Il cavaliere errante
C'era una volta un cavaliere errante.
Certo questo è l'inizio di chissà quante storie e, sicuramente, questa non varrà più delle altre. Ma forse le storie vanno scritte per conoscerne il valore, perché, anche non avessero alcun lettore, le loro parole rimarranno. Almeno questo si augura ogni narratore.
Era l'epoca in cui la prateria si estendeva indistinta, ai suoi confini nasceva folta la foresta di querce, lontani lungo i sentieri sorgevano nascosti i villaggi di uomini sparuti. Fra tutti i villaggi, ce ne è uno che ci interessa particolarmente, quello di Numenor, ridente piccolo assembramento di case e, distante, di qualche fattoria. Fattoria per modo di dire, perché gli uomini di questa epoca conoscono poco delle arti della coltivazione, a maggior ragione in questa landa sperduta lontana dai grandi traffici commerciali, dalle grandi conquiste della civiltà: insomma di oggetti come fornelli, polvere da sparo e bidè neanche l'ombra. In quest'epoca la ruota faceva fatica a diffondersi, gli uomini avevano paura di tutto e quel trabiccolo ruotante non faceva che confermare loro la malignità delle invenzioni degli stregoni e degli uomini d'ingegno.
Si viaggiava quindi a piedi, a massimo a cavallo di qualche mulo e ci si accontentava di poco: qualche gallina per le uova e per tirarle il collo all'occorrenza, i grugniti del porco e della scrofa, qualche agnello da sacrificare al buon dio che lo restituisse gentilmente così come gentilmente l'agnello gli era stato immolato. Che poi chissà perché questa pratica di immolare gli animali è sempre esistita, quasi che per l'uomo, sempre, la vita altrui abbia avuto valore solo in funzione di migliorare la propria. E forse certe cose non cambiano mai.
C'era una volta un cavaliere errante, dicevamo, c'era anche un fiore di loto, nero, nascosto in quelle foreste. Nessuno sapeva bene dove si trovasse ma tutti gli uomini ne avevano sentito parlare. La caccia a quel fiore era lo sport più diffuso, insieme al condurre di tanto in tanto qualche donna in un fienile per sollazzarsi della sua compagnia. In realtà ambo le attività venivano praticate con scarso successo dagli uomini di Numenor: la prima, la ricerca del fiore, perché quegli uomini in realtà ancora non avevano definito per bene a cosa corrispondessero esattamente le loro parole, quasi che ancora non esistesse la convenzione per cui un termine corrisponde ad un significato. Il risultato era ovvio: tutti cercavano il fiore di loto nero, ma cosa fosse realmente, nessuno di loro lo sapeva davvero. Ed ecco che qualcuno tornava a casa con una margherita, qualcuno con una rosa, qualcuno con un ramo, qualcuno infine portandosi dietro il tronco di una quercia.
Per quanto riguarda poi l'altra attività, quella del portare fanciulle più o meno compiacenti in giro per fienili, la cosa spesso finiva per andare per le lunghe: gli uomini guardavano circospetti le loro prede, le squadravano per bene, le misuravano con gli occhi. Seguiva poi l'approccio, facendo i vaghi, avvicinando la casta diva con fiori raccolti fra i campi. Come già detto, anche quando un uomo chiedeva consiglio ad uno di quelli che si pavoneggiava di essere più esperto, finiva comunque per portare fiori a caso, proprio perché non sapeva in realtà quali stesse raccogliendo in dono alla sua donna. Questo problema si ripeteva tale e quale per ogni altro dono che l'uomo volesse fare per accaparrarsi il favore della pulzella, finendo così per rendere inutili tutti gli sforzi compiuti.
Del resto non andava meglio quando gli uomini tentavano di conquistare con serenate e poesie quegli occhi ammiccanti che scambiavano con loro sguardi ardenti dai balconi: le loro parole si susseguivano vaghe e senza senso, una serie di suoni più o meno articolati che ciascuno proferiva secondo un proprio perché, incomprensibili a chi le ascoltasse. Insomma, praticamente inutili. Era tutto un succedersi di sforzi dolorosi e senza esito e, quando uno di questi corteggiamenti andava a buon fine, era semplicemente perché la donna, ormai stanca, si faceva seguire con gli sguardi e, infine, era lei a prendere iniziative inequivocabili.
C'è da chiedersi, stando così le cose, come avessero potuto gli abitanti di Numeror divenire saldi e vigorosi tanto da popolare l'intero villaggio ed espandersi nelle terre vicine, fino quasi a divenire il fiore all'occhiello del piccolo reame. Sì, dimenticavamo di dirlo, ci troviamo in un regno, un regno di un'epoca non meglio precisata, di quelle di cui si narra nelle storie che i nonni raccontano ai nipoti per farli addormentare: ma ci auguriamo che sui nostri buoni lettori questo racconto non abbia lo stesso effetto (o forse questo è ciò che vi augurate?).
Di questo regno Numenor era la capitale, con i suoi circa 500 abitanti del resto non poteva che essere così, dato che da soli quegli uomini nerboruti costituivano la maggior parte della forza militare del piccolo stato che si estendeva dal querceto fino alle praterie, con dei confini non meglio precisati. Ci pensavano i nemici, di tanto in tanto, a precisarli.
Come si sarà capito la caratteristica di questo regno era l'assoluta incapacità degli abitanti di non dico adoperare una lingua, ma già solo d'immaginarla. Insomma, ciascuno diceva e pensava un po' quello che gli pareva, tanto nessun altro lo intendeva. Era di certo un modo strano di vivere per noi, uomini di un'epoca altamente evoluta in cui tutto è comunicazione, tutti siamo irrefrenabilmente connessi tanto che ciò che ciascuno di noi pensa di aver detto rimbalza seduta stante dall'altro capo del globo per tornare, indiscreto, alle orecchie attente del nostro vicino di casa. Eppure c'avevano fatto il callo gli abitanti di Numenor, dal piccolo contadino fino al re dei re, Altimer: titolo sicuramente pretenzioso per il sovrano di cinquecento anime, per quanto ben fatte.
Ma ritornando a noi, all'inizio di questo racconto. Dicevamo che c'era un cavaliere errante.
