Il Sole24ore, Casati e lo pseudo umanesimo conservatore e alogico

Leggo oggi sul Sole24ore un interessante articolo di Roberto Casati sui pregi e le funzioni della digitalizzazione, in particolare sulla digitalizzazione nella scuola pubblica. L'assunto dell'articolo sarebbe che la semplice possibilità della digitalizzazione non sarebbe motivo valido per attuarla, senza quanto meno dei dati oggettivi che ne vadano a corroborare l'efficacia. Assunto di per sé convincente, se non fosse, ad un'attenta analisi, alogico. Come avere dati oggettivi senza una sperimentazione? Come avrebbe potuto Colombo provare (o tentare di provare) la sfericità della terra senza il suo viaggio? Sarebbe stata la mera teoria il dato oggettivo valido oppure, come sosterrebbe l'assunto dell'articolo, non sarebbe stato in sé sufficiente per sperimentare?

Ma tralasciando la debolezza dell'assunto iniziale, andiamo nello specifico a leggere le parole tendenziose e fuorvianti sulla scuola pubblica.

Non basta quindi lavorare caso per caso, ma su ogni caso si devono soppesare questi molti e diversi argomenti. Prendiamo, tanto per fare un esempio, la scuola, e mettiamo da parte il «si può, quindi devi». Quali ragioni ci sono per introdurre le nuove tecnologie nella scuola? Non certo e non più il bisogno di colmare il digital divide: i ragazzi hanno più tecnologia a casa di quanta la scuola possa mai averne. Ma quale ragione, allora? La ridda riparte: «Ci sono delle attività educative incredibili che puoi fare con il computer; i ragazzi d'oggi sono così e bisogna adattarsi alla loro forma mentis; dobbiamo dare un accesso totale all'informazione totale; ha funzionato benissimo nel settore bancario, perché non deve funzionare nella scuola?». Ma sono argomenti ideologici. Bisognerebbe chiedere se esistono dei dati per giustificare gli investimenti in tecnologia. Per esempio dei dati sul rendimento scolastico. Certamente questi dati non c'erano (per definizione!) nel momento in cui le tecnologie sono state introdotte: la loro introduzione era un esperimento alla cieca, che la dice lunga sulla qualità delle decisioni pubbliche.

Uno studio recente di Marco Gui del l'Università di Milano Bicocca fa il punto su un esempio tra i tanti, il rapporto tra la frequenza d'uso dei media digitali e i livelli di apprendimento, andando a scavare nei dati del sesto volume del rapporto Pisa Ocse 2011, che coprono una popolazione di 450mila studenti quindicenni da 65 Paesi. L'analisi di Gui è quantomai interessante: le nuove tecnologie si associano positivamente all'apprendimento fintantoché se ne fa un uso modico. Non appena le tecnologie diventano invasive e colonizzano il tempo, il rendimento scende, a livelli inferiori a quelli che si hanno senza tecnologie. Vale la pena di fare un'osservazione metodologica: si tratta di associazioni e non di rapporti direttamente causali, per il momento, dato che l'identificazione di questi ultimi necessiterebbe di studi sperimentali. Tuttavia è più che abbastanza per farci venire il sospetto (il rapporto Pisa vede gli stessi dati, ma è più elusivo sulle conclusioni). Gli unici vantaggi (minimi) si hanno per quella che il rapporto Pisa chiama subdolamente «lettura digitale», un altro dei termini dalla semantica dubbia che fanno la gioia dei colonialisti, e che io renderei piuttosto con «spippolamento». A guardare da vicino, la «lettura digitale» è l'abilità di andare in giro per ipertesti, fare copia e incolla, cliccare per dire «mi piace» e cose simili. Ci sarebbe da stupirsi se almeno queste "competenze" non migliorassero almeno un po' con un uso accanito del computer, e comunque a usarlo troppo anche queste regrediscono! Ma il punto principale è che le altre competenze, ben più serie: lettura, matematica e scienze, ne soffrono.

Partiamo dalla prima stupidaggine: la scuola non avrebbe il dovere di colmare il digital divide perché i ragazzi sarebbero circondati dalla tecnologia. Stupidaggine perché il semplice essere circondati non indica anche la competenza nell'uso critico degli strumenti. Esempio ne sono tanti anni di uso acritico della televisione, il turpiloquio e il cattivo uso delle fonti in rete, la cronica incapacità italiana anche solo di scrivere correttamente e-mail o documenti di testo, a partire da quegli insegnanti che dovrebbero assumersi la responsabilità di insegnare e la svicolano con le scuse più banali pur di non mettersi in gioco o di non ammettere le proprie lacune. Viene poi confuso cosa si intende con digital divide, ovvero la differenza di diffusione delle tecnologie tra le diverse aree del paese e a seconda dei ceti sociali, e qui evidentemente il giornalista ignora che il 40% degli Italiani è ancora sprovvisto di una connessione internet veloce.

