Il cimitero di Praga
Che Umberto Eco sia uno dei rari maestri della nostra narrativa contemporanea, è cosa nota. Che i tempi di scrittura delle sue opere siano lunghi in maniera proporzionale alla cura con cui l'autore trasfonde le sue conoscenze parola per parola, è altrettanto noto. Ma basta questo a rendere le sue opere memorabili?
Purtroppo no, o almeno, non sempre.
Ad esempio, è quanto accadde con la sua ultima creazione, Il cimitero di Praga, opera d'ingegno indubbiamente di mirabile fattura, a cui eppure manca il lume del genio. È come avere fra le mani una scultura prodotta da un bravissimo artigiano a cui manchi però l'estro dell'artista.
Con ordine. Il romanzo non è affatto un brutto scritto, anzi. Non appena si iniziano a legge le prime pagine si riconosce immediatamente l'Eco del Nome della rosa che gioca con la veridicità della storia e con la profondità delle parole. C'è nell'autore il tratto riconoscibilissimo del professore esperto del significato più profondo e della logica della lingua, strumento con cui Eco si diverte a giocare grazie a fughe descrittive che possono riguardare paesaggi, architetture, descrizioni fisiche o dell'umore dei suoi protagonisti, fino alle numerose ricette, tutte splendidamente inserite nell'opera.
La costruzione tra fabula e intreccio non è di certo semplice, costringendo il lettore a porre molta attenzione durante la lettura; proprio per questo motivo il romanzo risulta troppo complesso per il lettore medio.
È proprio però a livello della struttura che, dopo l'entusiasmo iniziale, si scorgono le lacune del testo. In alcuni momenti lo scorrere della narrazione sembra farraginoso e la psicologia dei personaggi più abbozzata secondo dei cliché che realmente approfondita. Tutto ciò malgrado la veridicità dei fatti raccontati dall'autore, veridicità che avrebbe invece dovuto aiutare a rendere più credibile il testo.
Si ha come l'impressione che il romanzo, almeno nelle ultime cento pagine, si trascini, senza sapere più bene dove andare a parare. Impressione che giunge fino alla conclusione, conclusione che lascia con l'amaro in bocca, con la sensazione che giunga ex abrupto e senza un vero perché.
Il cimitero di Praga dà al lettore l'impressione di essere una promessa mancata, un regalo atteso per anni e di cui l'attesa ha forse inficiato la possibilità di gustare a pieno il sapore.
Purtroppo no, o almeno, non sempre.
Ad esempio, è quanto accadde con la sua ultima creazione, Il cimitero di Praga, opera d'ingegno indubbiamente di mirabile fattura, a cui eppure manca il lume del genio. È come avere fra le mani una scultura prodotta da un bravissimo artigiano a cui manchi però l'estro dell'artista.
Con ordine. Il romanzo non è affatto un brutto scritto, anzi. Non appena si iniziano a legge le prime pagine si riconosce immediatamente l'Eco del Nome della rosa che gioca con la veridicità della storia e con la profondità delle parole. C'è nell'autore il tratto riconoscibilissimo del professore esperto del significato più profondo e della logica della lingua, strumento con cui Eco si diverte a giocare grazie a fughe descrittive che possono riguardare paesaggi, architetture, descrizioni fisiche o dell'umore dei suoi protagonisti, fino alle numerose ricette, tutte splendidamente inserite nell'opera.
La costruzione tra fabula e intreccio non è di certo semplice, costringendo il lettore a porre molta attenzione durante la lettura; proprio per questo motivo il romanzo risulta troppo complesso per il lettore medio.
È proprio però a livello della struttura che, dopo l'entusiasmo iniziale, si scorgono le lacune del testo. In alcuni momenti lo scorrere della narrazione sembra farraginoso e la psicologia dei personaggi più abbozzata secondo dei cliché che realmente approfondita. Tutto ciò malgrado la veridicità dei fatti raccontati dall'autore, veridicità che avrebbe invece dovuto aiutare a rendere più credibile il testo.
Si ha come l'impressione che il romanzo, almeno nelle ultime cento pagine, si trascini, senza sapere più bene dove andare a parare. Impressione che giunge fino alla conclusione, conclusione che lascia con l'amaro in bocca, con la sensazione che giunga ex abrupto e senza un vero perché.
Il cimitero di Praga dà al lettore l'impressione di essere una promessa mancata, un regalo atteso per anni e di cui l'attesa ha forse inficiato la possibilità di gustare a pieno il sapore.
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