L'esattezza, il cambiamento, la retorica e la fuffa.

Italo Calvino, uno dei numi tutelari della sinistra italiana, nelle sue Lezioni americane, così come in molte interviste, cita l'esattezza nell'espressione come uno dei valori imprescindibili per un intellettuale e uomo moderno. L'esattezza nell'espressione vuol dire chiamare le cose con il loro nome, citarle è per quello che sono realmente, senza giri di parole inutili e fuorvianti. Come diceva Borges del resto la retorica anziché aiutare la comunicazione spesso è causa di incomprensione. Incomprensione che si fa ancora più grave quando l'artificioso uso della retorica rende le incomprensioni volute.
Gli ultimi 40 anni della vita politica italiana sono stati caratterizzati dall'emergere di figure carismatiche abili nell'utilizzare la voluta ambiguità della retorica. Penso a leader carismatici quali Bettino Craxi, Papa Giovanni Paolo II, Silvio Berlusconi, Beppe Grillo e infine Matteo Renzi. Tutti questi leader hanno impersonato ed impersonano volutamente una maschera teatrale che li ha portati e li porta ad interpretare la figura dell'uomo della salvezza rappresentante il cambiamento. Già a questo punto vediamo sopraggiungere l'artificio della retorica: cosa vuol dire infatti cambiamento? Di per sé è il cambiamento è un concetto neutro né positivo né negativo: per un africano del 1500 essere preso schiavo era un cambiamento, per un operaio dell'Ottocento ottenere il diritto allo sciopero era un cambiamento, come lo è stato l'invenzione di quella forma di contratti precari che caratterizza la legislazione sul lavoro italiana. Essere quindi i paladini del cambiamento di per sé non vuol dire assolutamente nulla. È solamente il merito della retorica che ci fa ritenere giusta una associazione di per sé inesistente tra la parola cambiamento e il concetto di miglioramento della propria condizione di vita. Ciò che dovrebbe contare davvero non dovrebbe essere il portare avanti il cambiamento in quanto tale, ma spiegare in che cosa consiste realmente questo cambiamento e quali vantaggi potrà portare alla vita dei singoli e delle comunità. Ad analizzare i discorsi di questi i leader politici difficilmente si potranno trovare discussioni di merito, mentre si noterà come abbondano circonlocuzioni intorno alla necessità del cambiamento, del rinnovamento, dell'essere i nuovi contro il vecchio, i gufi. Immaginiamo due modelli. Il primo è una strada in discesa: il cambiamento che ci porta dall'essere in cima al giungere fino alle pendici della montagna è un cambiamento, un passaggio da una condizione di oggettiva difficoltà ad una situazione più semplice. Ora immaginiamo un altro modello: siamo dei condannati legati sotto una ruota in cima a quella montagna; immaginiamo quella ruota che inizia a scendere giù per le pendici della montagna, ad ogni giro ci schiaccia e ci risolleva, il nostro continuo cambiamento non si risolve in un miglioramento,  semmai in una tortura continua.
Cerchiamo allora in nome della esattezza di parlare di cose chiamandole con i loro nomi. Il primo ministro Renzi sostiene che quello sull' articolo 18 sia un falso problema, un retaggio culturale del tardo 900. Ci viene detto che dato che i lavoratori tutelati da questo articolo sono pochi e non vale la pena difenderlo. Come dire che dato che i panda sono in via di estinzione tanto vale ucciderli tutti. Dice il primo ministro Renzi che è pronto a dialogare con i sindacati ma che il Jobs act non cambierà. Come quegli studenti che nascondono le cuffiette durante le spiegazioni che non interessano. Dice il primo ministro Matteo Renzi che la sinistra del Pd è quella che non riusciva a superare il 25 per cento mentre a lui interessa mantenere il consenso del 41 per cento che ha ottenuto. Dice il primo ministro Matteo Renzi che non consegnerà il Pd a quelli del 25 per cento. Peccato che il Pd non esiste più, ucciso da un primo ministro Renzi che del suo partito non ha ascoltato mai la voce, preferendo quella della sua convention, la Leopolda. Ma a cosa serve questo 41 per cento? A reiterare il consenso, e per questo servono nuovi nemici su cui rappresentare un non meglio precisato cambiamento. Dice il primo ministro Matteo Renzi che si farà portavoce del cambiamento ma intanto ha spartito le posizioni di potere fra i suoi accoliti della Leopolda come un vecchio democristiano. Dice il primo ministro Matteo Renzi di voler costruire una nuova sinistra e intanto dalla Leopolda arriva l'istanza di chi chiede di eliminare il diritto allo sciopero per i dipendenti statali. Dice il primo ministro Matteo Renzi di essere dalla parte di chi produce il lavoro senza accorgersi che è sinistra tutelare il più debole, non chi crea il lavoro ma chi lo deve giorno per giorno subire. Dice il primo ministro Matteo Renzi di essere uomo di sinistra ma perché essere di sinistra in una certa cultura è cool, fa figo. Dice il primo ministro Matteo Renzi di essere un giovane, un ragazzo, ma alla sua età si è già uomini maturi, al massimo con una sindrome di Peter Pan, proprio come il primo ministro.
Il primo ministro Matteo Renzi cita sempre l'iPhone. Mi sembra un paragone esemplare della sua politica: non si tratta né del miglior smartphone né di quello più innovativo, né tanto meno della multinazionale con i processi di produzione più limpidi. Si tratta invece di un mirabile prodotto di marketing, e davvero poco altro. La costruzione della fuffa politica.

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