I college americani e la controversia sui classici, e gli Italiani che la falsificano

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In questi giorni rimbalza sui media italiani la notizia che la Howard University si accinge alla chiusura del dipartimento di studi classici. La notizia, di per sé, sarebbe una di quelle cose a cui normalmente nel nostro paese nessuno darebbe importanza; ma dato che si tratta del college frequentato da Kamala Harris, la polemica sulla Cancel culture si nasconde dietro l'angolo. E infatti proditoriamente la questione viene cavalcata dal Corriere , da Huffington Post, Il Mattino, immancabile Il Giornale, e persino dall'agenzia ANSA. Tutti gli organi di stampa si rifanno ad un articolo pubblicato dal Washington Post firmato da Cornel West. Nel suo articolo West in realtà adombra quella che è la vera questione: il dipartimento viene chiuso perché non ha un numero adeguato di iscritti ai propri corsi, come confermato dalla stessa università; si tratterebbe quindi di una questione economica. Del resto proprio West dice nel suo articolo che l'aver trasformato la scuola in una pratica di trasmissione di conoscenze con fini utilitaristici, l'approccio economicistico all'istruzione, avrebbe messo in secondo piano l'aspetto educativo dell'istruzione, aspetto educativo che troverebbe la sua massima espressione nell'insegnamento dialogico del "canone occidentale", a partire proprio dalla cultura classica.

Peccato che in Italia, nel riportare la notizia, si parli di altro. Intanto si cerca di beccare click con il nome di Kamala Harris; soprattutto, facendo riferimento al fatto che la Howard University ha negli afroamericani la maggioranza dei propri iscritti, si sottintende che l'operazione sia l'ennesimo frutto malato della Cancel culture che impervereserebbe in America (non senza sottintesi strali verso la "dittatura del politcamente corretto"). Basterebbe aver chiarito cosa dice la fonte originale per capire il lavoro meschino fatto dai giornalsti nostrani.

Ma la cosa va ben oltre: molti quotidiani tirano fuori le posizioni espresse da un noto classicista, Dan-El Padilla Peralta, docente a Princeton, che ha recentemente condannato senza mezzi termini la tradizione della classicità (ovvero come la classicità è stata tramandata e l'uso che è stato fatto della classicità nel recente passato) perché alla base dell'invenzione della superiorità della razza bianca sulle altre. È chiaro che però le posizioni di Padilla Peralta in questo caso non c'entrano proprio nulla, sono decontestualizzate. 

Sta di fatto che negli USA sono al momento vivi e vitali i dibattiti su due questioni distinte ma che si intersecano: gli studi sulla genesi e la concettualizzazione dell'idea di razza bianca, e in maniera corrsipondente quelli sulla concettualizzazione delle altre identità etniche; gli studi sull'apporto della cultura classica e (soprattutto) della sua tradizione alla formazione delle ideologie di destra e di estrema destra.

Riguardo alla genesi e alla concettualizzazione dell'idea di razza bianca, osserviamo ormai come questo costrutto sociale abbia una storia molto più breve di quanto immaginiamo e come questo concetto si sia evoluto nel corso del tempo, soprattutto negli USA, andando a comprendere nella "razza bianca" anche etnie in un primo tempo escluse, come per esempio quella italiana. Tuttavia, si può in qualche modo affermare che 

the invention of a white racial identity was motivated from the start by a need to justify the enslavement of Africans. In the words of Eric Williams, a historian who later became the first prime minister of Trinidad and Tobago, “slavery was not born of racism: rather, racism was the consequence of slavery"

La concettualizzazione della razza bianca quindi viaggia in parallelo alla pratica dello schiavismo: ne costituisce l'apparato ideologico, assieme all'evangelizzazione cristiana. Tanto che

The economic utility of the idea of whiteness helped spread it rapidly around the world [...] The idea of whiteness, in other words, was identical to the idea of white supremacy. For the three centuries that preceded the civil rights movement, this presumption was accepted at the most refined levels of culture, by people who, in other contexts, were among the most vocal advocates of human liberty and equality. It is well known that Immanuel Kant argued we should treat every other person “always at the same time as an end and never simply as a means”. Less well known is his proposal, in his Lectures on Physical Geography, published in 1802, that “humanity is at its greatest perfection in the race of the whites”, or his claim, in his notes for his Lectures on Anthropology, that native “Americans and Negroes cannot govern themselves. Thus, serve only as slaves”

Solo nei tardi anni '90 del Ventesimo secolo il suprematismo bianco viene a tutti gli effetti annoverato tra le forme del razzismo, non senza aver assistito al paradosso, ai tempi di Reegan, di un presidente degli USA che, di fronte alla richiesta di norme che contrastino il suprematismo bianco nelle istituzioni e nella legislazione, accusava gli attivisti di razzismo e di giudicare le persone in base al colore della pelle (bianca).

