Contro lo sport agonistico e le scuole calcio in età adolescenziale
In molti avranno letto in questi giorni l'inchiesta, comparsa su Repubblica, sulle scuole calcio e il business che le muove. In molti quindi avranno letto i numeri di questo business: parliamo di circa settemila scuole calcio in tutto il paese, numeri da scuole dell'obbligo insomma, se non, in certi casi, una diffusione più capillare della scuola stessa.
Tutti noi insegnanti abbiamo avuto o abbiamo a che fare con alunni che praticano il calcio, anche a livello agonistico: chi di noi poi insegna in quella creazione del duo Gelmini/La Russa chiamato impropriamente Liceo Sportivo deve vedersela ogni giorno con classi di trenta circa aspiranti calciatori o giù di lì. Molti di loro stanno solo vivendo un'illusione, come è facile immaginare. Stando all'inchiesta citata precedentemente, solo un ragazzo su cinquemila esordisce in Serie A; tutti vengono spinti a continuare, per evidenti interessi economici, convincendoli di essere i futuri Balotelli, quando al massimo molti di loro giocheranno nelle serie minori con stipendi da operaio, per qualche anno.
Ma la cosa peggiore dello sport agonistico in questa età è la pretesa, avallata spesso da famiglie e allenatori, di una maggiore importanza rispetto alla scuola pubblica. Chiariamoci: l'istruzione di questi ragazzi viene prima dello sport non perché chi scrive è un insegnante, ma perché dà loro gli strumenti per sopravvivere allo sport stesso e ai suoi tempi; la carriera di uno sportivo non si protrae in genere oltre i quarant'anni, e con un età media di morte che ormai supera gli ottant'anni diviene lecito discute di cosa faranno questi ragazzi dopo la loro breve carriera.
Invece ci ritroviamo ad acconsentire alle richieste di questi seducenti educatori e venditori di illusioni: vediamo alunni svogliati, presuntuosi, assenti e completamente disinteressati nei confronti di tutto ciò che non sia un pallone; inconsapevoli persino dei sacrifici che le famiglie compiono per la loro istruzione e per a loro formazione. Alunni che rivendicano persino il diritto di uscire prima da scuola o di essere avvantaggiati nello studio per poter prendere parte agli allenamenti.
Domanda: perché un ragazzo che non vuole studiare ma andare a lavorare, prima di poterlo fare deve attendere i sedici anni, ovvero la fine dell'obbligo scolastico, e non può sottoscrivere contratti di praticantato fino a questa età, né quindi aver alcun tipo di pretesa nei confronti dell'istruzione obbligatoria, mentre gli sportivi possono? Ha davvero l'attività agonistica una dignità maggiore e un'importanza nella società più grande dell'educare i cittadini del domani, del farne degli esseri critici, capaci di adoperare il loro cervello per decodificare i messaggi complessi della società contemporanea? È l'ignoranza che avalliamo sotto il peso di queste illusioni un diritto o un costo sociale, salatissimo, che paghiamo tutti come prezzo ad un totem comune, figlio della televisione, della moda e dei falsi miti, quello della celebrità e della centralità del mondo dello sport?
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