Cesare Beccaria sulla pena di morte
Nel suo Dei delitti e delle pene (1771) Cesare Beccaria tratta in maniera analitica e argomentata il tema dell'utilità e della proporzione della pena e degli strumenti inquisitori. Nel capitolo XXVIII in particolare l'autore analizza l'uso della pena di morte, sostanzialmente confutandone l'utilità.
Secondo Beccaria nessuno stato ha diritto di usare la pena di morte perché questo diritto non esiste. Secondo la mentalità liberale e contrattualista a cui Beccaria fa riferimento infatti la società si sviluppa sulla base di minime concessioni della propria libertà da parte dei singoli individui, e la somma di queste concessioni costituisce la volontà collettiva; stando a questo assunto, è impossibile che qualsiasi cittadino conceda alla società qualcosa che è tutt'altro che una minima concessione, ovvero il bene massimo, cioè la propria libertà. Inoltre, se è una posizione condivisa che nessuno che appartenga ad una società possa disporre del proprio corpo fino a darsi volontariamente la morte, come è possibile pensare che questo stesso diritto che nessun cittadino possiede venga poi invece dallo stesso cittadino ceduto allo stato?
Beccaria immagina anche una possibile obiezione: l'uso della pena di morte da parte di uno stato non ha a che fare con il diritto; semmai si tratta di un vero e proprio atto di guerra da parte dello stato contro un cittadino, di cui risulta utile e necessaria la distruzione. Quali sono le condizioni in cui questa distruzione potrebbe essere utile? Per Beccaria si tratta di due casi: qualora questo cittadino, anche se detenuto, mantenga tanta potenza da sovvertire lo stato, e qualora la morte del condannato possa essere un deterrente che faccia in modo che altri non commettano lo stesso tipo di delitti.
Tuttavia Beccaria confuta queste argomentazioni: riguardo alla necessità di uccidere un cittadino che potrebbe sovvertire lo stato, per l'autore, se lo stato è ben ordinato e fonda la sua esistenza sulla volontà collettiva precedentemente citata, questa condizione non può sussistere; riguardo poi alla funzione di deterrenza, è esperienza comune che la pena di morte non riduca i delitti, perché ciò che può indurre la deterrenza non è l'episodio momentaneo, anche se traumatico, come può essere la condanna a morte; la detterrenza semmai si ottiene con la ccertezza della pena e sapendo che le pene si prolungheranno nel tempo: in questo caso agirà la prima matrice dei comportamenti umani, l'abitudine, che porterà sia il condannato che i suoi emuli a modificare i propri comportamenti e le proprie pulsioni. Del resto, proprio la vista dell'episodio momentaneo e traumatico della pena di morte non suscita negli spettatori l'auspicato terrore della pena, semmai suscita disgusto e pietà verso il condannato.
Conclude quindi Beccaria sostenendo che la pena debba essere proporzionale al delitto e avere come unico obiettivo rendere impossibile la ripetizione del reato: per questo la pena non può essere una guerra dello stato contro il cittadino. Proprio perché la funzione della pena deve essere quella di rieducare il reo e di impedire la reiterazione del reato, anche di fronte al peggiore dei reati e al più convinto dei colpevoli non sarà necessario ricorrere alla pena di morte, ma basterà l'uso dell'ergastolo.
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