Mitologia dell'insegnante italiano
Quando si parla della scuola pubblica italiana e dei suoi insegnanti, si contrappongono due visioni distinte, antitetiche, entrambe mitologiche. La prima, quella di stampo liberista e berlusconiano, vede negli insegnanti dei nemici, costruendone il mito di nullafacenti comunisti ignoranti. L'insegnante nell'ottica neoliberista berlusconiana è un intralcio, un feticcio di un tempo che fu, in cui il rapporto con il pubblico era veicolato da strumenti intermedi quali le istituzioni; l'insegnante, corpo intermedio, si macchia del peccato di voler formare una coscienza civica, comunista, nei discenti, un pubblico che, invece, potrà meglio essere addestrato attraverso altri strumenti, quali le televisioni. In quest'ottica quindi l'insegnante andava e va umiliato.
L'altro mito, antitetico, viene costruito dalla classe degli insegnanti stessa. L'insegnante si autodipinge come unica difesa rimasta di fronte alla distruzione della cultura: l'insegnante italiano è assolutamente convinto della propria formazione, della propria cultura, della propria visione del mondo, imputando ogni fallimento della cosa e della scuola pubblica nell'arco di tempo che va dal dopoguerra ad oggi esclusivamente alla politica, alla società, al sistema di reclutamento, all'incapacità del sistema universitario, etc.. Non esiste possibilità di autocritica, al punto che ogni paventato tentativo di proporre un sistema di valutazione degli insegnanti viene avvertito e propagandato come un attentato alla dignità della professione.
A ben guardare, entrambe queste costruzioni non sono altro che miti: l'uno si forma e si alimenta dell'altro, in effetti, l'uno non potrebbe esistere senza l'altro. Una classe docente che non ammette valutazione dà adito ai suoi detrattori di accusarla di pressapochismo; l'incapacità di riconoscere la professionalità dei docenti da parte del neoliberismo non fa altro che alimentare l'arroccamento dei docenti della scuola pubblica nelle loro posizioni, ritirati su di un Aventino fuori dal tempo e dal buonsenso.
Eppure basterebbe, appunto, un p' di buonsenso, per riconoscere i limiti di entrambi i miti. Così come è impossibile che tutti i docenti siano dei nullafacenti, e altrettanto vero che, come in qualsiasi lavoro, esistono mele marce ed esiste un problema nella formazione e nel reclutamento dei docenti, problema a cui la politica, i sindacati, i docenti stessi hanno contribuito.
Ovviamente il discorso proposto in questo post è esso stesso una costruzione, se vogliamo anche questo è un mito, una narrazione. Una narrazione fondata su determinate esperienze e su alcuni dati: l'età media dei docenti italiani è la più alta d'Europa, e anche tenendo in conto della formazione dovuta alle ormai chiuse Scuole di Specializzazione per l'Insegnamento, o ai recenti Tirocini Formativi, va detto chiaramente che una buona parte dei docenti italiani in cattedra non mette piede in un'aula universitaria o non frequenta un corso di livello universitario ormai da decenni; i risultati delle prove INVALSI degli studenti italiani, così come i risultati delle prove PISA, mostrano, piaccia o no, gravi lacune da parte dei nostri studenti nelle competenze logico linguistiche e logico matematiche; gli scarsi risultati ottenuti da molti docenti nella prova di logica e matematica alla recente prima prova del concorso a cattedra del 2012.
Esiste nella nostra scuola un problema di genere: è un dato che la maggioranza dei docenti italiani siano donne, con picchi nella scuola primaria che rasentano il monopolio. Sia chiaro qui che una docente vale quanto un docente; il problema è che nella nostra tradizione culturale maschi e femmine vengono formati e indirizzati in maniera stereotipata, maniera che ancora oggi si ripercuote sui docenti in attività e sui loro alunni. Nelle prove INVALSI, a qualsiasi livello, il risultato delle studentesse nelle prove di matematica è mediamente più basso di quello degli studenti maschi, sebbene i risultati ottenuti in molti altri paesi, in primis quelli dell'Estremo Oriente, in prove equivalenti, mostrano come le studentesse, se non condizionate, ottengono nelle materie scientifiche gli stessi risultati degli studenti maschi.
Al di là della bagarre sulle graduatorie varie ed eventuali, basta mettere piede in un qualsiasi Collegio Docenti per accorgersi di un dato: il corpo docente italiano è formato da (per la maggior parte) donne, caucasiche, cattoliche, malamente formate negli studi di pedagogia, comunque con una formazione che risale, in molti casi a decenni addietro, da troppo tempo lontane dagli studi accademici delle loro stesse discipline. Ancor di più, il pubblico, il destinatario del messaggio di questi docenti sono, ancora, piccoli, caucasici, bianchi e cattolici. Ogni altro destinatario esiste nella misura in cui si adegua a questo standard.
