Cosa l'evoluzione può insegnare ad un uomo di lettere
foto: struttura anatomica delle ginoccha di un uomo (palexstudio.it); struttura anatomica delle ginocchia di un cane (paperblog.com)
L'anatomia delle ginocchia di un uomo ci dice tante cose sull'evoluzione della nostra specie. In primis ci dice una cosa che sappiamo bene ma che tendiamo a voler ignorare appena se ne presti l'occasione: siamo fragili. Ad essere precisi, siamo fragilissimi, per il semplice motivo che, tutto sommato, non siamo quella macchina perfetta che nei millenni ci siamo raccontati. In effetti, tutto ciò che rende le nostre ginocchia ad un tempo funzionali e fragili è l'eredità del nostro millenario passato. Se infatti provassimo a comparare la struttura delle nostra ginocchia alla struttura delle ginocchia di un cane, scopriremmo che, al di là delle sommarie differenze dovute all'adattamento all'andatura bipede, cani e uomini, sotto questo punto di vista, sono sorprendentemente simili. Le nostre ginocchia sono fatte di materiale di riuso: una struttura già presente in natura e riadattata a nuove funzioni. Proprio per questo, da un punto di vista ingegneristico, quelle ginocchia non sono la migliore struttura possibile per svolgere quel determinato compito, ma sono la struttura che in quel momento e luogo la specie Uomo ha potuto sfruttare per la propria lotta per la sopravvivenza.
Il punto è che noi siamo animali molto di più di quanto vogliamo raccontarci. Non è tanto soprendente che noi condividiamo più del 95% dei nostri geni con i nostri parenti più stretti, ovvero gli scimpanzè, ma che condividiamo circa il 30% dei geni con una banana, per fare solo un esempio.
Il nostro cervello per fare un altro esempio, non viene su dal nulla per permetterci di fare metafisica: se vogliamo, questo è un effetto collaterale. Il nostro cervello si sviluppa per permetterci di relazionarci con lo spazio e il tempo a noi circostanti nel miglior modo possibile per sopravvivere. Un fine basico che verrà poi declinato in forme diversissime, tra cui la metafisica. Questa esigenza basica ci permette di creare strumenti, non fini, che ci hanno consentito la sopravvivenza in un ambiente ostile: pietre lavorate, archi e frecce, la conservazione del fuoco, la parola, i simboli, la logica, la prospettiva aerea, il metodo scientifico, le navicelle spaziali. Anche in questo caso, senza disdegnare di riadoperare ciò che già c'era con nuove finalità. Come l'area del cervello che sviluppa le funzioni del linguaggio e, in special modo, la lettoscrittura: un'area preesistente a questa funzione, adibita in primo luogo al riconoscimento delle figure più piccole, e solo in un secondo tempo convertita per una funzione che oggi definiremmo astratto/simbolica.
Nessuna macchina perfetta, insomma, anzi, meravigliosamente imperfetta, e proprio per questo in grado di migliorarsi. Si guardi allo sviluppo delle moderne tecnologie, ai computer: per molti versi, queste macchine svolgono delle funzioni che noi pensiamo connaturate al nostro essere uomini in maniera molto più ottimizzata di noi. Un computer esegue calcoli molto più rapidamente di un umano medio, ricorda e immagazzina molti più numeri di telefono o e-mail di quante possa fare un uomo non allenato a farlo. Eppure, ad oggi, il computer non impara autonomamente, se non in maniera limitata e secondo la programmazione che gli viene data. Nell'uomo quella stessa capacità di adattarsi agli eventi che ha permesso di modificare il comportamento di aree del nostro cervello in funzione di nuove istanze, ci ha anche permesso di realizzare macchine che per molti aspetti superano i nostri limiti, ampliandone i confini.
L'evoluzione delle malattie genetiche ci racconta una storia simile: il continuo tentativo di resistere a ciò che ci circonda, che ci cambia; una lotta continua, in cui la vittoria spetta a chi è capace di correre più a lungo. Non potremmo per esempio fare la storia del Mediterraneo senza raccontarci la storia, lunghissima, della malaria che ha infestato per millenni queste terre. Ma non potremmo raccontare la storia della malaria senza narrare anche la storia, affascinante, delle variazioni genetiche che hanno reso l'uomo ad un tempo più resistente e più fragile: più resistente, modificando la forma dei globuli rossi degli abitanti di queste aree, rendendoli più difficilmente attaccabili, e più fragile, diffondendo una malattia genetica potenzialmente mortale come la talassemia. Una malattia, una variazione, evidentemente vantaggiosa, perché un rischio potenziale, quello della talassemia, corrsipondeva ad un vantaggio concreto, quello della sopravvivenza alla malaria.
