Le avventure del giovin imperatore
Ci fu un tempo in cui un giovin imperatore, in forte ascesa fra le sue genti, impose, con la sua sottile ars eloquendi, il suo fine discernimento su innocenti popoli. Il suo potere si stendeva incontrastato dalle pianure brumose sino alle isole bagnate dalla spuma d'Afrodite, e le sue alleanze si tessevano dagli ambrati comandanti d'occidente fino ai parenti delle sue amanti del sud.
Egli reggeva il suo regno con pugno saldo e larghe elargizioni di panem et calciatores, e i suei fedeli, i praedelliniensi, erano guida ed esempio per il popolo, che in loro vedeva saggezza e morale.
Giunto alfine al potere supremo, il giovin imperatore si ritrovò a dover dare vigore costituzionale al suo potere assoluto: ma come fare! Lui, difensore della democrazia liberale, come poteva divenire il nostro signore? Gli venne in aiuto un suo fedelissimo, N. Ghedinus, principe del foro. Ghedinus, avvicinatosi al trono del giovin imperatore presso la corte, proclamò innanzi al popolo tutto, in ammutolita contemplazione, il suo arguto argomento: "questi non è primus inter pares, questi è primus super pares". Stupore e sbigottimento fra le menti per cotanto obrobrio latinorum, finché taluno, con fare incerto, disse: ma quindi, cotanta boiata, per dire che egli è un rex?" E giù di fischi, ed il povero Ghedinus dovette tornare rapido alle sue camere, mentre il prode Gasparrus, per non saper né leggere né scrivere, proponeva l'arresto preventivo per chi poteva anche solo pensare che i praedelliniensi potevano dire vaccate.
Ma i nemici del giovin imperatore si trovavano fra i togati: non gli eletti al senato, tutti accortamente scelti per il bene della gente, grazie a mirabil norma che impediva l'elezione ad una torma incompetente, ma demandava la ricerca del meglio ai capi fazione, notoriamente interessati all'interesse del popolo minuto. Sorse certo una vaga opposizione, specie quando il giovin imperatore decise di eleggere ad uno degli scranni del senato un cavallo della sua stalla: ma egli l'avea fatto solo a favore al suo stalliere, noto eroe popolare proveniente dalle isole del sud, che egli, con generosa prodigalità, provvedeva a riabilitare dai suoi passati errori.
I togati di cui parlavamo erano la mala stirpe degli Inquirentes, gente inetta, avente sprecati gli anni migliori della loro vita su polverosi libri e manoscritti datati, taluni di questi volumi chiamati costitutiones. Questi Inquirentes, riconoscibili per la toga tinta del rosso sangue dei poveri malcapitati che capitavano sotto le loro mani, contestavano le sue abitudini private e i suoi giusti arricchimenti. Ritenevano immorale il suo frequentare graziose creature, con cui soleva sollazzarsi nelle tetre serate invernali primaverili estive e autunnali nelle sale del potere, quando il capo sente acuta la solitudine del potere. Allora neanche la compagnia dei suoi mecenati, Fides e Lelemoras, bastava a stendere il sorriso sul suo volto, e solo le veneree forme di donne del sud, verso cui il giovin imperatore mostrava tutta la sua gratuita bontà, poteva ridargli felicità. Lo accusavano, ecco, di profittare di quelle giovani fanciulle: ma veniva in suo soccorso il buon Ghedinus; egli ne era solo fruitore ultimo e inconsapevole; erano loro, tutte, a desiderare concupiscenti la sua compagnia, e la compagnia delle vagonate di sesterzi che elargiva.
Egli costruiva ponti chilometrici, pietra per pietra, nel corso dei decenni: rifaceva strade in tempo per i successivi crolli; rimetteva in piedi, casa in legno di casa in legno, le città colpite dai terremoti.
I suoi fedeli controllavano la cultura, il buon Bondus, dimentico delle passate glorie, ingloriava il nuovo stato con le sue poesie, mentre la Gelmina, amazzone compagna di mille battaglie, toglieva alle ricche scholae publicae, ricettacolo di pericolosi docentes provenienti dall'incivile meridione, per dare alle sacre scholae privatae.
Tremontinus si dilettava ad inventare nuovi apparecchi che, con illusioni ottiche degne del saggio Archimede, facessero credere come tutti si ritrovassero più ricchi quando mancavano persino il pane e la cipolla, mentre il buon Brunettulus fustigava gli schiavi pubblici affinché la smettessero di lamentarsi di essere fustigati.
Un poco di tedio gli dava il fisco, e non capiva come fisco ed erario non potessero essere da lui controllati; poi ideò cotanto geniale stratagemma: il fisco regionale, quello provinciale, quello municipale e quello condominiale: e poi pensò che se ogni autonomia poteva estendere il controllo sulle tasse che gli spettavano, perché non inglobare le autonomie altrui nella sua? E il popolo un poco temette il suo progetto di restaurare la sua villa, Villa delle Grazie, chiamandola Domus Aurea...
Quando i togati alfine giunsero quasi a processarlo, egli pensò bene di accorciare i tempi massimi consentiti per i processi, e vuoi per un impegno, vuoi per un altro, tutti legalmente dimostrati dal sottile Ghedinus, gli Inquirentes furono costretti a riconoscere la sua immunità.