Per quanto riguarda i dati che il giornalista definisce ideologici, è proprio la sua di visione che nasce da un'ideologia pseudo-umanista e chiusa di fronte alla sperimentazione. Come provare che certe attività didattiche non presentino giovamenti per l'apprendimento senza la sperimentazione? Come fa il giornalista a provare che le nuove tecnologie non permettano di cogliere l'attenzione di quegli alunni che per decenni abbiamo ignorato, tra l'altro citando un solo testo a fronte delle centinaia, si guardi la semplice bibliografia della Pearson a riguardo, che dicono il contrario?

I dati OCSE PISA possono essere letti in molte maniere, tanto che lo stesso giornalista premette che si tratta di dati ancora poco esaustivi e suscettibili di ulteriori approfondimenti. Del resto, come già viene detto, entro certi limiti è provato un miglioramento dell'apprendimento. Dato che viene però opportunamente ignorato per citare solo l'eccesso di esposizione ai media. Ma se è questo il modello di ragionamento, allora possiamo anche dire che un qualsiasi eccesso nell'istruzione si è mostrato negli anni controproducente: troppe ore a scuola eseguendo le stesse attività, troppi compiti per casa o, viceversa, un'eccessiva riduzione dell'orario scolastico, la sua frammentazione in troppe attività, la negazione del lavoro domestico.

Studi americani condotti sugli iscritti ai college hanno dimostrato che non c'è legame tra l'esposizione alla rete, i livelli di concentrazione raggiunti e mantenuti, e i risultati ottenuti. Il modificarsi dei modelli cognitivi fra gli studenti dei college non porta sostanziali cambiamenti nei risultati, né positivi, né negativi. Quello che cambia è il linguaggio che viene adoperato, il linguaggio che, voglia o non voglia il giornalista, viene comunemente adoperato dai ragazzi nel loro rapportarsi con la rete.

Senza considerare che l'educazione ai media presenta vantaggi nell'istruzione per coloro che la scuola italiana volutamente dimentica, ovvero i disabili, gli alunni con disturbi dell'apprendimento, gli alunni con problematiche sociali. Il sospetto è che l'autore parli di una scuola d'élite, per coloro che i media già li sanno usare e devono allora raggiungere l'eccellenza altrove. Peccato che la scuola debba insegnare anche a coloro che, privi di qualsiasi formazione critica, sono le vittime più facili per i tranelli della rete: non basterà ignorare il problema per risolverlo. Così audiolibri, lavagne interattive, slides, ricostruzioni in tre dimensioni, mappe concettuali, testi interattivi e multimediali, ipertesti, linee del tempo, tutti questi strumenti possono facilitare il raggiungimento di livelli di apprendimento più alti per coloro i quali non riusciamo a raggiungere con la semplice lezione frontale e la lettura del libro cartaceo, strumenti utilissimi e da integrare con le nuove tecnologie, ma che, ne abbiamo ogni giorno testimonianza, hanno reso la scuola italiana semplicemente lo strumento per mantenere i ricchi e i colti sempre più ricchi e sempre più colti, i poveri e gli ignoranti sempre più poveri e sempre più ignoranti.

Concludiamo sulla nebulosa, per il giornalista, definizione di lettura digitale. L'articolo la sminuisce semplicemente ad un "mi piace" su un social network. Certo una maniera efficace per nascondere una visione, questa sì ideologica ed elitaria, di chi non si macchia e non si sporca nel confronto pubblico di un'arena virtuale come possono essere i social network, di chi pensa che una lettura che intreccia testi, delinea inferenze, insomma propone un tracciato critico e di confronto come un pericolo, di chi pensa ad una società e ad una cultura orizzontale anziché verticale come un rischio per le gerarchie costituite, una cultura costruita dal basso anziché imposta dall'alto come una pericolosa utopia. Insomma, una visione che nasce da una ideologia ben precisa, conservatrice e mascherata dal perbenismo. Un formidabile strumento per chi non vuole cambiare le cose, non sente il bisogno di mostrare i limiti della propria cultura per superarli, di chi insomma con questa Italia senza una scala mobile sociale ci è andato, ci va e ci andrà a nozze.

 

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