Daniel Pennac, Diario di scuola - un'occasione mancata?
Diario di scuola di Daniel Pennac è un'occasione mancata da questo autore? Può darsi, ma rimane comunque un bel libro da leggere, consigliato.
Partendo dai suoi ricordi di scolaro, Pennac ripercorre la sua vita a scuola, prima da studente pluriripetente, svogliato e somaro, come egli stesso si definisce, fino alla sua carriera da docente, tra i suoi successi e i suoi fallimenti, non senza digressioni e ampi excursus riflessivi.
Diario di scuola è un testo scorrevole, di piacevole lettura, che parte da un'idea interessante e non abusata, vedere la scuola dal punto di vista di chi non ce la fa, e vedere perché lo studente medio, quello privo di doti spiccate e che in genere fa penare i suoi docenti, fa fatica nell'apprendimento, quali sono le sue colpe, quelle della famiglia, quelle della società e quelle, infine, della scuola stessa.
Il viaggio attraversa le generazioni che si sono succedute tra i banchi della scuola pubblica francese dagli anni cinquanta dello scorso secolo fino ad oggi, analizzando quanto c'è di comune fra gli studenti di ieri e di oggi, e quanto di diverso. Dai golfini rammendati dalle mamme ai ragazzi abbandonati a se stessi delle banlieau.
Viaggio interessante, soprattutto per gli addetti ai lavori. E tuttavia non si può non notare come spesso Pennac cada nella trappola dell'autocelebrazione, trappola di cui si avvede e per cui egli stesso si irride, senza tuttavia scansarla. E così spesso la narrazione di Pennac, pur così naturalmente ricca, cade nella retorica. La peggiore delle retoriche, forse, quella del ricordo ammantato di ideale, soprattutto quando traccia le immagini delle figure cardine del suo passato da studente, quei docenti che l'hanno salvato dal sentirsi totalmente solo e abbandonato. L'addetto ai lavori nota così come quelle figure siano ormai incardinate nell'immagine idealizzata, prive di difetti, sbozzate esclusivamente dalla roccia del ricordo, non dalla pietra viva della realtà.
Tuttavia il romanzo ha l'enorme merito di mettere in luce le reali difficoltà del docente contemporaneo, in una società, quella francese, avanti di qualche anno rispetto a quella italiana e che si trova ad affrontare problemi con cui noi solo in minima parte abbiamo a che fare. Pennac ha dalla sua di non demonizzare i fenomeni con cui viene a contatto, i ragazzi sbandati delle periferie, i figli degli immigrati che cercano di trovare una loro identità non sono né angeli né demoni, ma solo adolescenti o bambini che si dimenano fra le loro paure a la loro ingenuità che permette al mondo degli adulti di manovrarli secondo leggi che sfuggono loro.
Un libro insomma non perfetto: come sempre Pennac parte da presupposti che ammiro ma mi delude nella realizzazione. Tuttavia un libro da leggere, quanto meno per riconoscere i propri docenti nelle figure ideali che Pennac traccia dei suoi.
Partendo dai suoi ricordi di scolaro, Pennac ripercorre la sua vita a scuola, prima da studente pluriripetente, svogliato e somaro, come egli stesso si definisce, fino alla sua carriera da docente, tra i suoi successi e i suoi fallimenti, non senza digressioni e ampi excursus riflessivi.
Diario di scuola è un testo scorrevole, di piacevole lettura, che parte da un'idea interessante e non abusata, vedere la scuola dal punto di vista di chi non ce la fa, e vedere perché lo studente medio, quello privo di doti spiccate e che in genere fa penare i suoi docenti, fa fatica nell'apprendimento, quali sono le sue colpe, quelle della famiglia, quelle della società e quelle, infine, della scuola stessa.
Il viaggio attraversa le generazioni che si sono succedute tra i banchi della scuola pubblica francese dagli anni cinquanta dello scorso secolo fino ad oggi, analizzando quanto c'è di comune fra gli studenti di ieri e di oggi, e quanto di diverso. Dai golfini rammendati dalle mamme ai ragazzi abbandonati a se stessi delle banlieau.
Viaggio interessante, soprattutto per gli addetti ai lavori. E tuttavia non si può non notare come spesso Pennac cada nella trappola dell'autocelebrazione, trappola di cui si avvede e per cui egli stesso si irride, senza tuttavia scansarla. E così spesso la narrazione di Pennac, pur così naturalmente ricca, cade nella retorica. La peggiore delle retoriche, forse, quella del ricordo ammantato di ideale, soprattutto quando traccia le immagini delle figure cardine del suo passato da studente, quei docenti che l'hanno salvato dal sentirsi totalmente solo e abbandonato. L'addetto ai lavori nota così come quelle figure siano ormai incardinate nell'immagine idealizzata, prive di difetti, sbozzate esclusivamente dalla roccia del ricordo, non dalla pietra viva della realtà.
Tuttavia il romanzo ha l'enorme merito di mettere in luce le reali difficoltà del docente contemporaneo, in una società, quella francese, avanti di qualche anno rispetto a quella italiana e che si trova ad affrontare problemi con cui noi solo in minima parte abbiamo a che fare. Pennac ha dalla sua di non demonizzare i fenomeni con cui viene a contatto, i ragazzi sbandati delle periferie, i figli degli immigrati che cercano di trovare una loro identità non sono né angeli né demoni, ma solo adolescenti o bambini che si dimenano fra le loro paure a la loro ingenuità che permette al mondo degli adulti di manovrarli secondo leggi che sfuggono loro.
Un libro insomma non perfetto: come sempre Pennac parte da presupposti che ammiro ma mi delude nella realizzazione. Tuttavia un libro da leggere, quanto meno per riconoscere i propri docenti nelle figure ideali che Pennac traccia dei suoi.
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