L'intercultura, lo scambio culturale, la tolleranza nelle nostre scuole si riducono ad una malcelata sopportazione: le minoranze sono ammesse finché si adeguano al volere e alle tradizioni della maggioranza, altrimenti sono reietti da criminalizzare; non esiste la possibilità di riconoscere la laicità della scuola pubblica, il pari valore delle tradizioni e culture altre ("e tu, piccolo, dimmi, da te cosa fate per le vacanze? Perché qui che siamo Cattolici si fa così"). condivisione ed arricchimento vogliono dire, nella nostra scuola, condivisione da parte del Cattolicesimo e arricchimento da parte di chiunque non sia cattolico. Condividiamo (imponiamo) presepe, crocifisso, etc., ma ad "arricchirsi" sono solo gli altri. Non esiste nella scuola pubblica, come nella nostra società, l'idea che a "condividere" siano tutti, compresi i non Cattolici e ad "arricchirsi" siano tutti, compresi i Cattolici. Non esiste per esempio all'ordine del giorno di nessun Collegio Docenti l'idea di affiancare nel Piano dell'Offerta Formativa l'ora di religione islamica, buddista, animista, induista, anche solo sulla forza degli Jedi, all'ora di religione cattolica; non sembra che nella scuola pubblica italiana ci si batta il petto o ci si fustighi per permettere l'apertura di moschee e luoghi di culto per le altre religlioni, o di veri spazi e tempi per atei e agnostici. La condivisione consiste in un io condivido e gli altri si adeguano, l'integrazione in un queste sono le condizioni, e ora integrati.
La nostra scuola è, nella maggior parte dei casi, trasmissione di una tradizione: la possibilità di innovazione, prima ancora che per gli scarsi mezzi, manca per la mancanza di formazione. Scarsa, soprattutto nei gradi più bassi dell'istruzione, è ancora la comprensione di un testo da parte degli stessi docenti, così come la capacità di usare la logica deduttiva: riprova ne sono i risultati della prima prova del recente concorso a cattedra. Assente o quasi la formazione su modalità e generi testuali che richiedano una formazione tecnica: analisi del testo, produzione di saggi, etc..
Manca spesso la capacità di contestualizzazione, di decostruzione e costruzione, di ricerca e vaglio delle informazioni: basterebbe vagare per i vari gruppi su facebook dedicati agli insegnanti per accorgersi di come gli stessi non vaglino le informazioni che condividono, commentino senza leggere, o peggio, comprendere le risposte altrui (senza parlare degli orrori grammaticali e delle castronerie pedagogico-didattiche che si potrebbero incontrare).
In questa condizione, per poter realmente pensare ad un miglioramento dell'istruzione pubblica italiana, la stessa scuola italiana dovrà partire dalla distruzione di ogni mito che la condizioni: quello neoliberista come quello autoassolutorio. Senza un reale superamento delle sovrastrutture che condizionano il funzionamento della nostra scuola, la formazione italiana e lo stesso futuro dei nostri discenti non potranno non essere condannati ad un lento e costante declino.
L'altro mito, antitetico, viene costruito dalla classe degli insegnanti stessa. L'insegnante si autodipinge come unica difesa rimasta di fronte alla distruzione della cultura: l'insegnante italiano è assolutamente convinto della propria formazione, della propria cultura, della propria visione del mondo, imputando ogni fallimento della cosa e della scuola pubblica nell'arco di tempo che va dal dopoguerra ad oggi esclusivamente alla politica, alla società, al sistema di reclutamento, all'incapacità del sistema universitario, etc.. Non esiste possibilità di autocritica, al punto che ogni paventato tentativo di proporre un sistema di valutazione degli insegnanti viene avvertito e propagandato come un attentato alla dignità della professione.
A ben guardare, entrambe queste costruzioni non sono altro che miti: l'uno si forma e si alimenta dell'altro, in effetti, l'uno non potrebbe esistere senza l'altro. Una classe docente che non ammette valutazione dà adito ai suoi detrattori di accusarla di pressapochismo; l'incapacità di riconoscere la professionalità dei docenti da parte del neoliberismo non fa altro che alimentare l'arroccamento dei docenti della scuola pubblica nelle loro posizioni, ritirati su di un Aventino fuori dal tempo e dal buonsenso.
Eppure basterebbe, appunto, un p' di buonsenso, per riconoscere i limiti di entrambi i miti. Così come è impossibile che tutti i docenti siano dei nullafacenti, e altrettanto vero che, come in qualsiasi lavoro, esistono mele marce ed esiste un problema nella formazione e nel reclutamento dei docenti, problema a cui la politica, i sindacati, i docenti stessi hanno contribuito.
Ovviamente il discorso proposto in questo post è esso stesso una costruzione, se vogliamo anche questo è un mito, una narrazione. Una narrazione fondata su determinate esperienze e su alcuni dati: l'età media dei docenti italiani è la più alta d'Europa, e anche tenendo in conto della formazione dovuta alle ormai chiuse Scuole di Specializzazione per l'Insegnamento, o ai recenti Tirocini Formativi, va detto chiaramente che una buona parte dei docenti italiani in cattedra non mette piede in un'aula universitaria o non frequenta un corso di livello universitario ormai da decenni; i risultati delle prove INVALSI degli studenti italiani, così come i risultati delle prove PISA, mostrano, piaccia o no, gravi lacune da parte dei nostri studenti nelle competenze logico linguistiche e logico matematiche; gli scarsi risultati ottenuti da molti docenti nella prova di logica e matematica alla recente prima prova del concorso a cattedra del 2012.