Una storia simile è quella di alcune patologie di recente diffusione, come l'Alzheimer o il Parkinson
La conservazione di ciò che siamo, scissa dalla conservazione di ciò che ci circonda, equivale alla morte. Non siamo fatti per l'immobilità: non perché sia un dio o un'ideologia a dircelo, ma semplicemente perché l'immobilismo, in termini evoluzionistici, equivale all'estinzione. Non esiste evoluzione senza variazione, senza continui cambiamenti, anche impercettibili.
Ciò che possiamo imparare dalla lezione che l'evoluzione ci insegna, è il non dare per scontati come acquisizioni eterne i frutti della nostra cultura, come se fossero dei totem inamovibli. Per esempio l'idea che il sapere critico sia intimamente connaturato con la lettoscrittura, e non sia piuttosto da legare ad una capacità simbolica che innerva in maniera diversa ogni linguaggio fruibile dall'uomo. Dobbiamo avere chiara la percezione della storicità di ogni nostro fatto, della validità di ogni nostra costruzione culturale non di per sé, ma in funzione del contesto, delle necessità, non solo strettamente connesse alla sopravvivenza, ma anche alla formulazione teorica, alle esigenze espressive...
Ciò che inoltre l'evoluzione ci insegna è che non c'è un fine, non c'è un obiettivo. Non siamo lo scopo ultimo dell'evoluzione, siamo semmai uno dei tanti granelli che riempiono la clessidra, anche se, qui e ora, siamo il granello più pesante. Ma come per miliardi di anni l'universo ha potuto esistere senza la nostra presenza, non c'è nessuna ragione che possa spiegarci perché l'universo stesso dovrebbe, o non dovrebbe, sopravvivere dopo di noi. Semplicemente, si tratta di una questione mal posta, di una domanda retorica, il tentativo estremo di trovare un ordine in un caos che tale rimarrà sempre e comunque, ordinato solo, per il breve sprazzo del nostro esistere, dal nostro stesso istinto alla sopravvivenza.
L'anatomia delle ginocchia di un uomo ci dice tante cose sull'evoluzione della nostra specie. In primis ci dice una cosa che sappiamo bene ma che tendiamo a voler ignorare appena se ne presti l'occasione: siamo fragili. Ad essere precisi, siamo fragilissimi, per il semplice motivo che, tutto sommato, non siamo quella macchina perfetta che nei millenni ci siamo raccontati. In effetti, tutto ciò che rende le nostre ginocchia ad un tempo funzionali e fragili è l'eredità del nostro millenario passato. Se infatti provassimo a comparare la struttura delle nostra ginocchia alla struttura delle ginocchia di un cane, scopriremmo che, al di là delle sommarie differenze dovute all'adattamento all'andatura bipede, cani e uomini, sotto questo punto di vista, sono sorprendentemente simili. Le nostre ginocchia sono fatte di materiale di riuso: una struttura già presente in natura e riadattata a nuove funzioni. Proprio per questo, da un punto di vista ingegneristico, quelle ginocchia non sono la migliore struttura possibile per svolgere quel determinato compito, ma sono la struttura che in quel momento e luogo la specie Uomo ha potuto sfruttare per la propria lotta per la sopravvivenza.
Il punto è che noi siamo animali molto di più di quanto vogliamo raccontarci. Non è tanto soprendente che noi condividiamo più del 95% dei nostri geni con i nostri parenti più stretti, ovvero gli scimpanzè, ma che condividiamo circa il 30% dei geni con una banana, per fare solo un esempio.
Il nostro cervello per fare un altro esempio, non viene su dal nulla per permetterci di fare metafisica: se vogliamo, questo è un effetto collaterale. Il nostro cervello si sviluppa per permetterci di relazionarci con lo spazio e il tempo a noi circostanti nel miglior modo possibile per sopravvivere. Un fine basico che verrà poi declinato in forme diversissime, tra cui la metafisica. Questa esigenza basica ci permette di creare strumenti, non fini, che ci hanno consentito la sopravvivenza in un ambiente ostile: pietre lavorate, archi e frecce, la conservazione del fuoco, la parola, i simboli, la logica, la prospettiva aerea, il metodo scientifico, le navicelle spaziali. Anche in questo caso, senza disdegnare di riadoperare ciò che già c'era con nuove finalità. Come l'area del cervello che sviluppa le funzioni del linguaggio e, in special modo, la lettoscrittura: un'area preesistente a questa funzione, adibita in primo luogo al riconoscimento delle figure più piccole, e solo in un secondo tempo convertita per una funzione che oggi definiremmo astratto/simbolica.
