Se la scuola smette di essere luogo di confronto
Chi legge questo blog da anni sa che uno dei temi che più mi sta a cuore è quello dei diritti individuali, in particolare tutto ciò che riguarda l'integrazione e la tutela delle minoranze, così come la tutela delle diversità. Non potevo quindi esimermi dallo scrivere una riflessione su quanto avvenuto, neanche troppo recentemente, in Lombardia. La regione presieduta dal leghista Maroni ha infatti messo su, su richiesta del partito del governatore della regione, un call center "anti gender", ovvero un numero telefonico a cui potranno rivolgersi genitori, studenti, insegnanti, delatori... per segnalare chi nelle scuole oserà trattare di temi quali la parità di genere, sesso biologico, identità di genere, ruolo di genere, orientamento sessuale. In parole povere, gli insegnanti dovrebbero smettere di studiare e spiegare l'argomento, uno dei temi di più larga e aperta discussione negli studi di antropologia, sociologia, psicologia e biologia negli ultimi cinquant'anni, per patrocinare una visione tradizionale e convenzionale, figlia non tanto della scienza, quanto, a punto, della tradizione e della cultura religiosa.
Indubbiamente, già le modalità con cui ho raccontato la notizia la diranno lunga su cosa penso di una simile iniziativa. Ciò che mi preme qui è sottolineare un altro punto, se vogliamo, una questione più astratta, da cui si declinano poi tutta una serie di questioni ancora aperte, su cosa debba o non debba fare la scuola oggi.
Deve o non deve la scuola, pubblica o privata che sia, confrontarsi con ciò che la sua utenza, ovvero i suoi studenti e le famiglie che stanno dietro e accanto ai ragazzi, non conoscono o credono, erroneamente, di sapere? Questo è lo snodo su cui occorre prendere una posizioni chiara, politica, perché da questa decisione dipende cosa vogliamo che la scuola faccia o non faccia. Possiamo decidere che la scuola ignori le ricerche contemporanee, tramandi soltanto le nozioni accreditate da una lunga tradizione, millenaria: è una scelta politica, non diversa da quelle compiute, per esempio, nelle scuole coraniche, anzi, al di là del nome della fede di riferimento, identico sarebbe il risultato finale. Possiamo tramandare nozioni volutamente male interpretate, smettere per esempio di spiegare quale fosse, secondo ogni evidenza scientifica, il reale rapporto tra Achille e Patroclo, o smettere di sollevare dubbi sulla reale esistenza di un certo Gesù di Nazareth, smettere di sollevare dubbi su miracoli e gesta eroiche, possiamo smettere di fare tutto ciò, è una scelta politica, dicevamo, perché ogni narrazione che realizziamo a scuola è, sempre e comunque, fiction, interpretazione dei fatti. non sono mai i fatti così come sono realmente accaduti, se mai sono esistiti, ma il tentativo di dare un ordine e un senso a qualcosa che forse un ordine e un senso non ha. Possiamo decidere di dare un ordine e un senso strutturalmente conservativi, chiedere ai nostri alunni di non avere più dubbi. Possiamo dire loro che ciò che vuole e crede la maggioranza è sempre il meglio; e sperare di essere sempre parte di quella maggioranza.
Al di là di ogni verità posseduta nella tasca dei pantaloni, sulla questione "gender" o dell'identità sessuale esiste un dibattito, orientato da diverse istanze: è lecito chiedere che la scuola si chiami fuori da questo dibattito, faccia finta che questo dibattito non esista, per continuare a tramandare nozioni vecchie di millenni? È lecito farlo su argomenti come l'evoluzionismo, il confliggere di fede e ragione, le storture della nostra storia politica recente e antica, le ipocrisie sui diritti individuali, l'inconsistenza dei diritti naturali, del diritto alla proprietà, delle pratiche e convenzioni più condivise? Porre dubbi vuol dire sempre e soltanto voler distruggere? E se una cultura non è capace di resistere al dubbio, su che fondamenta poggia la sua solidità?
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