Ma c'era anche una regina bianca, la sposa di Altimer. Remitla, questo era il suo nome, viveva nella fastosa reggia di tre stanze del sovrano, assieme ad Altimer stesso e ad una bambina, la loro figlia, la piccola principessa Emi. La famiglia reale regnava su Numenor ormai da anni, ma mentre lo scorrere del tempo era stato crudele nei confronti del re, la regina bianca, bianca nel colore della pelle così come nel colore del suo animo, lei si era mantenuta giovane, giovane. C'era chi parlava di magia, chi diceva che in realtà la regina era una strega: forse era vero, chissà, a questo punto del racconto non ci è dato saperlo, e questo è un nodo che affronteremo quando sarà necessario per le avventure del nostro buon cavaliere, o almeno lo immaginiamo ora, mentre la nostra storia inizia a dipanarsi. Intanto la regina passava le sue lunghe giornate chiusa nella reggia insieme alla piccola Emi, accudendola amorevolmente ed educandola in modo da poter essere la futura regina del regno. Così la bambina apprendeva dalla mano regale della madre l'arte della filatura, accresceva le sue abilità di cuoca raffinata e, di tanto in tanto, si apprestava a qualche sacrificio, umano, se serviva.
Sì, perché a Numenor per ingraziarsi gli dei, se serviva, qualche volta si procedeva anche a sacrifici umani.
Di che tipo? Semplice, quando la divinità lo richiedeva con chiari cenni, allora il buon re Altimer, inneggiando alla necessità della pratica per il bene della collettività, sceglieva a sua discrezione uno degli abitanti del vasto regno: questi veniva addobbato con delle corna caprine e degli zoccoli ai piedi e alle mani, incaprettato fra le urla di gioia dei concittadini, e le sue, decisamente meno ilari, trasportato su un altare e lì sacrificato.
Era una cosa abbastanza rapida, un gesto che in un certo senso apparteneva ormai alla consuetudine del luogo. Chiunque fra gli abitanti di Numenor aveva visto almeno un sacrificio e, qualche volta, avuto paura di essere lui la vittima.
E così, fra un sacrificio e un altro, le giornate passavano lente nel regno di Numenor, lì dove il re Altimer e la regina Remitla regnavano con saggezza e la piccola principessa Emi cresceva rigogliosa e con rapidità inaudita.
C'era una volta un cavaliere errante, dicevamo, ma vicino al regno di Numenor c'era anche un'alta torre, la torre della magia di Aster. Aster era il gran mago che vi abitava, mica il nome del luogo su cui sorgeva la torre, cosa vi credete: era un uomo alto e spiluccato sul cranio, con radi capelli scuri e scarmigliati, vestito d'un manto vecchio come lui e logoro, con una barbona appuntita che ne inseguiva i piedi ondeggiando copiosamente. Gli occhi erano grandi e profondi come le cavità che si aprivano nelle montagne a nord, lunghe fessure dentro cui scorrevano fiumi bui come la notte, sin dentro le viscere della terra, almeno così si dicevano gli abitanti di Numenor.
Aster non era gradito a Numenor, vuoi perché le sue parole, normalmente incomprese in un regno in cui ancora non esisteva una lingua, tuonavano tuttavia sempre come ammonimenti, come ordini perentori nei confronti di uomini inferiori. Egli giungeva sempre a Numenor in occasione di feste e cerimonie e rivoltava case, fienili, sagre e altari con le sue formule magiche e arcane. Ogni volta la sua furia si abbatteva contro il pio desiderio di sacrifici, sinché non giungeva la regina bianca a placarne le ire, imponendo ad Aster, con lo sguardo e parole sdegnate, di tornare da dove era venuto. Si diceva che Aster e Remitla si odiassero, che fossero stati amanti in un lontano passato, che fossero fratello e sorella. Chi lo dicesse poi, e rivolto a chi, questo è ignoto, in un regno in cui nessuno si capiva. Forse queste informazioni si diffondevano con gesti che, ad un osservatore esterno, potevano apparire di dubbio gusto.
Insomma, fatto sta che fra Aster e Remitla non correva buon sangue, e ogni giorno nella sua torre della magia il mago tramava contro il re e la regina; viceversa re e regina bandivano di continuo giochi e gare o trovare il campione che avrebbe sconfitto e soggiogato la volontà del mago.
Fu così che venne organizzata l'ennesima giostra da parte del re: nel bando, che nessuno intese, si leggeva che tutto il popolo di Numenor era invitato ad iscrissi alla competizione che avrebbe scelto il campione del regno da spedire, seduta stante, alla torre del mago per sconfiggerlo. Premio per cotanta tenzone e per la vittoria della gara sarebbe stata la mano della piccola principessa Emi e, raggiunta la maggiore età e consumato il matrimonio, il regno di Numenor.
Alla vista del bando in molti si affaccendarono per iscriversi: del resto, anche se nessuno aveva ben chiaro cosa si potesse leggere su un bando in un regno in cui nessuno sapeva leggere, tuttavia, ormai avvezzi alle giostre organizzate da re e regina, gli uomini del regno sapevano bene di cosa si trattasse. Una competizione a cavallo in cui, due cavalieri opposti l'uno all'altro si sarebbero scontrati e sarebbe stato dichiarato vincitore di ogni scontro colui che avesse disarcionato l'avversario; così via fino a decretare il vincitore della giostra. Che poi il campione dovesse affrontare Aster, anche questo era chiaro ai più: già vari vincitori delle passate giostre erano stati spediti contro il mago che ne aveva cordialmente restituito i resti ancora fumanti. Insomma, la normale vita di paese di quell'epoca.
C'era una volta questo cavaliere errante insomma, ma per questa volta il cavaliere decise di passare e di non iscriversi alla giostra.
Fu così che la giostra si tenne in maniera ordinata e composta, fra le urla delle donne che incitavano gli uomini, sperando forse che qualcuno, magari quello più virile, dopo le riportasse a casa e, fra una chiacchiera e l'altra, sai, ci sarebbe il fienile dietro...insomma, facevano il tifo mentre i cavalieri si affrontavano con sprezzo del pericolo, armati di tutto punto di quello che la natura e lo stato delle loro conoscenze in quanto a tecnologia militare potevano offrire. Così, più simili a spaventapasseri che a militi, i cavalieri di Numenor si affrontavano brandendo forconi e badili, qualcuno adoperando a mo' di cotta una morbida coltre di piume di gallina cucita e tenuta insieme da odoroso sterco di porco. Non certo un bel vedere e un bel sentire, ma di sicuro un modo morbido e avvolgente per attutire colpi e cadute. Era quindi un'armata che un osservatore venuto da chissà dove avrebbe potuto giudicare ben ridicola, ma quanto di meglio si potesse chiedere al piccolo regno del re Altimer e della regina Remitla.
