Marchionne parla dell'Italia, ma dimentica qualcosina (e con lui Capezzone)
Ogni tanto senti parlare i potenti, e nel tuo piccolo, t'incazzi. Perché va bene tutto, è sacrosanto pensare che l'Italia vada riformata, profondamente. Ma poi, chi ha il culetto parato, dovrebbe smettere di pensare che la flessibilità del lavoro debba per forza coincidere con la perdita dei diritti sociali, che la flessibilità debba coincidere con una precarizzazione estrema del lavoro.
Sfido Marchionne, i tanti rappresentanti del mondo industriale, a farsi un anno, un anno solo, da co co pro, da operai, da precari della scuola. Sfido i potenti italiani a confrontarsi sui problemi veri, invece di perdere tempo per trovare un modo per non fare processare Berlusconi. Perché quando si parla di flessibilità bisognerebbe tornare, forse, a ciò che Biagi intendeva per vera flessibilità, anziché cavalcare quella riforma del lavoro solo quando bisogna osteggiare la sinistra.
Perché flessibilità vuol dire processo d'istruzione permanente, capacità di formare anche nella maturità nuove e competenti figure professionali, rendere sempre più specifiche, all'interno di un progetto d'istruzione ben definito, le figure lavorative, consentendo tuttavia la reinvenzione del lavoratore nel momento della necessità.
Flessibilità vuol dire premiare chi fa ricerca all'interno delle università, non umiliarlo. Flessibilità vuol dire incentivare l'istruzione, non declassarla a mero strumento politico, lì dove costruire un polo scolastico è funzionale solamente all'esposizione dei simboli di partito o di simboli religiosi.
Insomma, riformare l'istruzione vuol dire premiarla, non dedicarsi alla distruzione di quanto di buono ancora esisteva in un sistema scolastico che, quanto meno, si barcamenava sulla base della buona volontà dei suoi principali strumenti, ovvero quegli insegnanti che ora, sistematicamente, si cerca di colpire e umiliare, sulla base di un becero presupposto: l'insegnante è di sinistra, e come tale va punito. Formare vuol dire imparare a ragionare, imparare ad avere uno spirito critico che consenta, all'occorrenza, di modificare e reinventare se stessi. Ogni governo che voglia colpire questo presupposto è, che lo voglia o no, liberticida e tirannico. Un governo che accetta nel suo seno proposte come quelle delle classi ghetto per gli stranieri o i disabili, ogni governo che volutamente colpisca e anestetizzi lo studio delle materie scientifiche e di quelle umanistiche, è un governo tirannico. E questo non è inneggare alla violenza, come si vuole fare credere, è semplicemente mettere sul piatto della bilancia i fatti e non le belle parole. Con buona pacce di quanti, uomini, uominicchi e quaquaraqua, come molti dei portavoce e cambia bandiera nel presente governo.
Riformare il mondo del lavoro non vuol dire ridurre il peso dei sindacati nelle trattative e ridurre, soprattutto, il potere d'acquisto dei lavoratori, costringendoli così ad umilianti accordi alla "prendere o lasciare" per poter racimolare quel tanto che basta per arrivare alla fine del mese.
Riformare il mondo del lavoro vuol dire prevedere una politica industriale e di azienda, non millantarla per un intero mandato o per la durata del proprio incarico da direttore d'azienda, o di ministro, ad interim o no, senza poi mai dedicarsi davvero a ciò per cui si ha preso una poltrona. Dove sono le riformepromesse? dov'è il cambiamento annunciato? Brucia forse nei roghi della spazzatura di Terzigno e di Napoli, oppure è sommerso dai crolli dell'Aquila. Perché le macerie italiane stanno ancora tutte lì, sommate con le nuove, mentre c'è ancora chi parla di lodi, impedimenti, ville e casupole.
E quando ce ne accorgeremo, o sarà lì che scatterà la vera violenza, Dio non voglia, oppure, forse ancor peggio, sarà troppo tardi per il paese.
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