelli cresciuti da genitori eterosessuali. Più di venticinque anni di ricerche documentano che non c’è una relazione tra l’orientamento sessuale dei genitori e qualsiasi tipo di misura dell’adattamento emotivo, psicosociale e comportamentale del bambino. Questi dati dimostrano che un bambino che cresce in una famiglia con uno o due genitori gay non corre alcun rischio specifico. Adulti coscienziosi e capaci di fornire cure, che siano uomini o donne, eterosessuali o omosessuali, possono essere ottimi genitori”.
Allo stesso modo, nel 2009, l’American Academy of Child and Adolescent Psychiatry ha concluso che “non vi è evidenza scientifica a sostegno della tesi secondo cui genitori con orientamento omo- o bisessuale siano di per sé diversi o carenti nella capacità di essere genitori, di saper cogliere i problemi dell’infanzia e di sviluppare attaccamenti genitore-figlio rispetto ai genitori con orientamento eterosessuale. Da tempo è stato stabilito che l’orientamento omosessuale non è in alcun modo correlato ad alcuna patologia, e non ci sono basi su cui presumere che l’orientamento omosessuale di un genitore possa aumentare le probabilità o indurre un orientamento omosessuale nel figlio. Studi sugli esiti educativi di figli cresciuti da genitori omo- o bisessuali, messi a confronto con quelli cresciuti da genitori eterosessuali, non depongono per un diverso grado d’instabilità nella relazione genitori-figli o rispetto ai disturbi evolutivi nei figli”.
Nel 2011 l’Associazione Italiana di Psicologia ha ricordato che “i risultati delle ricerche psicologiche hanno da tempo documentato come il benessere psicosociale dei membri dei gruppi familiari non sia tanto legato alla forma che il gruppo assume, quanto alla qualità dei processi e delle dinamiche relazionali che si attualizzano al suo interno. In altre parole, non sono né il numero né il genere dei genitori – adottivi o no che siano – a garantire di per sé le condizioni di sviluppo migliori per i bambini, bensì la loro capacità di assumere questi ruoli e le responsabilità educative che ne derivano. In particolare, la ricerca psicologica ha messo in evidenza che ciò che è importante per il benessere dei bambini è la qualità dell’ambiente familiare che i genitori forniscono loro, indipendentemente dal fatto che essi siano conviventi, separati, risposati, single, dello stesso sesso. I bambini hanno bisogno di adulti in grado di garantire loro cura e protezione, insegnare il senso del limite, favorire tanto l’esperienza dell’appartenenza quanto quella dell’autonomia, negoziare conflitti e divergenze, superare incertezze e paure, sviluppare competenze emotive e sociali”.
Su questi temi la comunità scientifica è unanime. L’Associazione Italiana di Psicologia ancora una volta invita i responsabili delle istituzioni politiche a tenere in considerazione i risultati che la ricerca scientifica ha prodotto e messo a disposizione della società e si facciano promotori del rispetto delle persone e della corretta divulgazione scientifica evitando di esprimere asserzioni infondate che hanno il solo risultato di rinforzare i pregiudizi e danneggiare le famiglie mono-genitoriali, le coppie omosessuali e soprattutto i loro bambini.
24 settembre 2014
Infine, occorre ribadire come la pratica dell'utero in affitto rimanga vietata per legge nel nostro paese e come, incrociando i dati provenienti dai paesi in cui essa è ammessa, la maggiorparte delle coppie che ricorre a questa pratica sia eterosessuale. Dalle analisi infatti si desume che il ricorso a questa pratica è da mettere in relazione alla difficoltà burocratica di ottenere l'adozione o l'affido di minori; va inoltre tenuto conto dell'alto costo di questa pratica. Se si vuole evitare quindi di favorire questa pratica, appare lungimirante snellire leggi e pratiche per l'affidamento e l'adozione di bambini, per via legale, a coppie etero e omosessuali.
Alla luce di quanto detto fino ad ora, emerge come questa accusa sia infine pretestuosa e tenda a nascondere i reali termini del confronto.
Dopo questa lunga analisi dovrebbe essere chiaro come le accuse rivolte al DDL Cirinnà abbiano una chiara matrice ideologica, traendo origine dai principi della morale e della religione cristiana, abbiano scarso fondamento scientifico e siano accompagnati da un ampio apparato retorico e ideologico, volto a nascondere i principi che stanno alla base del provvedimento e i suoi fini. L'aver ridotto il provvedimento ad un affare interno alle coppie omosessuali, snaturandone il contenuto, porta al disconoscimento del valore della questione per tutte quelle famiglie eterosessuali nate e cresciute in condizione di fatto e non di diritto – ma evidentemente di loro non occorre occuparsi, per chi critica questo DDL. Il tentativo di creare confusione si è avvalso di strategie già note, come l'uso di anglicisimi che poco hanno a che fare con la questione (gender, stepchild adoption).
Il quadro è sconfortante: ben lontani dai modelli degli stati più avanzati, la società italiana risulta ancora pregna del peggior Cristianesimo: quello che sguazza nell'etica del dolore, dello stigma morale e della sottomissione.
Sentire ancora oggi richiamare le parole di Benedetto Croce, quel “non possiamo non definirci cristiani”, figlio di un filosofo emerso più per la pochezza altrui che per il suo valore, è avvilente: se la società occidentale moderna gode di diritti e doveri avanzati, nonché di uno sviluppo culturale e materiale che l'hanno portata a livelli di ricchezza e di benessere mai visti prima, tutto ciò non è dovuto al Cristianesimo: “La nostra Europa attuale è democratica, laica, sostenitrice della libertà religiosa, dei diritti dell’uomo, della libertà di pensiero, della libertà sessuale, del femminismo e del socialismo o della riduzione delle disuguaglianze. Tutte cose che sono estranee e talvolta opposte al cattolicesimo di ieri e di oggi, talché il cristianesimo ha cessato di essere le radici dell’Europa” (P. Veyne, Quand notre monde est devenu chrétien, Albin Michel, Paris 2007, p. 256 e p. 266. ).
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