I concorrenti si affrontarono senza sentire fame né paura per quasi mezza giornata, rincorrendosi lungo la pista come cani da caccia, pronti a colpirsi, a spintonarsi, a maledire il nome dell'avversario che li aveva tirati giù da cavallo con parole incomprensibili, come si sa, non perché si trattasse di maldicenze arcane, ma semplicemente perché quei borbottii erano i suoni ignoti di lingue senza parlanti.
Quando giunse la notte stavano per affrontarsi i due finalisti, un cavaliere dall'armatura bianca, una cotta di maglia leggera tinta del colore delle pareti di casa sua, per arma un forcone reperito nella baracca della sua stalla. Un ricco possidente di quel regno, da tempo invaghito della regina e in segreto speranzoso, vincendo la giostra, di poter poi pretendere di mettersi sl servizio della sua dama. Il suo nome era Alcot.
Dall'altro lato si schierava il secondo cavaliere, un giovane ancora imberbe, un bambino prodigio che già quando aveva tre anni era il migliore fra i suoi coetanei nell'arte dell'equitazione e che, ora che si avviava verso l'adolescenza, bellamente si faceva gioco degli adulti del regno. Il suo nome era Tocai, ma dai più era chiamato Scricciolo per le sue magre dimensioni e la sua agilità senza pari. Quando cavalcava Scricciolo sembrava veloce come il vento, il suo destriero, uno stallone avvezzo tanto alle gare quanto alla monta, scrosciava sul terreno appena battuto come un fiume in corsa. Era uno spettacolo insomma, questo Scricciolo.
La luna balenava fra le nubi e le stelle, vivacchiando di una luce sottile e pensosa; tra le montagne del nord di tanto in tanto appariva una flebile luce, il fuoco di qualche accampamento lontano o il gioco di rimandi e di specchi che talora i bagliori della notte rifrangono su corsi d'acqua e primi ghiacci. La notte avvolgeva il campo ormai del suo manto diffuso, fatto di sogni pronti a vivere nelle menti degli amanti e dei folli, di passioni malcelate, di paure, pensieri e desideri. E in tutto questo, in un luogo che non è un luogo ed un tempo che non è un tempo, lì dove parole umane non hanno asilo, i due cavalieri si lanciarono nella loro giostra. Una corsa senza senso, folle di follia atavica, il puro desiderio di essere primi, di essere qualcosa che non si è mai davvero, mai per sempre. Le armi si schiantarono in un cozzare più poderoso di quanto un forcone ed una spada mal forgiata potessero fare intendere: il colpo, solo e ben assestato, riecheggiò nei timpani dei presenti, di Altimer e Ramitla, abbagliò persino gli occhi di Aster, lì nascosto fra le povere genti di Numenor.
Poi con un balzo, Scricciolo saltò in piedi al suo stallone, celebrando la sua vittoria, mentre Alcot sfracellava con fragore.
C'era una volta un cavaliere errante, egli assistette alla vittoria di Tocai ed in cuor suo fu felice di non aver preso parte alla giostra.
Dopo pochi giorni Tocai, Scricciolo, era già pronto per la sua impresa. Riverito da Altimer e Ramitla, aveva con una cerimonia ricevuto la promessa di matrimonio della principessina, la piccola Emi. Ma per ottenere la mano della principessa ed il regno futuro egli avrebbe dovuto recare al re e alla regina lo scalpo del mago Aster. Un solo modo c'era per giungere all'obiettivo: recarsi presso la torre del mago, sopravvivere alle sue prove e sconfiggerlo, spada alla mano, furia nera nel cuore. E qui finivano le certezze e i buoni propositi e si annidavano i dubbi e le parure. Come fare? Varie le teorie, varie le ipotesi che, già durante il viaggio cominciato di gran carriera, Scricciolo si trovava a meditare, masticandole fra i pezzi di carne secca e le canne che aveva portato con se quali ristoro durante la cavalcata.
Il fiero stallone, compagno di viaggio, di tanto in tanto nitriva, reclamando il suo bisogno di riposo, di quiete lungo la strada e, perché no, siamo tutte persone colte, di montare qualche bella giumenta. Del resto, come dargli torto, era partito, lui, senza che il suo viaggio avesse uno scopo, senza che il suo viaggio avesse una meta, un fine, senza il premio di una lauta ricompensa. Partiva, lui, lo stallone, non sapeva bene perché, mentre il suo cavaliere inseguiva un sogno, una sposa e un regno, a guardar bene frutto della sua fantasia, dato che non c'era parola che avesse compreso che potesse garantire che quello sarebbe stato il suo destino.
Era insomma un bel gioco, il frutto di tanti giochi diversi, di cui nessuno però conosceva le regole. E se ciascuno giocava con le sue carte, e i giocatori mescolavano le mani e le puntate, chi davvero poteva dire chi, infine, avesse davvero giocato meglio? Chi infine poteva dire quale davvero fosse il gioco?
Giunto alle porte della torre, Scricciolo non seppe più cosa fare. Il suo stallone era stanco, aveva percorso quella lunga via notte e giorno, a parte le brevi soste che ogni tanto il cavaliere concedeva alla sua cavalcatura. La torre si ergeva in tutta la sua impotenza nel bel mezzo di una radura contornata da una fitta vegetazione. La sensazione era quasi che, una volta messo piede in quel luogo, non se ne sarebbe potuti andar via se non per volontà della torre stessa. Tutto intorno era un gran silenzio, neanche lo stormire delle fronde sembrava volesse rovinare quella pace assoluta. Non si udiva vociare di uomini, in nessuna lingua volessero parlare, non si udivano rumoreggiare gli animali. L'acqua, sebbene scorresse copiosa in un fiumiciattolo vicino, pareva non voler rovinare la pace di quel luogo com il suo scrosciare, sicché anche le correnti avanzavano di fronte alla torre con il passo lento dei secoli. Tutto diceva di immobilità e quiete, di una pace gelida come la morte, silenziosa come il pensiero più profondo.
Ma di tutte queste riflessioni che sarebbero venute in mente ad un saggio, poco importava a Scricciolo. Il suo problema più impellente era come penetrare nella torre per sconfiggere il marrano di turno, quell'Aster di cui pensava tanto male senza avere neanche ben chiaro il perché.
Non gli venne in mente niente di meglio che bussare per vedere se qualcuno gli potesse aprire.
Con sua grande sorpresa, il portone si aprì, lasciando entrare cavaliere e destriero.
