La chiamata alle armi (per un'istruzione pubblica e laica)
Succede che certi comportamenti, usciti dalla porta principale, rientrino dalle finestre o dalle porte di servizio: così mentre il governo dei tecnici sembra (sarà poi vero?) sembra portato un po' di educazione e senso civico nel governo nazionale, non di meno a livello locale si tenta di far passare ancora il principio che il diritto è qualcosa di aleatorio. In particolare questo tentativo riguarda quei campi in cui interessi politici, economici e "religiosi" (nel senso peggiore del termine) si vanno a congiungere. Ovvero i diritti dei lavoratori e quelli dell'istruzione.
Due norme su tutte stanno colpendo in questi giorni la scuola italiana: da un lato la norma di recente approvata dal consiglio regionale della Lombardia che dà il diritto alle scuole professionali regionali di chiamare autonomamente, in determinati casi, i loro docenti, senza avvalersi delle graduatorie; dall'altro lato il tentativo, da parte della regione Trentino Alto Adige, di avvalersi per la chiamata dei docenti non di graduatorie provinciali così come nel resto del paese, ma di albi regionali o provinciali che, sia chiaro, prevedano come condizione d'iscrizione la residenza in quella provincia.
Perché queste norme sono da contestare? I motivi sono abbastanza evidenti a chiunque non voglia chiudere gli occhi sulla scuola pubblica italiana (e ribadisco l'aggettivo pubblica). È sicuramente vero che la scuola in Italia risente di un calo delle prestazioni degli insegnanti, ma il problema non potrà certo essere risolto creando rapporti clientelari verso i dirigenti sempre più manager e burocrati e sempre meno interessati a fornire una scuola di livello, quanto invece a presentare una scuola appetibile alle iscrizioni dei più variegando i corsi forniti sotto le spinte delle mode momentanee e di giovanilismi futili, eliminando invece ore di didattica che potrebbero essere solo utili per l'istruzione e la formazione di chi è il fruitore ultimo del servizio, l'alunno. La chiamata diretta da parte dei dirigenti scolastici invece porterà allo scardina mento di quelle graduatorie che, con tutti i loro difetti, sono state uno strumento di democratizzazione dell'insegnamento, permettendo a chiunque in Italia di insegnare ovunque sulla base di principi certificati, ovvero merito, esperienza e competenza. Strumento da ritoccare, da aggiustare, non da eliminare o evitare.
Le normative proposte in Trentino e in Lombardia non fanno altro che cercare di introdurre altri principi, non attinenti alla didattica o al merito, ma criteri localistici. Si vuole rafforzare il potere dei potentati di turno o accarezzare le farneticazioni localistiche che vedono nell'estraneo, in colui che viene da fuori, AL DI LÀ DI OGNI SUO MERITO, un nemico da rimandare a casa. Sono norme frutto di ignoranza, ipocrisia e di interessi, e vanno contestate.
E sono il frutto, spiace ripeterlo per l'ennesima volta, di una cultura conservatrice che ha i suoi paradigmi nella follia localistica dei leghismi, la stessa follia che vuole imporre lo studio dei dialetti in una scuola in cui si fa fatica anche solo ad alfabetizzare, che disegna simboli di regioni inesistenti nelle scuole pubbliche.
Ma sono il frutto anche di una cultura cattolica incapace di accettare il fatto che dal 1989 lo stato italiano è uno stato laico e che la legislazione italiana non deve avere un occhio di riguardo per nessuna chiesa, men che meno per quella cattolica che già fin troppo ha avuto dall'Italia. La difesa ad oltranza di Comunione e Liberazione, organizzazione a cui appartiene apertamente anche il presidente della regione Lombardia Formigoni, nei confronti prima delle scuole private cattoliche (e che l'istruzione data da queste scuole sia superiore a quella fornita dalle scuole pubbliche, dati alla mano, è tutto da dimostrare) e poi della privatizzazione della scuola pubblica è il chiaro segnale che da parte di questo movimento cattolico c'è solo un interesse miope, un interesse rivolto verso il compiacimento delle istanze provenienti dalla chiesa cattolica, non certo verso gli interessi dei lavoratori e, soprattutto, dei discenti che meriterebbero scuole attrezzate e non fatiscenti, classi che non superino i venti alunni in presenza di alunni disabili, il rispetto del diritto al sostegno, la possibilità per ogni alunno di usufruire di attività realmente laboratoriali e non di progettini accampati alla bene e meglio solo perché i fondi sono quelli che sono e non vanno persi, mentre i docenti già ora si vedono spesso pagati in ritardo e in maniera scandalosamente inadeguata al loro lavoro e alle responsabilità che devono accettare nel far fronte, nelle ore lavorative, alle inadempienze delle altre istituzioni, in primis QUELLA FAMIGLIA DI CUI FORSE E MEGLIO CL SI DOVREBBE OCCUPARE.
Protestare di fronte a questo modo di governare la scuola non è solo un diritto, è anche un dovere.
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