Cecità, José Saramago
Vuoi cheti dica osa penso, Parlla, secondo menon siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono
Cecità di José Saramago è un libro potente, che colpisce il cuore per la sua forza. Il plot del racconto in principio ricorda il genere della distopia: un'improvvisa malattia in un non meglio precisato paese costringe il governo ad internare i malati in una quarantena obbligata, dove, di fronte all'emergenza, solo in pochi tentano di mantenere la dignità della propria umanità, i più lasciandosi andare ai propri istinti, slla violenza, alla sopraffazione. In questa quarantena una sola donna, vedente, inganna tutti per seguire il marito, per non lasciarlo solo, lei sola è testimone degli orrori a cui giungono i soldati di guardia come gli internati. In questa lunga sequenza, che ricorda per certi versi Golding, l'autore tocca uno degli apici del romanzo nella descrizione dello stupro delle donne da parte degli uomini della camerata: una descrizione violenta, appassionata, senza alcun spazio per la letteratura erotica che oggi imperversa; in Saramago non c'è spazio per il compiacimento per il male, e l'orrore che si prova è senza fine.
Ma al contrario di quanto ci si potrebbe attendere, la libertà dalla quarantena non dipenderà dalla guarigione dei malati. Anzi, fuggiti dal manicomio in cui erano rinchiusi, i malati scoprono come siano ciechi in un mondo di ciechi. La città è divenuta un immenso, putrido immondezzaio, la ricerca del cibo rende i ciechi aggressivi, violenti, la difesa di un posto in cui dormire li abbrutisce. Gli escrementi, la sensazione di sporcizia fisica e morale è la costante di questo romanzo. Ben pochi mantengono in città un barlume di umanità: la donna ancora in possesso della vista, suo marito e i loro pochi compagni di prigionia, uno scrittore, una vecchia che, al di là delle apparenze, riconosce nella voce antica di una vicina di casa un segno per cui vivere e morire.
La discesa all'inferno dei protagonisti li porterà in un sepolcro involontario, un magazzino in cui dei ciechi, rimasti sepolti, sono morti, e dai loro cadaveri, dal loro fetore di decomposizione, mille fiammelle di fuochi fatui ne significano la scomparsa. Un viaggio attraverso un inferno dei viventi che porta infine i protagonisti della vicenda in chiesa, di fronte alla scoperta, simbolica, della cecità delle immagini sacre di fronte all'orrore di quella città: Il crocifisso, le statue, tutti con gli occhi bendati, ciechi e immobili di fronte all'uomo. Chi avrà compiuto quel gesto? Non c'è spiegazione. Eppure, solo dopo questa scoperta, sacrilega e infinitamente umana, i protagonisti potranno recuperare la vista, forse solamente per scoprire di essere più profondamente ciechi.
Dicevo di un libro potente, in cui ogni parola pesa, ogni dialogo, sempre nell'indiretto libero che caratterizza l'opera di Saramago. I personaggi senza nome possono essere specchio di tutta la aria umanità che popola questa vita e queste pagine, in cui anche il più pravo fra gli uomini può nascondere un fondo di umano sentimento, come il ladro di macchine, e in cui viene discavata la depravazione umana privata del lume della ragione. Ne emergono la solitudine e la stanchezza di chi, sola, vede, la protagonista del racconto, lume della ragione in un mondo di tenebre, per quanto tenebre bianche, tenebre di superstizione, di ignoto, di violenza.
C'è però spazio per la speranza anche in questo romanzo: ha gli occhi della donna dagli occhiali scuri,che dopo una vita dissipata decide di vivere con l'umile e saggio uomo dalla benda nera; ha gli occhi dello scrittore che, anche da cieco, continuerà a scrivere quanto non vede, ma ancora sente, finché ne sarà capace; ha gli occhi e la fedeltà del cane delle lacrime, difensore senza pretese della protagonista, sempre pronto ad accorrere a lei per asciugarne le lacrime.
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