Varcato che ebbe l'ingresso, Scricciolo si trovò di fronte un salone buio, immenso, come l'esterno della torre non lasciava immaginare; non riuscendo a distinguere per bene i confini della sala, il cavaliere si trovò confuso, senza sapere bene come muoversi e che direzione intraprendere. Anche lo stallone, Manteo, così si chiamava, era nervoso e lo mostrava con continui nitriti e scalpitando. Lentamente entrambi proseguirono in linea retta, sperando di incontrare una porta o una luce, qualcosa che potesse indicare la via. Scricciolo si ricordò d'aver portato con sé una torcia, le diede fuoco sfregandola contro il pavimento, ma non appena il bagliore della fiamma illuminò i muri vicini, un alito di vento la spense, zittendo e quietando le flebili speranze che erano nate nel giovane eroe.
Una voce risuonò, potente, ululando nella sala: era quella di Aster, di questo Scricciolo era sicuro. Il mago invitava Tocai a proseguire se aveva coraggio e, incredibilmente, quelle parole furono chiare anche al giovane, gli penetrarono nel cuore prima ancora che nella mente. Era la prima volta che gli succedeva e la sensazione lo lasciò stordito, sbigottito. Mentre gli inviti del mago continuavano ad echeggiare, Tocai iniziava ad accorgersi di come quella voce fosse tutt'altro che ostile, di come il tono di quel mago fosse amichevole, familiare, paterno. Era semplicemente la voce che non aveva mai sentito, la lingua che non aveva mai ascoltato in Numenor.
C'era una volta un cavaliere errante, e questi, privo di patria e di nome, incontrò per sbaglio Altimer e Ramitla, per la via, mentre questi scendevano in città, fra la gente, e con i gesti e parole incomprese imponevano la loro legge. E il cavaliere li osservò mentre questi ricambiavano lo sguardo, ma rimase in silenzio, perché in quel regno, Numenor, lì dove la lingua non era una lingua, le parole non erano parole e le idee erano il muto simulacro di un'immagine silenziosa che si spegneva nella mente delle genti, lì allora non c'era niente da dire.
Tocai scese da cavallo, tanto ormai non c'era più bisogno di quel destriero. Lo lasciò alle soglie di un giardino che si apriva al piano terra della torre, interno, nascosto. Un ruscelletto lo bagnava scorrendo sonoramente, dalle sue cascatelle melodiosa nasceva una canzone che raccontava di infiniti spazi e infiniti silenzi, dello scorrere delle epoche, di monti e siepi e di mari, ampi come i mari antichi che tanto attraevano siccome tanto terrorizzavano. E per molti marinai era tanto dolce il naufragio in quelle distese senza confine.
Tocai prese a camminare attraverso un sentiero: il sentiero si dipanava come scalando le coste di una cima, ascendendo verso una vetta che ancora non intravedeva ma che doveva essere la cima della torre. tutto intorno un bosco via via più fitto, alberi sempreverdi si accostavano al suo viso, quasi vivi, sembravano avvicinarsi e allontanarsi a loro piacere, mentre un ricco sottobosco di cespugli, muschi, pareva avvinghiarsi giocosamente alle sue caviglie, corrergli intorno, canzonarlo.
Improvvisa accadde l'epifania di Aster.
Il mago gli comparve davanti come un uomo qualunque, vestito di un manto marrone, sembrava tessuto alla buona, eppure abbastanza caldo e accogliente da poter reggere agli abissi di infinite ere. I capelli erano scuri, corti, scendevano in una ciocca spettinata lungo la fronte, coprendo in parte delle sopracciglia folte e una fronte resa rugosa dallo studio di anni. Delle labbra sottili si insinuavano in una mascella secca e incavata. Ispirava rispetto, più che beltà.
Aster salutò calorosamente Tocai con un cenno della mano:
- Finalmente sei giunto, cavaliere.
Tocai si stupì nuovamente: capiva quanto gli veniva detto.
- Non stupirti, buon Tocai. Non è una mia magia questa, ma è la magia di questa torre; qui tutte le lingue si fondono e qualsiasi uomo giunga fra questi muri, qualsiasi uomo passeggi in questo sentiero è perfettamente in grado di intendere quanto gli altri dicono, pensano e vogliono. Questa torre nacque prima di ogni tempo, prima di me, prima di Altimer, prima di Ramitla, prima forse della vita stessa.
In questa torre si conserva la saggezza dei tempi, in questa torre si svelano gli inganni, si raccolgono i senni e il genio delle genti qui si conserva imperituro.
So che quanto ti sto dicendo penetra la tua mente, i tuoi nervi per la prima volta raccolgono le parole dette da un'altra anima. Eppure non capisci. Solo chi si è nutrito del frutto di questa torre è capace di comprendere tutto, di svelare gli inganni.
Ma dimmi, perché sei giunto qui?
Ma Tocai non seppe rispondere; ora che era difronte ad Aster, il senso della sua missione sfuggiva, scorreva fra le dita come la sabbia che si perde nel mare quando il fiume imperioso si getta nel suo estuario.
- Non ricordi, Tocai? Sei giunto qui per uccidermi. Te l'hanno ordinato Altimer e Ramitla. Loro vi tengono sotto la loro signoria, loro che, pur essendo vissuti in questa torre, non sono riusciti mai a nutrirsi di ciò che solo qui vive. Ma ciò che non ti hanno detto, è che l'unico modo che avrai per uccidermi e divenire il futuro sovrano di Numenor - e sarà poi vero? - è mangiare il fiore di loto nero, che ogni verità contiene. Ma quando conoscerai ogni verità, e conoscerai ogni inganno a cui vi sottopose la vita, la consuetudine, l'incomprensione, allora, Tocai, mi ucciderai o mi succederai? O non sono io altro che la tua immagine riflessa? non sono forse io, Aster, colui che uccise la verità per possederla?
Mentre Aster parlava, un bagliore, poco lontano il sentiero, colpì l'attenzione di Scricciolo, di un Tocai qualsiasi che d'improvviso diveniva l'ago della bilancia del futuro del mondo. Istintivamente, quando le parole del vecchio cessarono di risuonare nel suo cuore, si avvicinò a quella luce. Dentro uno scrigno intarsiato di motivi floreali, un frutto, buio come la notte eppure luccicante come le stelle del firmamento quando le nubi non le coprono.
Tocai esitò, si voltò indietro e vide che Aster era poco scostato, sorridente. Gli occhi però erano corrugati in una espressione al confine tra la tristezza e il sollievo.
Tocai afferrò il frutto e, con un gesto veloce, lo prese a morsi, sempre più voraci, fino a divorarlo.
E poi Tocai conobbe ogni verità e ogni inganno, ogni contraddizione, ogni parola e ogni fraintendimento. E il suo senno, nella conoscenza, fu perso.
C'era una volta un cavaliere errante, ma la sua via era ormai lontana da Numenor, e la sua storia, se mai sarà, sarà la storia di un altro racconto.