Altra questione è quella degli studi sulla classicità e il razzismo. Dalla pubblicazione di Black Athena in poi si inizia a porre negli studi classici la questione dell'omissione delle influenze e dell'importanza dell'apporto degli immigrati e degli schiavi nella formazione della cultura classica greco-romana. Opinione comune, riassunta da Ashley Montagu in La razza, analisi di un mito, è che la classicità, in primis quella greca, sia stata immune dell'idea di un razzismo biologico, semmai abbia conosciuto l'etnocentrismo. Montagu stessa però è costretta ad ammettere un'eccezione, quella della teoria della schiavitù di Aristotele. Secondo la gran parte degli antichisti, dato che per molti fra gli antichi il carattere degli uomini viene forgiato dall'ambiente, questa idea avrebbe fornito una sorta di antidoto alla formazione di una qualsiasi forma di razzismo, ristretto all'aspetto biologico o allargato ad una visione più esistenzialista: sostanzialmente, per questa visione, se prendi un uomo nato magari in Egitto e lo trapianti in Grecia non è da escludere che, cambiate le condizioni climatiche e il contesto geografico, quell'uomo possa acquisire tutte le caratteristiche che lo potranno alla pienezza dell'essere uomo, l'essere greco. Tuttavia, come osservato, permane l'eccezione, portatrice di conseguenze, della teoria aristotelica. Secondo Bonabello in I Greci a Valladolid. Sul problema della genesi del razzismo nella cultura occidentale 

Per Aristotele l’inferiorità biologica dello schiavo consiste più precisamente in una imperfezione del logos , che risulterebbe del tutto privo della “parte deliberativa” [...]. Se ci spostiamo dalla Politica all’Etica Nicomachea, possiamo valutare quale grave menomazione rappresenti, nell’ottica aristotelica, la mancanza del bouleutikon .

e ancora 

Se però si tiene presente la già menzionata specularità nel mondo antico tra la figura del Barbaro e quella dello schiavo, la teoria dell’inferiorità naturale dello schiavo non può che implicare a sua volta l’idea di un’inferiorità parimenti biologica e innata del Barbaro rispetto al Greco: «Perciò» – dichiara infatti Aristotele – «dicono i poeti “che sui Barbari i Greci imperino è naturale”, come se per natura fosse la stessa cosal’essere Barbaro e l’essere schiavo»

Del resto Juan Ginés de Sepúlveda nella causa tra Spagnoli e Indiani d'America del 1542 sostenne le tesi del primato spagnolo sugli indigeni americani proprio partendo dal suo commento alla teoria aristotelica della schiavitù. Ancora, è soprattutto nella commedia e nella tragedia greca che osserviamo come la figura del barbaro coincida con la figura dello schiavo perché naturalmente inferiore. In un certo senso, possiamo quindi affermare che nella classicità si affrontano due maniere diverse per interpretare "l'altro": l'una che attribuisce le caratteristiche degli uomini al clima e alle differenze geografiche (soprattutto Ippocrate), l'altra che attribuisce le differenze a caratteristiche che definiremmo esistenziali, innate, ed ereditarie, tali da porre l'uomo greco in una condizione di superiorità sugli altri (Aristotele). 

Nel contesto di questo dibattito, negli USA l'azione di una rivista come Eidolon, nata e defunta nei dipartimenti di studi classici e redatta da provetti classicisti, ha portato a sviluppare e ad analizzare il tema dei classici e del razzismo, soprattutto, come si diceva, della tradizione e della ricezione dei classici, ad esempio osservando come della tradizione classica si approprino oggi gruppi di destra e di estrema destra armati in formazioni paramilitari: è qui quindi che si intersecano i due filoni di studi, quello sulla costruzione dell'idea di razza bianca e quello del razzismo nei classici.

Proprio a partire dalla redazione di Eidolon e degli studiosi citati è nata la spinta nelle università americane verso una rilettura dei classici, rilettura che abbia come scopo non la loro cancellazione, ma la loro contestualizzazione e una loro analisi che non tema di evidenziarne i tratti francamente razzisti, o smascherare i tentativi di appropriazione indebita da parte dei suprematisti bianchi. In un caso come nell'altro, si tratta di un tentativo di guardare con occhi diversi quanto è stato tramandato, non temendo di metterlo in discussione, o di discuterne contenuti troppo facilmente celebrati nel corso dei secoli. Questa potrà apparire agli occhi dei più tradizionalisti una forma di Cancel culture (e gli articoli dei quotidiani sopracitati non faranno altro che alimentare questa idea), ma, come si evince da quanto scritto in questo post, lo scopo è tutt'altro: se la cifra della classicità è il continuo dialogo critico con il passato come altro da noi, come sostiene West sul Washington Post, allora se vogliamo che la classicità sopravviva occorre che questo dialogo sia franco, non reverenziale. Pena la scomparsa definitiva, perché ormai insignificante, della vera sostanza della classicità. Se, riprendendo l'oracolo di Delfi, vogliamo conoscere noi stessi, dobbiamo avere il coraggio di porre domande e di smettere di ammirare incondizionatamente il nostro passato e la nostra tradizione.

 

 


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