Nessuna macchina perfetta, insomma, anzi, meravigliosamente imperfetta, e proprio per questo in grado di migliorarsi. Si guardi allo sviluppo delle moderne tecnologie, ai computer: per molti versi, queste macchine svolgono delle funzioni che noi pensiamo connaturate al nostro essere uomini in maniera molto più ottimizzata di noi. Un computer esegue calcoli molto più rapidamente di un umano medio, ricorda e immagazzina molti più numeri di telefono o e-mail di quante possa fare un uomo non allenato a farlo. Eppure, ad oggi, il computer non impara autonomamente, se non in maniera limitata e secondo la programmazione che gli viene data. Nell'uomo quella stessa capacità di adattarsi agli eventi che ha permesso di modificare il comportamento di aree del nostro cervello in funzione di nuove istanze, ci ha anche permesso di realizzare macchine che per molti aspetti superano i nostri limiti, ampliandone i confini.
L'evoluzione delle malattie genetiche ci racconta una storia simile: il continuo tentativo di resistere a ciò che ci circonda, che ci cambia; una lotta continua, in cui la vittoria spetta a chi è capace di correre più a lungo. Non potremmo per esempio fare la storia del Mediterraneo senza raccontarci la storia, lunghissima, della malaria che ha infestato per millenni queste terre. Ma non potremmo raccontare la storia della malaria senza narrare anche la storia, affascinante, delle variazioni genetiche che hanno reso l'uomo ad un tempo più resistente e più fragile: più resistente, modificando la forma dei globuli rossi degli abitanti di queste aree, rendendoli più difficilmente attaccabili, e più fragile, diffondendo una malattia genetica potenzialmente mortale come la talassemia. Una malattia, una variazione, evidentemente vantaggiosa, perché un rischio potenziale, quello della talassemia, corrsipondeva ad un vantaggio concreto, quello della sopravvivenza alla malaria.
Una storia simile è quella di alcune patologie di recente diffusione, come l'Alzheimer o il Parkinson
La conservazione di ciò che siamo, scissa dalla conservazione di ciò che ci circonda, equivale alla morte. Non siamo fatti per l'immobilità: non perché sia un dio o un'ideologia a dircelo, ma semplicemente perché l'immobilismo, in termini evoluzionistici, equivale all'estinzione. Non esiste evoluzione senza variazione, senza continui cambiamenti, anche impercettibili.
Ciò che possiamo imparare dalla lezione che l'evoluzione ci insegna, è il non dare per scontati come acquisizioni eterne i frutti della nostra cultura, come se fossero dei totem inamovibli. Per esempio l'idea che il sapere critico sia intimamente connaturato con la lettoscrittura, e non sia piuttosto da legare ad una capacità simbolica che innerva in maniera diversa ogni linguaggio fruibile dall'uomo. Dobbiamo avere chiara la percezione della storicità di ogni nostro fatto, della validità di ogni nostra costruzione culturale non di per sé, ma in funzione del contesto, delle necessità, non solo strettamente connesse alla sopravvivenza, ma anche alla formulazione teorica, alle esigenze espressive...
Ciò che inoltre l'evoluzione ci insegna è che non c'è un fine, non c'è un obiettivo. Non siamo lo scopo ultimo dell'evoluzione, siamo semmai uno dei tanti granelli che riempiono la clessidra, anche se, qui e ora, siamo il granello più pesante. Ma come per miliardi di anni l'universo ha potuto esistere senza la nostra presenza, non c'è nessuna ragione che possa spiegarci perché l'universo stesso dovrebbe, o non dovrebbe, sopravvivere dopo di noi. Semplicemente, si tratta di una questione mal posta, di una domanda retorica, il tentativo estremo di trovare un ordine in un caos che tale rimarrà sempre e comunque, ordinato solo, per il breve sprazzo del nostro esistere, dal nostro stesso istinto alla sopravvivenza.
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