Dagli al lavoratore, dagli al dissidente
Giudicare un'epoca nel mentre la si vive risulta sempre un atto cognitivo piuttosto complicato a causa della vicinanza, cronologica e sentimentale che non permettono la minima distanza critica. Tuttavia, la percezione ragionata del contemporaneo dell'epoca che vive può risultare utile ai posteri per comprendere meglio ciò che determinati cambiamenti hanno rappresentato per la percezione condivisa delle persone che li hanno vissuti.
Se c'è qualcosa che sta caratterizzando gli ultimi anni della politica e dell'azione di governo in Italia, questo è probabilmente un tentativo di cambiamento del paradigma sociologico/culturale. Starà ai posteri stabilire se il tentativo sia solo apparente o reale, ma qui invece tocca discutere in che cosa consista questo tentativo.
Sfogliando i giornali, guardando gli spettacoli televisivi, assistendo alle discussioni pubbliche, il motto dei politici di ogni campo o schieramento è stato quello della rottamazione. Rottamazione di uomini, schemi, modelli. Se la rottamazione degli uomini appare più apparente che reale, almeno in politica, non così per quanto riguarda certi schemi sociali e politici che apparivano acquisiti, come alcuni diritti.
Assistiamo ad un riposizionamento della sinistra di governo che, ormai ben distante da una critica serrata al capitalismo come modello unico socioeconomico, ne accetta le regole, punta alla massima capitalizzazione di una fiducia (ben spesa?) verso la sua visione progressista del governo del bene comune. Il renzismo, riproposizione italiana del modello Labour del presidente Blair, si annida dentro le regole del capitalismo, cerca l'alleanza di chi nel capitalismo ha il ruolo del fornitore di lavoro/erogatore di servizi, abbandonando quel target di elettori storicamente legato alla sinistra di opposizione, come le varie categorie di lavoratori del settore pubblico, il proletariato (o ciò che ne resta), gli immigrati, i pensionati e che ha poco a che fare con un partito, il PD di oggi, che vuole in ogni modo essere di governo .
In questo contesto, distinguere destra e sinistra diventa un puro gioco stilistico, studio delle diverse forme di espressione, per esempio, dello stigma nei confronti di chi ha ottenuto poco dalla vita, immigrato, reietto, lavoratore o pensionato che sia.
Si guardi con attenzione all'azione di governo: il filo conduttore di questa azione è stato la riduzione costante dei diritti dei lavoratori neoimmessi nel mercato del lavoro, la loro precarizzazione, soprattutto nelle forme contrattuali (se è vero che si è compiuto un taglio sui contratti a progetto, allo stesso modo il contratto a tutele crescenti riduce le garanzie per le forme contrattuali storicamente più solide). Lavoro simile si è compiuto sulla scuola, con una riforma che vede non tanto la stabilizzazione dei contratti dei precari della scuola, quanto la precarizzazione dei dovuti contratti a tempo indeterminato; a questo si aggiunge un rinnovato verticismo dell'organizzazione scolastica e un ampliamento delle attività di alternanza scuola/lavoro, ovvero ore di stage non retribuite a cui saranno costretti non più solamente gli studenti degli istituti professionali e tecnici, ma anche quelli dei licei. Quali saranno le ricadute di questa scelta sul piano occupazionale sarà tutto da vedere, vista la reale difficoltà di scuole sotto organico nell'organizzare simile attività.
Ma ciò che preme sottolineare è come l'attacco al lavoratore come figura socialmente riconosciuta non si compie solamente dal punto di vista contrattuale: è nella stessa propaganda di stato, sui giornali e tra i canali televisivi, che osserviamo un continuo tentativo di ridefinizione della figura del lavoratore da un punto di vista culturale.
