Se l'insegnamento è una scienza
Ammetto di essere pedagogicamente un ignorante, e così in questi giorni ho deciso d'iscrivermi ad un MOOC sulla didattica e la valutazione per competenze nel ventunesimo secolo. Ammetto che mi si sta aprendo un mondo, e soprattutto scopro giorno per giorno che certe idee che avevo sviluppato da solo in maniera solitaria e spontanea, non nascono dalla mia esperienza ma sono effettivamente patrimonio condiviso di un certo modello di didattica a cui, evidentemente, anche senza volerlo mi ispiro. Mi riferisco alla teoria di Lev Semënovič Vygotskij sulle zone di sviluppo cognitivo e, soprattutto, le teorie di Glaser e Rasch sulla misurabilità quantitativa del nostro insegnamento. Giungiamo così al nodo della questione: se il nostro insegnamento è scientifico, deve essere misurabile in termini quantitativi e standardizzati nei suoi risultati, con criteri condivisi appartenenti a protocolli comuni. La cosa non è senza conseguenze: altrimenti ammetteremmo che la suola lavora al pari di un artigiano, su criteri di valutazione soggettivi e in tal modo contestabili. Il primo, forse il più importante, spiraglio per l'attacco definitivo alla scuola pubblica.
Se la scuola pubblica non garantisce ovunque il raggiungimento di risultati confrontabili su criteri condivisi, se cioè il primo e più importante soggetto della scuola, ovvero il fruitore della scuola stessa, l'alunno, non è determinante, se alla fine del suo corso di studi, seppur individualizzato sulla base delle sue specifiche esigenze, questo alunno non potrà aver raggiunto da Lampedusa a Trento dei risultati confrontabili e similari in maniera incontrovertibile, a che pro la scuola pubblica? Come difendersi dalle ingerenze private se le prime ingerenze private sono quelle della soggettività dell'insegnante che non ammette la dovuta scientificità dei criteri e dei protocolli che deve applicare?
Sono ben consapevole che questo vuol dire aprire un nuovo mondo nella scuola pubblica italiana; vuol dire limitare fortemente la libertà d'insegnamento, quanto meno entro il limite del diritto allo studio del primo soggetto della scuola. Vuol dire anche aprirsi a strumenti, certo da raffinarsi, che sono quelli delle prove oggettive. Quelle prove che in Italia sono additate come la rovina della scuola pubblica, boicottate, schernite, spesso trattate in maniera inconsapevole, come se dietro di esse non ci fossero anni di ricerca da parte di ricercatori provenienti da ogni dove, ma solo l'improvvisazione del politicante di turno. Forse, anche questa volta, dovremmo in primis ammettere il nostro peccato di supponenza.
Mi chiedo cosa avverrà quando, a partire dal 2015, i test PISA inizieranno a valutare anche il CPS, ovvero il Cooperative Problem Solving, la capacità (competenza?) di collaborare per la risoluzione di un problema. Del resto i test oggettivi, malgrado la mala propaganda subita in Italia, si strutturano come domande a risposta prevalentemente chiusa solo in alcuni paesi come gli USA, mentre altrove, come in Germania, si realizzano anche come domande a risposta aperta e lavorano soprattutto sulla competenza del pensiero critico, misurato secondo criteri standardizzati e condivisi.
Come si capisce parliamo di abissi rispetto alla nostra improvvisazione, a consigli di classe in cui i criteri di valutazione variano esponenzialmente per la presenza o per l'assenza del professore "bonaccione" o "stronzo" di turno.
Alla luce di tutto ciò, ancora di più, mi pare chiaro come la scuola pubblica italiana debba riformarsi a partire dalla sua classe docente, essere consapevole di essere almeno in parte essa stessa causa dei suoi mali, di essere pedagogicamente e didatticamente obsoleta, e così facendo di lasciare spazio ai continui attacchi dei politici di ogni schieramento, alla ricerca di un facile consenso popolare, o al contrario di essere in mano a sindacati più dediti alla tutela dei propri iscritti senza se e senza ma, anziché rivolgersi alla comune esigenza di svolgere un lavoro migliore nelle condizioni migliori possibili.
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