Il canto delle sirene

IL CANTO DELLE SIRENE

SEBASTIANO VALENTINO CUFFARI



Il canto delle sirene, ormai Adiraste di Araverne voleva ascoltarlo. Aveva letto ogni singolo manoscritto su quelle creature, aveva vagato di biblioteca in biblioteca per tutto il mondo conosciuto e oltre, sino a spingersi all'Estremo Oriente, lì dove la pelle degli uomini si tingeva d'un giallo paglierino che sapeva, ai suoi occhi, di esotico e malato. Ovunque aveva sentito parlare delle sirene, metà donne metà bestie, che sonnecchianti attendono sul fondo delle acque il passaggio dei marinai: allora esse si mostrano, epifania crudele e sublime, e nei loro occhi balenano le immagini di mondi scomparsi, mondi sommersi dalla storia e dalle onde, dal tempo che scorre e tutto cancella senza lasciare, al fine, traccia.

Voleva con tutto il cuore ascoltare la loro voce: troppo tempo era passato da quando qualcosa l'aveva colpito davvero, troppe persone avevano attraversato la sua strada senza che le loro orme avessero intersecato la sua via; troppi nomi erano svaniti nella sua mente, insignificanti, sconfitti e sovrastati da nuove speranze e nuove delusioni. Ora cercava quelle voci perché nei testi aveva appreso che loro, ultima, era la conoscenza. Ma i testi lo avvertivano: quel canto era ingannevole, menzogna e verità si mescolavano in esso senza remora; allorché poi l'uomo riuscisse a discernere con le sue arti la scintilla del vero fra quelle melodie, giungerebbe, immediata, la morte.

La rotta l'aveva appresa da dei mercanti d'oriente: varcato il mare interno, oltre le ultime spiagge che dalle coste del sud guardano sonnolente le acque degli oceani, volgeva la sua vela verso ovest. Lì l'orizzonte si perdeva senza confine tra l'azzurro del cielo perennemente terso ed il buio delle acque querule. Talora le pinne delle bestie oceaniche s'affacciavano seminascoste, scrutavano l'albero della barca e poi, silenti, ritornavano nel loro mondo.
Estraneo a quella distesa, Adiraste la solcava come uomo alla deriva che affida al vento e alla volontà delle divinità il suo fato; sempre verso ovest, finché il giorno confinerà con la notte, le acque si cheteranno e da ripidi scogli si scorgerà lo splendore di lire dorate.
Nel suo viaggio muto e solingo ripensava alle persone perdute, agli amici che le distanze e le incomprensioni avevano allontanato; ripensava alle amanti mai amate, alle persone che gli avevano insegnato qualcosa e a quelle da cui, suo malgrado o per sua colpa, non aveva appreso nulla. Ricordava il profumo delle margherite ed il colore del topazio, le urla di sua madre e le lacrime di suo padre, il suono della ruota che cigola e l'abbaiare di cani di notte. Riteneva negli occhi le mura possenti di Araverne, il loro granito ed i loro smalti: tutto gli parlava della sua terra e del suo passato, dell'amore che non aveva mai provato e di ciò che cercava senza conoscerne il nome. Cercava risposte a domande che non sapeva formulare.
Invece trovava porti di terre ignote, torri dorate dalle fondamenta rivolte verso il cielo, balconi di case che davano a picco sul mare, appesi a travicelle incrostate di sale sporgenti sul nulla. Conobbe le città di Tanelorn, Amenelos, Atlas, costeggiò le Isole dei beati e l'alto monte che sorge all'emisfero australe. Ovunque nuova umanità, nuovi nomi per visioni note ed ignote: ma nessuna traccia delle risposte che anelava.

La voce dei gabbiani lo risvegliò al mattino, nunzio di nuove coste. Eppure in ogni direzione non intravedeva né monti né vallate, né giungevano gli odori dei frutti di stagione. Solo il richiamo dei gabbiani, sempre più stridulo e frequente, ricorsivo rigurgito di vita su di un oceano morto. La luna ancora illuminava quieta la sua vela, la spuma delle onde si stendeva sulla sua legna, la dimenticanza lo aveva colto ormai dai molti anni trascorsi dall'inizio del viaggio. Non conosceva più il nome delle cose, la sua lingua non ricordava più l'articolazione delle vocali: la barba folta sbozzata dal coltellaccio che sviscerava i pesci ricopriva le rughe d'un uomo anziano, dalla pelle scurita dal sole e dal giungere imperterrito della fine.
Il bagliore di quelle lire lo accolse, ma lui, ormai quasi cieco, non riuscì a riconoscerlo; lo scrosciare dell'oceano l'aveva reso ormai sordo alle note, ed il canto gli sembrò impercettibile finché non fu in prossimità di quelle creature adagiate su bassi scogli di lava e di ghiaccio. Il freddo solamente lo vinceva, lo intorpidiva costringendolo ad un fragile sonno, ma quei visi ne raccoglievano l'attenzione nell'ultimo anelito di vita.
Fissandole cercava di cogliere le loro parole, ma gliene sfuggiva il senso. Le vedeva inneggiare, accogliere fra le loro braccia sole e luna, acqua e fuoco, cielo e terra, ma di tutto gli sfuggiva il significato. Sbarcato sullo scoglio, attratto da quelle labbra che rincorreva da una vita si accostò alla fine ad una delle sirene; lo strinse fino ad assecondarne l'ultimo respiro, e nel mentre la creatura gli narrava la sua ultima verità: nulla aveva mai avuto un senso, e tutto ciò che aveva era ciò che aveva perso.
Stretto in quell'abbraccio, il ghiaccio lo accolse eterno.

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