Certo questo è l'inizio di chissà quante storie e, sicuramente, questa non varrà più delle altre. Ma forse le storie vanno scritte per conoscerne il valore, perché, anche non avessero alcun lettore, le loro parole rimarranno. Almeno questo si augura ogni narratore.
Era l'epoca in cui la prateria si estendeva indistinta, ai suoi confini nasceva folta la foresta di querce, lontani lungo i sentieri sorgevano nascosti i villaggi di uomini sparuti. Fra tutti i villaggi, ce ne è uno che ci interessa particolarmente, quello di Numenor, ridente piccolo assembramento di case e, distante, di qualche fattoria. Fattoria per modo di dire, perché gli uomini di questa epoca conoscono poco delle arti della coltivazione, a maggior ragione in questa landa sperduta lontana dai grandi traffici commerciali, dalle grandi conquiste della civiltà: insomma di oggetti come fornelli, polvere da sparo e bidè neanche l'ombra. In quest'epoca la ruota faceva fatica a diffondersi, gli uomini avevano paura di tutto e quel trabiccolo ruotante non faceva che confermare loro la malignità delle invenzioni degli stregoni e degli uomini d'ingegno.
Si viaggiava quindi a piedi, a massimo a cavallo di qualche mulo e ci si accontentava di poco: qualche gallina per le uova e per tirarle il collo all'occorrenza, i grugniti del porco e della scrofa, qualche agnello da sacrificare al buon dio che lo restituisse gentilmente così come gentilmente l'agnello gli era stato immolato. Che poi chissà perché questa pratica di immolare gli animali è sempre esistita, quasi che per l'uomo, sempre, la vita altrui abbia avuto valore solo in funzione di migliorare la propria. E forse certe cose non cambiano mai.
C'era una volta un cavaliere errante, dicevamo, c'era anche un fiore di loto, nero, nascosto in quelle foreste. Nessuno sapeva bene dove si trovasse ma tutti gli uomini ne avevano sentito parlare. La caccia a quel fiore era lo sport più diffuso, insieme al condurre di tanto in tanto qualche donna in un fienile per sollazzarsi della sua compagnia. In realtà ambo le attività venivano praticate con scarso successo dagli uomini di Numenor: la prima, la ricerca del fiore, perché quegli uomini in realtà ancora non avevano definito per bene a cosa corrispondessero esattamente le loro parole, quasi che ancora non esistesse la convenzione per cui un termine corrisponde ad un significato. Il risultato era ovvio: tutti cercavano il fiore di loto nero, ma cosa fosse realmente, nessuno di loro lo sapeva davvero. Ed ecco che qualcuno tornava a casa con una margherita, qualcuno con una rosa, qualcuno con un ramo, qualcuno infine portandosi dietro il tronco di una quercia.
Per quanto riguarda poi l'altra attività, quella del portare fanciulle più o meno compiacenti in giro per fienili, la cosa spesso finiva per andare per le lunghe: gli uomini guardavano circospetti le loro prede, le squadravano per bene, le misuravano con gli occhi. Seguiva poi l'approccio, facendo i vaghi, avvicinando la casta diva con fiori raccolti fra i campi. Come già detto, anche quando un uomo chiedeva consiglio ad uno di quelli che si pavoneggiava di essere più esperto, finiva comunque per portare fiori a caso, proprio perché non sapeva in realtà quali stesse raccogliendo in dono alla sua donna. Questo problema si ripeteva tale e quale per ogni altro dono che l'uomo volesse fare per accaparrarsi il favore della pulzella, finendo così per rendere inutili tutti gli sforzi compiuti.
Del resto non andava meglio quando gli uomini tentavano di conquistare con serenate e poesie quegli occhi ammiccanti che scambiavano con loro sguardi ardenti dai balconi: le loro parole si susseguivano vaghe e senza senso, una serie di suoni più o meno articolati che ciascuno proferiva secondo un proprio perché, incomprensibili a chi le ascoltasse. Insomma, praticamente inutili. Era tutto un succedersi di sforzi dolorosi e senza esito e, quando uno di questi corteggiamenti andava a buon fine, era semplicemente perché la donna, ormai stanca, si faceva seguire con gli sguardi e, infine, era lei a prendere iniziative inequivocabili.
C'è da chiedersi, stando così le cose, come avessero potuto gli abitanti di Numeror divenire saldi e vigorosi tanto da popolare l'intero villaggio ed espandersi nelle terre vicine, fino quasi a divenire il fiore all'occhiello del piccolo reame. Sì, dimenticavamo di dirlo, ci troviamo in un regno, un regno di un'epoca non meglio precisata, di quelle di cui si narra nelle storie che i nonni raccontano ai nipoti per farli addormentare: ma ci auguriamo che sui nostri buoni lettori questo racconto non abbia lo stesso effetto (o forse questo è ciò che vi augurate?).
Di questo regno Numenor era la capitale, con i suoi circa 500 abitanti del resto non poteva che essere così, dato che da soli quegli uomini nerboruti costituivano la maggior parte della forza militare del piccolo stato che si estendeva dal querceto fino alle praterie, con dei confini non meglio precisati. Ci pensavano i nemici, di tanto in tanto, a precisarli.
Come si sarà capito la caratteristica di questo regno era l'assoluta incapacità degli abitanti di non dico adoperare una lingua, ma già solo d'immaginarla. Insomma, ciascuno diceva e pensava un po' quello che gli pareva, tanto nessun altro lo intendeva. Era di certo un modo strano di vivere per noi, uomini di un'epoca altamente evoluta in cui tutto è comunicazione, tutti siamo irrefrenabilmente connessi tanto che ciò che ciascuno di noi pensa di aver detto rimbalza seduta stante dall'altro capo del globo per tornare, indiscreto, alle orecchie attente del nostro vicino di casa. Eppure c'avevano fatto il callo gli abitanti di Numenor, dal piccolo contadino fino al re dei re, Altimer: titolo sicuramente pretenzioso per il sovrano di cinquecento anime, per quanto ben fatte.
Ma ritornando a noi, all'inizio di questo racconto. Dicevamo che c'era un cavaliere errante.