E fu così che il giovin imperatore, fra una barzelletta e l'altra, divenne il signore assoluto del suo paese
Egli reggeva il suo regno con pugno saldo e larghe elargizioni di panem et calciatores, e i suei fedeli, i praedelliniensi, erano guida ed esempio per il popolo, che in loro vedeva saggezza e morale.
Giunto alfine al potere supremo, il giovin imperatore si ritrovò a dover dare vigore costituzionale al suo potere assoluto: ma come fare! Lui, difensore della democrazia liberale, come poteva divenire il nostro signore? Gli venne in aiuto un suo fedelissimo, N. Ghedinus, principe del foro. Ghedinus, avvicinatosi al trono del giovin imperatore presso la corte, proclamò innanzi al popolo tutto, in ammutolita contemplazione, il suo arguto argomento: "questi non è primus inter pares, questi è primus super pares". Stupore e sbigottimento fra le menti per cotanto obrobrio latinorum, finché taluno, con fare incerto, disse: ma quindi, cotanta boiata, per dire che egli è un rex?" E giù di fischi, ed il povero Ghedinus dovette tornare rapido alle sue camere, mentre il prode Gasparrus, per non saper né leggere né scrivere, proponeva l'arresto preventivo per chi poteva anche solo pensare che i praedelliniensi potevano dire vaccate.
Ma i nemici del giovin imperatore si trovavano fra i togati: non gli eletti al senato, tutti accortamente scelti per il bene della gente, grazie a mirabil norma che impediva l'elezione ad una torma incompetente, ma demandava la ricerca del meglio ai capi fazione, notoriamente interessati all'interesse del popolo minuto. Sorse certo una vaga opposizione, specie quando il giovin imperatore decise di eleggere ad uno degli scranni del senato un cavallo della sua stalla: ma egli l'avea fatto solo a favore al suo stalliere, noto eroe popolare proveniente dalle isole del sud, che egli, con generosa prodigalità, provvedeva a riabilitare dai suoi passati errori.
I togati di cui parlavamo erano la mala stirpe degli Inquirentes, gente inetta, avente sprecati gli anni migliori della loro vita su polverosi libri e manoscritti datati, taluni di questi volumi chiamati costitutiones. Questi Inquirentes, riconoscibili per la toga tinta del rosso sangue dei poveri malcapitati che capitavano sotto le loro mani, contestavano le sue abitudini private e i suoi giusti arricchimenti. Ritenevano immorale il suo frequentare graziose creature, con cui soleva sollazzarsi nelle tetre serate invernali primaverili estive e autunnali nelle sale del potere, quando il capo sente acuta la solitudine del potere. Allora neanche la compagnia dei suoi mecenati, Fides e Lelemoras, bastava a stendere il sorriso sul suo volto, e solo le veneree forme di donne del sud, verso cui il giovin imperatore mostrava tutta la sua gratuita bontà, poteva ridargli felicità. Lo accusavano, ecco, di profittare di quelle giovani fanciulle: ma veniva in suo soccorso il buon Ghedinus; egli ne era solo fruitore ultimo e inconsapevole; erano loro, tutte, a desiderare concupiscenti la sua compagnia, e la compagnia delle vagonate di sesterzi che elargiva.
Egli costruiva ponti chilometrici, pietra per pietra, nel corso dei decenni: rifaceva strade in tempo per i successivi crolli; rimetteva in piedi, casa in legno di casa in legno, le città colpite dai terremoti.
I suoi fedeli controllavano la cultura, il buon Bondus, dimentico delle passate glorie, ingloriava il nuovo stato con le sue poesie, mentre la Gelmina, amazzone compagna di mille battaglie, toglieva alle ricche scholae publicae, ricettacolo di pericolosi docentes provenienti dall'incivile meridione, per dare alle sacre scholae privatae.
Tremontinus si dilettava ad inventare nuovi apparecchi che, con illusioni ottiche degne del saggio Archimede, facessero credere come tutti si ritrovassero più ricchi quando mancavano persino il pane e la cipolla, mentre il buon Brunettulus fustigava gli schiavi pubblici affinché la smettessero di lamentarsi di essere fustigati.
Un poco di tedio gli dava il fisco, e non capiva come fisco ed erario non potessero essere da lui controllati; poi ideò cotanto geniale stratagemma: il fisco regionale, quello provinciale, quello municipale e quello condominiale: e poi pensò che se ogni autonomia poteva estendere il controllo sulle tasse che gli spettavano, perché non inglobare le autonomie altrui nella sua? E il popolo un poco temette il suo progetto di restaurare la sua villa, Villa delle Grazie, chiamandola Domus Aurea...
Quando i togati alfine giunsero quasi a processarlo, egli pensò bene di accorciare i tempi massimi consentiti per i processi, e vuoi per un impegno, vuoi per un altro, tutti legalmente dimostrati dal sottile Ghedinus, gli Inquirentes furono costretti a riconoscere la sua immunità.
E fu così che il giovin imperatore, fra una barzelletta e l'altra, divenne il signore assoluto del suo paese
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