Esiste nella nostra scuola un problema di genere: è un dato che la maggioranza dei docenti italiani siano donne, con picchi nella scuola primaria che rasentano il monopolio. Sia chiaro qui che una docente vale quanto un docente; il problema è che nella nostra tradizione culturale maschi e femmine vengono formati e indirizzati in maniera stereotipata, maniera che ancora oggi si ripercuote sui docenti in attività e sui loro alunni. Nelle prove INVALSI, a qualsiasi livello, il risultato delle studentesse nelle prove di matematica è mediamente più basso di quello degli studenti maschi, sebbene i risultati ottenuti in molti altri paesi, in primis quelli dell'Estremo Oriente, in prove equivalenti, mostrano come le studentesse, se non condizionate, ottengono nelle materie scientifiche gli stessi risultati degli studenti maschi.
Al di là della bagarre sulle graduatorie varie ed eventuali, basta mettere piede in un qualsiasi Collegio Docenti per accorgersi di un dato: il corpo docente italiano è formato da (per la maggior parte) donne, caucasiche, cattoliche, malamente formate negli studi di pedagogia, comunque con una formazione che risale, in molti casi a decenni addietro, da troppo tempo lontane dagli studi accademici delle loro stesse discipline. Ancor di più, il pubblico, il destinatario del messaggio di questi docenti sono, ancora, piccoli, caucasici, bianchi e cattolici. Ogni altro destinatario esiste nella misura in cui si adegua a questo standard.
L'intercultura, lo scambio culturale, la tolleranza nelle nostre scuole si riducono ad una malcelata sopportazione: le minoranze sono ammesse finché si adeguano al volere e alle tradizioni della maggioranza, altrimenti sono reietti da criminalizzare; non esiste la possibilità di riconoscere la laicità della scuola pubblica, il pari valore delle tradizioni e culture altre ("e tu, piccolo, dimmi, da te cosa fate per le vacanze? Perché qui che siamo Cattolici si fa così"). condivisione ed arricchimento vogliono dire, nella nostra scuola, condivisione da parte del Cattolicesimo e arricchimento da parte di chiunque non sia cattolico. Condividiamo (imponiamo) presepe, crocifisso, etc., ma ad "arricchirsi" sono solo gli altri. Non esiste nella scuola pubblica, come nella nostra società, l'idea che a "condividere" siano tutti, compresi i non Cattolici e ad "arricchirsi" siano tutti, compresi i Cattolici. Non esiste per esempio all'ordine del giorno di nessun Collegio Docenti l'idea di affiancare nel Piano dell'Offerta Formativa l'ora di religione islamica, buddista, animista, induista, anche solo sulla forza degli Jedi, all'ora di religione cattolica; non sembra che nella scuola pubblica italiana ci si batta il petto o ci si fustighi per permettere l'apertura di moschee e luoghi di culto per le altre religlioni, o di veri spazi e tempi per atei e agnostici. La condivisione consiste in un io condivido e gli altri si adeguano, l'integrazione in un queste sono le condizioni, e ora integrati.
La nostra scuola è, nella maggior parte dei casi, trasmissione di una tradizione: la possibilità di innovazione, prima ancora che per gli scarsi mezzi, manca per la mancanza di formazione. Scarsa, soprattutto nei gradi più bassi dell'istruzione, è ancora la comprensione di un testo da parte degli stessi docenti, così come la capacità di usare la logica deduttiva: riprova ne sono i risultati della prima prova del recente concorso a cattedra. Assente o quasi la formazione su modalità e generi testuali che richiedano una formazione tecnica: analisi del testo, produzione di saggi, etc..
Manca spesso la capacità di contestualizzazione, di decostruzione e costruzione, di ricerca e vaglio delle informazioni: basterebbe vagare per i vari gruppi su facebook dedicati agli insegnanti per accorgersi di come gli stessi non vaglino le informazioni che condividono, commentino senza leggere, o peggio, comprendere le risposte altrui (senza parlare degli orrori grammaticali e delle castronerie pedagogico-didattiche che si potrebbero incontrare).
In questa condizione, per poter realmente pensare ad un miglioramento dell'istruzione pubblica italiana, la stessa scuola italiana dovrà partire dalla distruzione di ogni mito che la condizioni: quello neoliberista come quello autoassolutorio. Senza un reale superamento delle sovrastrutture che condizionano il funzionamento della nostra scuola, la formazione italiana e lo stesso futuro dei nostri discenti non potranno non essere condannati ad un lento e costante declino.
foto: caffescuola.wordpress.com
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