Ma c'era anche una regina bianca, la sposa di Altimer. Remitla, questo era il suo nome, viveva nella fastosa reggia di tre stanze del sovrano, assieme ad Altimer stesso e ad una bambina, la loro figlia, la piccola principessa Emi. La famiglia reale regnava su Numenor ormai da anni, ma mentre lo scorrere del tempo era stato crudele nei confronti del re, la regina bianca, bianca nel colore della pelle così come nel colore del suo animo, lei si era mantenuta giovane, giovane. C'era chi parlava di magia, chi diceva che in realtà la regina era una strega: forse era vero, chissà, a questo punto del racconto non ci è dato saperlo, e questo è un nodo che affronteremo quando sarà necessario per le avventure del nostro buon cavaliere, o almeno lo immaginiamo ora, mentre la nostra storia inizia a dipanarsi. Intanto la regina passava le sue lunghe giornate chiusa nella reggia insieme alla piccola Emi, accudendola amorevolmente ed educandola in modo da poter essere la futura regina del regno. Così la bambina apprendeva dalla mano regale della madre l'arte della filatura, accresceva le sue abilità di cuoca raffinata e, di tanto in tanto, si apprestava a qualche sacrificio, umano, se serviva.
Sì, perché a Numenor per ingraziarsi gli dei, se serviva, qualche volta si procedeva anche a sacrifici umani.
Di che tipo? Semplice, quando la divinità lo richiedeva con chiari cenni, allora il buon re Altimer, inneggiando alla necessità della pratica per il bene della collettività, sceglieva a sua discrezione uno degli abitanti del vasto regno: questi veniva addobbato con delle corna caprine e degli zoccoli ai piedi e alle mani, incaprettato fra le urla di gioia dei concittadini, e le sue, decisamente meno ilari, trasportato su un altare e lì sacrificato.
Era una cosa abbastanza rapida, un gesto che in un certo senso apparteneva ormai alla consuetudine del luogo. Chiunque fra gli abitanti di Numenor aveva visto almeno un sacrificio e, qualche volta, avuto paura di essere lui la vittima.
E così, fra un sacrificio e un altro, le giornate passavano lente nel regno di Numenor, lì dove il re Altimer e la regina Remitla regnavano con saggezza e la piccola principessa Emi cresceva rigogliosa e con rapidità inaudita.
C'era una volta un cavaliere errante, dicevamo, ma vicino al regno di Numenor c'era anche un'alta torre, la torre della magia di Aster. Aster era il gran mago che vi abitava, mica il nome del luogo su cui sorgeva la torre, cosa vi credete: era un uomo alto e spiluccato sul cranio, con radi capelli scuri e scarmigliati, vestito d'un manto vecchio come lui e logoro, con una barbona appuntita che ne inseguiva i piedi ondeggiando copiosamente. Gli occhi erano grandi e profondi come le cavità che si aprivano nelle montagne a nord, lunghe fessure dentro cui scorrevano fiumi bui come la notte, sin dentro le viscere della terra, almeno così si dicevano gli abitanti di Numenor.
Aster non era gradito a Numenor, vuoi perché le sue parole, normalmente incomprese in un regno in cui ancora non esisteva una lingua, tuonavano tuttavia sempre come ammonimenti, come ordini perentori nei confronti di uomini inferiori. Egli giungeva sempre a Numenor in occasione di feste e cerimonie e rivoltava case, fienili, sagre e altari con le sue formule magiche e arcane. Ogni volta la sua furia si abbatteva contro il pio desiderio di sacrifici, sinché non giungeva la regina bianca a placarne le ire, imponendo ad Aster, con lo sguardo e parole sdegnate, di tornare da dove era venuto. Si diceva che Aster e Remitla si odiassero, che fossero stati amanti in un lontano passato, che fossero fratello e sorella. Chi lo dicesse poi, e rivolto a chi, questo è ignoto, in un regno in cui nessuno si capiva. Forse queste informazioni si diffondevano con gesti che, ad un osservatore esterno, potevano apparire di dubbio gusto.
Insomma, fatto sta che fra Aster e Remitla non correva buon sangue, e ogni giorno nella sua torre della magia il mago tramava contro il re e la regina; viceversa re e regina bandivano di continuo giochi e gare o trovare il campione che avrebbe sconfitto e soggiogato la volontà del mago.
Fu così che venne organizzata l'ennesima giostra da parte del re: nel bando, che nessuno intese, si leggeva che tutto il popolo di Numenor era invitato ad iscrissi alla competizione che avrebbe scelto il campione del regno da spedire, seduta stante, alla torre del mago per sconfiggerlo. Premio per cotanta tenzone e per la vittoria della gara sarebbe stata la mano della piccola principessa Emi e, raggiunta la maggiore età e consumato il matrimonio, il regno di Numenor.
Alla vista del bando in molti si affaccendarono per iscriversi: del resto, anche se nessuno aveva ben chiaro cosa si potesse leggere su un bando in un regno in cui nessuno sapeva leggere, tuttavia, ormai avvezzi alle giostre organizzate da re e regina, gli uomini del regno sapevano bene di cosa si trattasse. Una competizione a cavallo in cui, due cavalieri opposti l'uno all'altro si sarebbero scontrati e sarebbe stato dichiarato vincitore di ogni scontro colui che avesse disarcionato l'avversario; così via fino a decretare il vincitore della giostra. Che poi il campione dovesse affrontare Aster, anche questo era chiaro ai più: già vari vincitori delle passate giostre erano stati spediti contro il mago che ne aveva cordialmente restituito i resti ancora fumanti. Insomma, la normale vita di paese di quell'epoca.
C'era una volta questo cavaliere errante insomma, ma per questa volta il cavaliere decise di passare e di non iscriversi alla giostra.
Fu così che la giostra si tenne in maniera ordinata e composta, fra le urla delle donne che incitavano gli uomini, sperando forse che qualcuno, magari quello più virile, dopo le riportasse a casa e, fra una chiacchiera e l'altra, sai, ci sarebbe il fienile dietro...insomma, facevano il tifo mentre i cavalieri si affrontavano con sprezzo del pericolo, armati di tutto punto di quello che la natura e lo stato delle loro conoscenze in quanto a tecnologia militare potevano offrire. Così, più simili a spaventapasseri che a militi, i cavalieri di Numenor si affrontavano brandendo forconi e badili, qualcuno adoperando a mo' di cotta una morbida coltre di piume di gallina cucita e tenuta insieme da odoroso sterco di porco. Non certo un bel vedere e un bel sentire, ma di sicuro un modo morbido e avvolgente per attutire colpi e cadute. Era quindi un'armata che un osservatore venuto da chissà dove avrebbe potuto giudicare ben ridicola, ma quanto di meglio si potesse chiedere al piccolo regno del re Altimer e della regina Remitla.
I concorrenti si affrontarono senza sentire fame né paura per quasi mezza giornata, rincorrendosi lungo la pista come cani da caccia, pronti a colpirsi, a spintonarsi, a maledire il nome dell'avversario che li aveva tirati giù da cavallo con parole incomprensibili, come si sa, non perché si trattasse di maldicenze arcane, ma semplicemente perché quei borbottii erano i suoni ignoti di lingue senza parlanti.