Questa ridefinizione passa attraverso il costante attacco ai sindacati, accusati di un immobilismo di cui, in realtà, possono essere colpevoli solo in parte - molto banalmente, non spetta ai sindacati investire sulla ricerca e l'innovazione, non spetta ai sindacati legiferare, non spetta ai sindacati creare posti di lavoro e rafforzare i consumi, mentre spetta ai sindacati agire a livello di contrattazione e difendere i diritti dei lavoratori; inoltre, va ricordato che i sindacati, a differenza di un governo nazionale, hanno come compito la rappresentanza dei propri iscritti, non dell'universo mondo, compito che invece spetterebbe ai partiti e, soprattutto, ai governi -. L'attacco ai sindacati ha come ricaduta evidente l'individualizzazione del lavoratore: privato della propria rappresentanza, il lavoratore scopre di essere solo e debole, e, soprattutto, responsabile per il trattamento che riceve da parte del datore di lavoro. Ciò che viene proposto è il modello del self made man, il successo come canone di giudizio dell'uomo: il lavoratore che non ha raggiunto le più alte sfere della propria carriera lavorativa non l'ha fatto per le proprie evidenti mancanze, sempre misurabili e certificabili.
Questa dottrina, che impregna l'azione di governo degli ultimi anni, si fonda su almeno due assunti logici tutt'altro che incontestabili: che le condizioni di partenza dei lavoratori siano in generale sempre equiparabili, tanto che il successo dell'uno, o l'insuccesso dell'altro, corrispondano al rispettivo valore dell'uno e dell'altro; che sindacati e dissenzienti vogliano difendere a tutti i costi chi, semplicisticamente, vuole mascherare le proprie incapacità.
Il continuo attacco al fronte sindacale - si guardi, ancora, al trattamento riservato ai sindacati della scuola, del pubblico impiego, delle industrie automobilistiche e siderurgiche, infine dei beni culturali - nella continua volontà di sminuirne il lavoro ha come obiettivo finale lasciare da solo il lavoratore di fronte al datore di lavoro, privato di potere contrattuale e, soprattutto, intimamente convinto che il proprio destino stia esclusivamente nelle proprie mani - al di là di ogni reale e oggettivo impedimento e nella misura del proprio fallimento -. Chi aderisce al sindacato, chi dissente da questa visione non è altri che un fannullone o un lavoratore che vuole tenere in ostaggio un settore intero, contro gli interessi di quei lavoratori che, in quest'ottica, si impegnano davvero.
Che il successo sia la misura di tutte le cose si può notare anche dagli attacchi costanti al dissenso politico: esempi emblematici gli attacchi post mortem subiti da Pietro Ingrao sul giornale, l'Unità, che fu di Gramsci. In Ingrao, con il tramite di articoli come quelli di Rondolino, si è voluto colpire un dissenso ontologicamente incomprensibile, semplicemente perché non atto a produrre risultati immediati e immediatamente visibili. L'opposizione di Ingrao è presa quindi a simbolo di ogni possibile dissenso che, in quanto tale, è sempre assolutamente perdente; in più, il dissenso in quanto tale è futto di immaturità politica e cognitiva, rifugio adolescenziale - eppure il successo del renzismo si è fondato proprio sul dissenso nei confronti di una precedente classe dirigente -. Una visione che è semplicemente incapace di cogliere il valore del dissenso in quanto tale, persino dell'insuccesso. Sarebbe troppo semplice ricordare come storicamente sia stato proprio il dissenso verso certi tratti della nostra cultura a fondarne il superamento e il progresso della civiltà occidentale (il dissenso nei confronti dello schiavismo, del fascismo, del nazismo, della pena di morte...); il punto è che una cultura politica incapace di riconoscere le ragioni altrui perché convinta ssolutisticamente delle proprie, che riduce i diritti dei lavoratori, che segue pedissequamente le ragioni degli industriali, non solo tradisce gli ideali di qualsiasi sinistra, di opposizione o di governo che sia, ma rischia di essere un vulnus per la democrazia, nella misura in cui attenta alle sue strutture sminuendone continuamente il valore storico e l'importanza presente.
Foto: gazzettadellavoro.it
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