Philip Roth, Pastorale americana
Pastorale americana è un libro ingombrante, nel senso che non si può non rimanere colpiti da un testo così complesso e significativo, eppure non si può neanche non notarne certi paradossali difetti.
Il libro è ridondante, prolisso, di una lunghezza, e in certi tratti pesantezza, disarmanti, tanto da stendere anche il lettore accanito: per esempio la prima sezione del romanzo si dilunga in maniera così approfondita sulle circostanze in cui l'autore è venuto a contatto con la storia che si appresta a narrare, da lasciare sconcertato il lettore.
Un senso di straniamento protratto sino all'eccessivo.
Un altro difetto del romanzo, ed è paradossale, è il dire spesso troppo poco: la psicologia di alcuni personaggi resta poco più di un abbozzo, uno stereotipo; altri personaggi, che sconvolgono la vicenda, giungono nella storia dal nulla e nel nulla spariscono, per essere ripescati all'occorrenza, ma senza che questo possa dare al lettore l'idea di una solida trama. Per carità, si tratterà pure di una scelta voluta dall'autore, ma più che la sensazione di una realtà infranta, si ha l'impressione di una voluta presa in giro.
Un peccato, perché per altri versi si tratta di un testo potente nel suo cogliere l'impotenza dell'uomo di fronte ad una realtà che si spezza, che manda in frantumi l'ordine e la coerenza costruite a tavolino dal perbenismo e da una società in difficoltà davanti allo scoppio della follia contemporanea.
La società americana ne esce devastata, l'ordine costruito sulla sua democrazia appare una falsità, ma la stessa ricerca di una realtà più vera si infrange contro lo scoglio della violenza a cui uno dei personaggi giunge a ricorrere per smascherare le menzogne inconsce degli altri. Vittima in questo romanzo è colui che accetta questa finzione, che ad essa si assoggetta e che vive per non disturbarla, per non fare male agli altri, passeggiando nella vita con la leggerezza di una farfalla. Il canto del cigno dell'America degli anni cinquanta scoppia nel fragore delle bombe del 1968.
Ma il fragore della follia di Merry si perde nell'eccessivo perbenismo dello Svedese, talmente eccessivo da essere poco credibile, o nella madre, Dawn, figura misera, imbrigliata nelle maschere della miss., della madre incapace, della moglie infedele. Persino i colpi di scena finali, la scoperta dei tradimenti dei due coniugi e la scoperta del nascondiglio di Merry, ormai pluriomicida, non riescono a dare un vero perché a questo romanzo. E forse è questo l'unica interpretazione possibile: una serie di vicende apparentemente collegate dalla sconvolgente azione terroristica di Merry, ma la cui razionalità si scopre nulla in confronto al disordine imperante. Senza però che questo disordine sia infine se non dichiarato e manifesto; rimane il retrogusto amaro di un romanzo che avrebbe potuto essere altro ma che finisce per sfracellarsi nei giudizi morali del suo autore.
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