Quando giunse la notte stavano per affrontarsi i due finalisti, un cavaliere dall'armatura bianca, una cotta di maglia leggera tinta del colore delle pareti di casa sua, per arma un forcone reperito nella baracca della sua stalla. Un ricco possidente di quel regno, da tempo invaghito della regina e in segreto speranzoso, vincendo la giostra, di poter poi pretendere di mettersi sl servizio della sua dama. Il suo nome era Alcot.
Dall'altro lato si schierava il secondo cavaliere, un giovane ancora imberbe, un bambino prodigio che già quando aveva tre anni era il migliore fra i suoi coetanei nell'arte dell'equitazione e che, ora che si avviava verso l'adolescenza, bellamente si faceva gioco degli adulti del regno. Il suo nome era Tocai, ma dai più era chiamato Scricciolo per le sue magre dimensioni e la sua agilità senza pari. Quando cavalcava Scricciolo sembrava veloce come il vento, il suo destriero, uno stallone avvezzo tanto alle gare quanto alla monta, scrosciava sul terreno appena battuto come un fiume in corsa. Era uno spettacolo insomma, questo Scricciolo.
La luna balenava fra le nubi e le stelle, vivacchiando di una luce sottile e pensosa; tra le montagne del nord di tanto in tanto appariva una flebile luce, il fuoco di qualche accampamento lontano o il gioco di rimandi e di specchi che talora i bagliori della notte rifrangono su corsi d'acqua e primi ghiacci. La notte avvolgeva il campo ormai del suo manto diffuso, fatto di sogni pronti a vivere nelle menti degli amanti e dei folli, di passioni malcelate, di paure, pensieri e desideri. E in tutto questo, in un luogo che non è un luogo ed un tempo che non è un tempo, lì dove parole umane non hanno asilo, i due cavalieri si lanciarono nella loro giostra. Una corsa senza senso, folle di follia atavica, il puro desiderio di essere primi, di essere qualcosa che non si è mai davvero, mai per sempre. Le armi si schiantarono in un cozzare più poderoso di quanto un forcone ed una spada mal forgiata potessero fare intendere: il colpo, solo e ben assestato, riecheggiò nei timpani dei presenti, di Altimer e Ramitla, abbagliò persino gli occhi di Aster, lì nascosto fra le povere genti di Numenor.
Poi con un balzo, Scricciolo saltò in piedi al suo stallone, celebrando la sua vittoria, mentre Alcot sfracellava con fragore.
C'era una volta un cavaliere errante, egli assistette alla vittoria di Tocai ed in cuor suo fu felice di non aver preso parte alla giostra.
Dopo pochi giorni Tocai, Scricciolo, era già pronto per la sua impresa. Riverito da Altimer e Ramitla, aveva con una cerimonia ricevuto la promessa di matrimonio della principessina, la piccola Emi. Ma per ottenere la mano della principessa ed il regno futuro egli avrebbe dovuto recare al re e alla regina lo scalpo del mago Aster. Un solo modo c'era per giungere all'obiettivo: recarsi presso la torre del mago, sopravvivere alle sue prove e sconfiggerlo, spada alla mano, furia nera nel cuore. E qui finivano le certezze e i buoni propositi e si annidavano i dubbi e le parure. Come fare? Varie le teorie, varie le ipotesi che, già durante il viaggio cominciato di gran carriera, Scricciolo si trovava a meditare, masticandole fra i pezzi di carne secca e le canne che aveva portato con se quali ristoro durante la cavalcata.
Il fiero stallone, compagno di viaggio, di tanto in tanto nitriva, reclamando il suo bisogno di riposo, di quiete lungo la strada e, perché no, siamo tutte persone colte, di montare qualche bella giumenta. Del resto, come dargli torto, era partito, lui, senza che il suo viaggio avesse uno scopo, senza che il suo viaggio avesse una meta, un fine, senza il premio di una lauta ricompensa. Partiva, lui, lo stallone, non sapeva bene perché, mentre il suo cavaliere inseguiva un sogno, una sposa e un regno, a guardar bene frutto della sua fantasia, dato che non c'era parola che avesse compreso che potesse garantire che quello sarebbe stato il suo destino.
Era insomma un bel gioco, il frutto di tanti giochi diversi, di cui nessuno però conosceva le regole. E se ciascuno giocava con le sue carte, e i giocatori mescolavano le mani e le puntate, chi davvero poteva dire chi, infine, avesse davvero giocato meglio? Chi infine poteva dire quale davvero fosse il gioco?
Giunto alle porte della torre, Scricciolo non seppe più cosa fare. Il suo stallone era stanco, aveva percorso quella lunga via notte e giorno, a parte le brevi soste che ogni tanto il cavaliere concedeva alla sua cavalcatura. La torre si ergeva in tutta la sua impotenza nel bel mezzo di una radura contornata da una fitta vegetazione. La sensazione era quasi che, una volta messo piede in quel luogo, non se ne sarebbe potuti andar via se non per volontà della torre stessa. Tutto intorno era un gran silenzio, neanche lo stormire delle fronde sembrava volesse rovinare quella pace assoluta. Non si udiva vociare di uomini, in nessuna lingua volessero parlare, non si udivano rumoreggiare gli animali. L'acqua, sebbene scorresse copiosa in un fiumiciattolo vicino, pareva non voler rovinare la pace di quel luogo com il suo scrosciare, sicché anche le correnti avanzavano di fronte alla torre con il passo lento dei secoli. Tutto diceva di immobilità e quiete, di una pace gelida come la morte, silenziosa come il pensiero più profondo.
Ma di tutte queste riflessioni che sarebbero venute in mente ad un saggio, poco importava a Scricciolo. Il suo problema più impellente era come penetrare nella torre per sconfiggere il marrano di turno, quell'Aster di cui pensava tanto male senza avere neanche ben chiaro il perché.
Non gli venne in mente niente di meglio che bussare per vedere se qualcuno gli potesse aprire.
Con sua grande sorpresa, il portone si aprì, lasciando entrare cavaliere e destriero.
Varcato che ebbe l'ingresso, Scricciolo si trovò di fronte un salone buio, immenso, come l'esterno della torre non lasciava immaginare; non riuscendo a distinguere per bene i confini della sala, il cavaliere si trovò confuso, senza sapere bene come muoversi e che direzione intraprendere. Anche lo stallone, Manteo, così si chiamava, era nervoso e lo mostrava con continui nitriti e scalpitando. Lentamente entrambi proseguirono in linea retta, sperando di incontrare una porta o una luce, qualcosa che potesse indicare la via. Scricciolo si ricordò d'aver portato con sé una torcia, le diede fuoco sfregandola contro il pavimento, ma non appena il bagliore della fiamma illuminò i muri vicini, un alito di vento la spense, zittendo e quietando le flebili speranze che erano nate nel giovane eroe.
Una voce risuonò, potente, ululando nella sala: era quella di Aster, di questo Scricciolo era sicuro. Il mago invitava Tocai a proseguire se aveva coraggio e, incredibilmente, quelle parole furono chiare anche al giovane, gli penetrarono nel cuore prima ancora che nella mente. Era la prima volta che gli succedeva e la sensazione lo lasciò stordito, sbigottito. Mentre gli inviti del mago continuavano ad echeggiare, Tocai iniziava ad accorgersi di come quella voce fosse tutt'altro che ostile, di come il tono di quel mago fosse amichevole, familiare, paterno. Era semplicemente la voce che non aveva mai sentito, la lingua che non aveva mai ascoltato in Numenor.
C'era una volta un cavaliere errante, e questi, privo di patria e di nome, incontrò per sbaglio Altimer e Ramitla, per la via, mentre questi scendevano in città, fra la gente, e con i gesti e parole incomprese imponevano la loro legge. E il cavaliere li osservò mentre questi ricambiavano lo sguardo, ma rimase in silenzio, perché in quel regno, Numenor, lì dove la lingua non era una lingua, le parole non erano parole e le idee erano il muto simulacro di un'immagine silenziosa che si spegneva nella mente delle genti, lì allora non c'era niente da dire.
Tocai scese da cavallo, tanto ormai non c'era più bisogno di quel destriero. Lo lasciò alle soglie di un giardino che si apriva al piano terra della torre, interno, nascosto. Un ruscelletto lo bagnava scorrendo sonoramente, dalle sue cascatelle melodiosa nasceva una canzone che raccontava di infiniti spazi e infiniti silenzi, dello scorrere delle epoche, di monti e siepi e di mari, ampi come i mari antichi che tanto attraevano siccome tanto terrorizzavano. E per molti marinai era tanto dolce il naufragio in quelle distese senza confine.
Tocai prese a camminare attraverso un sentiero: il sentiero si dipanava come scalando le coste di una cima, ascendendo verso una vetta che ancora non intravedeva ma che doveva essere la cima della torre. tutto intorno un bosco via via più fitto, alberi sempreverdi si accostavano al suo viso, quasi vivi, sembravano avvicinarsi e allontanarsi a loro piacere, mentre un ricco sottobosco di cespugli, muschi, pareva avvinghiarsi giocosamente alle sue caviglie, corrergli intorno, canzonarlo.
Improvvisa accadde l'epifania di Aster.
Il mago gli comparve davanti come un uomo qualunque, vestito di un manto marrone, sembrava tessuto alla buona, eppure abbastanza caldo e accogliente da poter reggere agli abissi di infinite ere. I capelli erano scuri, corti, scendevano in una ciocca spettinata lungo la fronte, coprendo in parte delle sopracciglia folte e una fronte resa rugosa dallo studio di anni. Delle labbra sottili si insinuavano in una mascella secca e incavata. Ispirava rispetto, più che beltà.
Aster salutò calorosamente Tocai con un cenno della mano:
- Finalmente sei giunto, cavaliere.
Tocai si stupì nuovamente: capiva quanto gli veniva detto.
- Non stupirti, buon Tocai. Non è una mia magia questa, ma è la magia di questa torre; qui tutte le lingue si fondono e qualsiasi uomo giunga fra questi muri, qualsiasi uomo passeggi in questo sentiero è perfettamente in grado di intendere quanto gli altri dicono, pensano e vogliono. Questa torre nacque prima di ogni tempo, prima di me, prima di Altimer, prima di Ramitla, prima forse della vita stessa.
In questa torre si conserva la saggezza dei tempi, in questa torre si svelano gli inganni, si raccolgono i senni e il genio delle genti qui si conserva imperituro.
So che quanto ti sto dicendo penetra la tua mente, i tuoi nervi per la prima volta raccolgono le parole dette da un'altra anima. Eppure non capisci. Solo chi si è nutrito del frutto di questa torre è capace di comprendere tutto, di svelare gli inganni.
Ma dimmi, perché sei giunto qui?
Ma Tocai non seppe rispondere; ora che era difronte ad Aster, il senso della sua missione sfuggiva, scorreva fra le dita come la sabbia che si perde nel mare quando il fiume imperioso si getta nel suo estuario.
- Non ricordi, Tocai? Sei giunto qui per uccidermi. Te l'hanno ordinato Altimer e Ramitla. Loro vi tengono sotto la loro signoria, loro che, pur essendo vissuti in questa torre, non sono riusciti mai a nutrirsi di ciò che solo qui vive. Ma ciò che non ti hanno detto, è che l'unico modo che avrai per uccidermi e divenire il futuro sovrano di Numenor - e sarà poi vero? - è mangiare il fiore di loto nero, che ogni verità contiene. Ma quando conoscerai ogni verità, e conoscerai ogni inganno a cui vi sottopose la vita, la consuetudine, l'incomprensione, allora, Tocai, mi ucciderai o mi succederai? O non sono io altro che la tua immagine riflessa? non sono forse io, Aster, colui che uccise la verità per possederla?
Mentre Aster parlava, un bagliore, poco lontano il sentiero, colpì l'attenzione di Scricciolo, di un Tocai qualsiasi che d'improvviso diveniva l'ago della bilancia del futuro del mondo. Istintivamente, quando le parole del vecchio cessarono di risuonare nel suo cuore, si avvicinò a quella luce. Dentro uno scrigno intarsiato di motivi floreali, un frutto, buio come la notte eppure luccicante come le stelle del firmamento quando le nubi non le coprono.
Tocai esitò, si voltò indietro e vide che Aster era poco scostato, sorridente. Gli occhi però erano corrugati in una espressione al confine tra la tristezza e il sollievo.
Tocai afferrò il frutto e, con un gesto veloce, lo prese a morsi, sempre più voraci, fino a divorarlo.
E poi Tocai conobbe ogni verità e ogni inganno, ogni contraddizione, ogni parola e ogni fraintendimento. E il suo senno, nella conoscenza, fu perso.
C'era una volta un cavaliere errante, ma la sua via era ormai lontana da Numenor, e la sua storia, se mai sarà, sarà la storia di un altro racconto.
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